News 26 Aprile 2017 - Area Tecnica


NORMATIVA

Lavoro accessorio e responsabilita' solidale in materia di appalti: in Gazzetta Ufficiale la legge di conversione

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È stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 94 del 22.4.2017 la legge n. 49/2017 di conversione del decreto-legge 17 marzo 2017, n. 25. Per approfondire vai al TESTO COORDINATO DEL DECRETO-LEGGE 17 marzo 2017, n. 25  recante "Ripubblicazione del testo del decreto-legge 17 marzo 2017, n. 25 (inGazzetta Ufficiale - Serie generale - n. 64 del 17 marzo 2017), convertito, senza modificazioni, dalla legge 20 aprile 2017, n. 49 (in questa stessa Gazzetta Ufficiale - alla pag. 1), recante: "Disposizioni urgenti per l'abrogazione delle disposizioni in materia di lavoro accessorio nonche' per la modifica delle disposizioni sulla responsabilita' solidale in materia di appalti.".

 
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È stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 94 del 22.4.2017 la legge n. 49/2017 di conversione del decreto-legge 17 marzo 2017, n. 25. Per approfondire vai al TESTO COORDINATO DEL DECRETO-LEGGE 17 marzo 2017, n. 25  recante "Ripubblicazione del testo del decreto-legge 17 marzo 2017, n. 25 (in ... Continua a leggere

 
GIURISPRUDENZA

Informazione interdittiva: il quadro indiziario del condizionamento criminale

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 21.4.2017

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Secondo la costante giurisprudenza, l’informazione interdittiva, in quanto misura cautelare di polizia, a carattere preventivo, non deve fondarsi su prove o collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certo "ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata" (Cons. Stato, sez. III, 19 gennaio 2012, nr. 254; in termini, Cons. Stato, sez. III, 30 gennaio 2012 nr. 444; id., 23 luglio 2012, nr. 4208; id., 5 settembre 2012 nr. 4708; id., sez. VI, 15 giugno 2011, nr. 3647). In particolare, gli elementi sintomatici dai quali è possibile evincere il tentativo di infiltrazione non vanno considerati separatamente, "dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità" (Cons. Stato, sez. III, 19 gennaio 2012, nr. 254; id., 23 luglio 2012, nr. 4208). Per approfondire vai al testo integrale della sentenza.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 21.4.2017

 
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Secondo la costante giurisprudenza, l’informazione interdittiva, in quanto misura cautelare di polizia, a carattere preventivo, non deve fondarsi su prove o collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certo "ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui e ... Continua a leggere

 

La Revocazione: è inammissibile il ricorso in difetto di riproposizione di ogni domanda rescissoria

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV del 21.4.2017

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Per risalente quanto condivisa giurisprudenza civile ed amministrativa, infatti, il giudizio per la revocazione (Cass., sez. un., 12 novembre 1997, n. 11148; Consiglio di Stato, sez. IV, 15/09/2015, n. 4294) prevede una fase rescindente ed una rescissoria che hanno incidenza su una precedente sentenza, e va deciso con un atto unitario, sicché la relativa domanda deve contenere tutti i requisiti necessari per mettere il giudice nella condizione di adottare la pronuncia definitiva. Nel caso di specie l'interessata ha allegato dei motivi a sostegno della domanda con cui intende conseguire la revocazione della precedente sentenza pronunciata da questa Sezione del Consiglio di Stato, ma non ha proposto alcuna istanza per la conclusione del c.d. giudizio rescissorio: sotto tale profilo il ricorso evidenzia soltanto la domanda per la revocazione, ma nulla è detto a proposito dell'eventuale fase successiva all’annullamento della sentenza.Il Collegio non potrebbe neppure rifarsi alla domanda proposta nel processo da cui derivò la sentenza gravata, posto che (Cass., sez. I, 3 maggio 2000, n. 5513) sussiste autonomia tra le istanze in esame e quelle avanzate nel giudizio che si concluse con la decisione viziata per il dedotto errore di fatto. In conclusione la ricorrente non trarrebbe alcun vantaggio dall'eventuale accoglimento della domanda di revocazione, atteso che il giudice non potrebbe adottare una pronuncia capace di farle conseguire il cosiddetto bene della vita perseguito. La giurisprudenza civile (Cassazione civile, sez. III, 14/11/2006, n. 24203 ) e quella amministrativa (Consiglio di Stato, sez. V, 29/05/2006, n. 3242): concordano nel ritenere inammissibile il ricorso che contenga solo la domanda di revocazione della sentenza, ma non quella di decisione sull'originario ricorso attraverso la riproposizione degli argomenti in esso riportati, non essendo siffatto ricorso idoneo ad attivare la eventuale, successiva fase rescissoria; impongono che i motivi d'impugnazione debbano essere formulati, nel testo del ricorso per revocazione di una sentenza amministrativa, in modo rigoroso, non limitandosi alla mera richiesta di revocazione (iudicium rescindens), ma formulando specifiche richieste in ordine alla decisione di merito della controversia (iudicium rescissorium); evidenziano la necessità di una intellegibile indicazione (Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 06/03/2008, n. 143 "è inammissibile il ricorso per revocazione in difetto di riproposizione di ogni domanda rescissoria, né per sommi capi, né per comprensibile relatio.").....3.2. Sotto un profilo più generale, si rammenta che la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che l'errore di fatto, idoneo a costituire il vizio revocatorio previsto dall'art. 395 n. 4 c.p.c., deve consistere in un "travisamento di fatto costitutivo di "quell'abbaglio dei sensi" che cade su un punto decisivo ma non espressamente controverso della causa." (ex multis, Consiglio Stato, sez. IV, 07 settembre 2006, n. 5196). La ratio di tale condivisibile orientamento riposa nella necessità di evitare che detta forma di impugnazione si trasformi in una forma di gravame, teoricamente reiterabile più volte, idoneo a condizionare sine die il passaggio in giudicato di una pronuncia giurisdizionale (ex multis Cassazione civile , sez. I, 19 giugno 2007, n. 14267). Il rimedio in esame non è pertanto praticabile, allorché incida su un aspetto della controversia che ha formato oggetto di valutazione giudiziale (tra le tante, Cassazione civile, sez. II, 22 giugno 2007, n. 14608) e men che meno allorché l’errore segnalato verta sulla interpretazione od applicazione di norme giuridiche. Il Consiglio di Stato ha sempre condiviso pienamente tale orientamento ed ha affermato che "ai sensi dell'art. 395 n. 4 c.p.c., sono soggette a revocazione per errore di fatto le sentenze pronunciate in grado di appello, quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare" (Consiglio Stato , sez. VI, 21 giugno 2006, n. 3721, Consiglio Stato , sez. VI, 05 giugno 2006, n. 3343, Consiglio Stato , sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2278). Inoltre, è stato chiarito dalla giurisprudenza che "l'errore di fatto idoneo a legittimare la revocazione non soltanto deve essere la conseguenza di una falsa percezione delle cose, ma deve avere anche carattere decisivo, nel senso di costituire il motivo essenziale e determinante della pronuncia impugnata per revocazione. Il giudizio sulla decisività dell'errore costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua motivazione, non inficiata da vizi logici e da errori di diritto." (Cassazione civile, sez. I, 29 novembre 2006, n. 25376). Per approfondire scarica il testo integrale della sentenza.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV del 21.4.2017

 
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Per risalente quanto condivisa giurisprudenza civile ed amministrativa, infatti, il giudizio per la revocazione (Cass., sez. un., 12 novembre 1997, n. 11148; Consiglio di Stato, sez. IV, 15/09/2015, n. 4294) prevede una fase rescindente ed una rescissoria che hanno incidenza su una precedente sente ... Continua a leggere

 

Esame di Avvocato: la fungibilità fra membri effettivi e supplenti della commissione d'esame

segnalazione della sentenza del Consiglio di stato Sez. IV sentenza del 21.4.2017

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La giurisprudenza ha ormai chiarito come sia tuttora in vigore l’art. 22 comma 5 del comma 5 del r.d.l. n. 1578 del 1933, e quindi il principio della piena fungibilità fra membri effettivi e membri supplenti delle commissioni dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, con la possibilità di sostituzione di ciascun componente da parte di altro componente, senza alcun riguardo alla qualifica professionale posseduta dai singoli componenti, considerato peraltro che essi non sono portatori di interessi settoriali, in relazione al preminente interesse pubblico alla più sollecita definizione della procedura abilitativa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 8 febbraio 2017, n. 558; nello stesso senso e più diffusamente Sez. IV, 21 ottobre 2016, n. 4406 e 5 agosto 2005, n. 4165, nonché le ordinanze cautelari cfr. 14 ottobre 2016, n. 4556 e 6 maggio 2016, n. 1693; a tale orientamento hanno già aderito anche alcuni TT.AA.RR: vedi T.A.R. Calabria, Reggio, 23 dicembre 2016 n. 1354; T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. 4^, 1° aprile 2015, n. 926; T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. 1^, 17 aprile 2014 n. 1017). Gli altri motivi di ricorso, riproposti dall’appellato in quanto dichiarati assorbiti e non esaminati dal primo giudice, sono infondati, secondo ormai pacifica giurisprudenza: - in relazione alla piena sufficienza, ai fini della motivazione, del voto numerico, anche alla luce del noto arresto della giurisprudenza costituzionale (Corte Cost., 8 giugno 2011, n, 175) e alla sufficienza dei criteri generali relativi alla correzione degli elaborati, che quindi non richiedono da parte delle sottocommissioni alcuna ulteriore specificazione e/o "collegamento" con l'estrinsecazione strettamente docimologica della valutazione; - in ragione dell’irrilevanza dell’assenza di segni di correzione, laddove al contrario solo se la commissione ritenga di apporre sottolineature o segni può ammettersi la valutazione della loro coerenza con affermazioni, concetti e principi espressi nell'elaborato; - in funzione della piana interpretazione della disposizione dell’art. 46 comma 5 della legge 31 dicembre 2012, n. 247 in combinato disposto con il chiarissimo tenore del successivo art. 49, che tiene ferma l'applicabilità delle norme previgenti "...sia per quanto riguarda le prove scritte e le prove orali, sia per quanto riguarda le modalità di esame..." per i primi due anni successivi all'entrata in vigore della legge, anche in disparte la considerazione che il comma 6 dell’art. 46 demanda comunque ad apposito regolamento del Ministro della Giustizia, da emanare sentito il Consiglio Nazionale Forense, la definizione delle "...modalità e (le) procedure di svolgimento dell'esame di Stato e quelle di valutazione delle prove scritte ed orali", sia pure sulla base dei criteri generali ivi enunciati; in relazione all’inconfigurabilità di una pretesa disparità di trattamento nella valutazione degli elaborati, in raffronto a quelli di altri candidati, che postula un sindacato intrusivo del merito tecnico, non emergendo profili di irragionevolezza e illogicità tali da consentire, nei limiti del sindacato sulla discrezionalità tecnica, l’annullamento delle valutazioni della commissione. Per approfondire scarica il testo per esteso.

segnalazione della sentenza del Consiglio di stato Sez. IV sentenza del 21.4.2017

 
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La giurisprudenza ha ormai chiarito come sia tuttora in vigore l’art. 22 comma 5 del comma 5 del r.d.l. n. 1578 del 1933, e quindi il principio della piena fungibilità fra membri effettivi e membri supplenti delle commissioni dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, c ... Continua a leggere

 

La ricollocazione del personale delle società a partecipazione pubblica assunto al di fuori del concorso: il parere della Corte dei Conti

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della deliberazione della Corte dei Conti Sezione Controllo Regione Campania del 19.4.2017

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Sintesi: La Sezione ritiene che, alla luce della normativa vigente, considerata la differente collocazione sistematica della disciplina per la mobilità del personale delle società a partecipazione pubblica e del personale del tradizionale settore del "pubblico impiego" l’art. 30 del d.lgs. 165/2001non è in alcun modo applicabile in maniera generalizzata al settore del personale delle società a partecipazione pubblica, per il qual può operare solo nei ristretti ambiti soggettivi e oggettivi, legislativamente consentiti, di "reinternalizzazione di funzioni o servizi esternalizzati" e di "riassorbimento delle unità di personale già dipendenti a tempo indeterminato da amministrazioni pubbliche e transitate alle dipendenze della società interessata dal processo di reinternalizzazione". La questione della riallocazione del personale delle società a partecipazione pubblica, assunto al di fuori del concorso o selezione pubblica, non può pertanto trovare soluzione nel riassorbimento del personale in esubero nei ruoli dell’Ente partecipante o di altro Ente pubblico (cfr. del Sezione delle Autonomie n. 9 /SEZAUT/2015/QMIG del 17 febbraio 2015). Rammenta, a tal fine, che la Corte costituzionale ha più volte censurato le leggi regionali che consentivano i meccanismi di reinternalizzazione attraverso il passaggio automatico dall’impiego privato (società partecipata) a quello pubblico (Ente territoriale), aggirando in tal modo l’art. 97 Cost. e, in particolare, la regola che condiziona l’acquisizione dello status di dipendente pubblico al previo esperimento di un pubblico concorso reclutamento (cfr. C. Cost. n.167/2013 e n.227/2013, n.37/2015, n.205/2006, n.274/2003). ******* ********* Quesito: Il Sindaco del comune di Francolise (Ce) ha chiesto: 1) "se sia possibile considerare quale dipendente pubblico di altra amministrazione unità di personale di società partecipata al 100% da un Ministero non assunto tramite procedure concorsuali pubbliche ma tramite procedure aziendali pubbliche", 2)" se sia possibile applicare al personale di società partecipata al 100% da un Ministero, non assunto tramite procedure concorsuali pubbliche ma tramite procedure aziendali, l’istituto dell’art. 30 del d.lgs. 165/2001". RIsposta: L’ambito di riferimento del quesito è costituito dalla disciplina sulla mobilità del personale alle dipendenze di società partecipate da enti pubblici, per cui risulta vigente il d.lgs. n. 175/2016 "Testo unico società partecipate" ed in particolare se siano applicabili a tale settore i principi della mobilità vigenti nel pubblico impiego (art. 30, d.lgs. n. 165/2001). La sezione delle Autonomie con la deliberazione n. 9/2015 Qmig, cui si rinvia integralmente per quanto qui non richiamato, aveva sottolineato la inapplicabilità, al personale dei consorzi, delle disposizioni recate dal d.lgs. n. 165/2001, in materia di mobilità del personale e la riconducibilità "all’ambito privatistico delle questioni in materia di rapporto di lavoro o di attività a carattere imprenditoriale svolte dall'ente su un piano paritetico con i privati, rilevando, questo, ai fini dell’individuazione del giudice competente (Cass., Sez. II, 31 marzo 2011, n. 7469; id., ss.uu. n. 781/1999 cit.)". In particolare con la deliberazione richiamata si evidenziava, in relazione alle esigenze di mobilità del personale delle società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 espressamente richiamate dall’art. 1 commi 563-568 del d.lgs. 147/2014 (Legge stabilità 2014)- Commi abrogati dall’ art. 28, comma 1, lett. t), D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175 "Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica"- che la finalità di tali norme fosse quella di "predisporre mezzi di tutela in favore del personale in esubero a seguito dei processi di razionalizzazione della galassia delle partecipazioni pubbliche e, nel contempo, di incentivare il percorso di risanamento degli organismi partecipati, anche al fine della riduzione degli oneri gravanti sugli Enti soci; processo da tempo avviato e sul quale è crescente l’attenzione del legislatore. La questione della riallocazione del personale è, infatti, centrale ai fini del buon esito delle operazioni di dismissione/alienazione degli organismi partecipati, nella prassi frenate per i riflessi occupazionali che ne conseguono". Peraltro la Sezione delle Autonomie con la deliberazione citata rilevava che la soluzione al problema "esubero personale delle società partecipate" non potesse essere trovata nel riassorbimento del personale in esubero nei ruoli dell’Ente partecipante. La Corte costituzionale- ricordava la Sezione delle Autonomie- ha più volte censurato le leggi regionali che consentono "i meccanismi di reinternalizzazione attraverso il passaggio automatico dall’impiego privato (società partecipata) a quello pubblico (Ente territoriale)", perché in tal modo si aggira l’art. 97 della Costituzione e, in particolare, la regola che condiziona l’acquisizione dello" status di dipendente pubblico" al previo esperimento di un pubblico concorso. La Corte costituzionale ha ritenuto infatti che l’operazione di trasferimento di personale da una società partecipata ad un ente territoriale- caso prospettato nel quesito in esame- realizzerebbe un’ipotesi di «inquadramento riservato senza concorso» anche nei casi in cui il personale dipendente da una società partecipata "fosse stato assunto ab origine in seguito all’espletamento di una procedura selettiva equiparabile ad un concorso pubblico; argomentazione che tiene conto del carattere chiuso e riservato di tale passaggio, in contrasto con la regola costituzionale che garantisce l’imparzialità mediante l’accesso dall’esterno con procedure selettive reclutamento (cfr. C. cost., 1 luglio 2013, n. 167 e 16 luglio 2013, n. 227, nonché, da ultimo, 30 gennaio 2015, n. 7). Ciò senza considerare i riflessi sul rispetto, da parte degli enti territoriali, dei limiti alle facoltà assunzionali e delle norme sul patto di stabilità interno (art. 1, commi 557 ss., l. 27 dicembre 2006, n. 296)". La Sezione delle Autonomie con la citata deliberazione n. 9/2015 Qmig ricordava: "dall’esigenza di superare le problematiche sopra evidenziate, è nata l’idea di un’apposita disciplina della mobilità del personale dipendente dalle società a partecipazione pubblica, introdotta dal d.l. 31 agosto 2013, n. 101, le cui disposizioni sono state stralciate dal provvedimento d’urgenza in sede di conversione (l. 30 ottobre 2013, n. 125). La legge di stabilità 2014 ha, invece, accolto le disposizioni sulle procedure di mobilità di tali categorie di personale, che sono state ritenute applicabili di diritto ai dipendenti in esubero per effetto dello scioglimento o dell’alienazione di società controllate direttamente o indirettamente da pubbliche amministrazioni locali; situazioni, queste, che sono state incentivate anche mediante i benefici fiscali e contabili individuati dall’art. 2, comma 1, d.l. 6 marzo 2014, n. 16, convertito dalla l. 2 maggio 2014, n. 68 (che ha aggiunto, all’art. 1, l. n. 147/2013, il comma 568-bis). Peraltro, a seguito della novella introdotta dalla l. di stabilità 2015, gli incentivi previsti dal citato comma 568-bis (tra cui la mobilità del personale) sono stati estesi alle parallele situazioni di scioglimento/alienazione riguardanti le aziende speciali (art. 1, comma 616, l. 23 dicembre 2014, n. 190)." Va quindi richiamata la disciplina del d.lgs. n. 175/2016 "Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica" e in particolare, ai fini della materia oggetto di disamina, l’art.19. "Gestione del personale" commi 1, 2 e 8 di seguito riportati. 1." Salvo quanto previsto dal presente decreto, ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico si applicano le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile, dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, e dai contratti collettivi. 2. Le società a controllo pubblico stabiliscono, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei principi, anche di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei principi di cui all'articolo 35, comma 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. In caso di mancata adozione dei suddetti provvedimenti, trova diretta applicazione il suddetto articolo 35, comma 3, del decreto legislativo n. 165 del 2001. 8. Le pubbliche amministrazioni titolari di partecipazioni di controllo in società, in caso di reinternalizzazione di funzioni o servizi esternalizzati, affidati alle società stesse, procedono, prima di poter effettuare nuove assunzioni, al riassorbimento delle unità di personale già dipendenti a tempo indeterminato da amministrazioni pubbliche e transitate alle dipendenze della società interessata dal processo di reinternalizzazione, mediante l'utilizzo delle procedure di mobilità di cui all'articolo 30 del decreto legislativo n. 165 del 2001 e nel rispetto dei vincoli in materia di finanza pubblica e contenimento delle spese di personale. Il riassorbimento può essere disposto solo nei limiti dei posti vacanti nelle dotazioni organiche dell'amministrazione interessata e nell'ambito delle facoltà assunzionali disponibili".   Così appositamente disciplinata, come sopra visto, la mobilità del personale delle società a partecipazione pubblica, rispetto al personale dell’impiego pubblico, va sottolineata, la diversa identità di settore e il differente ambito operativo della disciplina della mobilità per il personale pubblico all’interno della Pubblica amministrazione recato dall’art. 30 del d.lgs. n. 165/2001 "Passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse" (1. Le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti di cui all'articolo 2, comma 2, appartenenti a una qualifica corrispondente e in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento, previo assenso dell'amministrazione di appartenenza. (…)). Alla luce della normativa vigente, considerata la differente collocazione sistematica della disciplina per la mobilità del personale delle società a partecipazione pubblica e del personale del tradizionale settore del "pubblico impiego", è indubbio, che l’art. 30 del d.lgs. 165/2001 non è in alcun modo applicabile in maniera generalizzata al settore del personale delle società a partecipazione pubblica, per il qual può operare solo nei ristretti ambiti soggettivi e oggettivi, legislativamente consentiti, di "reinternalizzazione di funzioni o servizi esternalizzati" e di "riassorbimento delle unità di personale già dipendenti a tempo indeterminato da amministrazioni pubbliche e transitate alle dipendenze della società interessata dal processo di reinternalizzazione". Tale preclusione discende, oltre che dal tenore letterale delle norme, anche dall’esigenza di rispettare il divieto di attuare processi di mobilità fra la partecipata e l’Ente, onde evitare l’elusione dei vincoli alle assunzioni nonché dei principi costituzionali che garantiscono il percorso di accesso tramite concorso pubblico (sul punto, cfr. C. conti, sezione di controllo Lombardia, 18 febbraio 2014, n. 76); ciò è evincibile già prima della recente disciplina del d.lgs. n. 175/2016 "Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica" (cfr. art. 1, comma 563, ultimo periodo, l. n. 147/2013). A tale riguardo la Sezione delle Autonomie con la citata pronuncia ha sottolineato che il richiamo alla presenza, nell’ordinamento (nazionale e comunitario), di diversi criteri di individuazione del c.d. "settore pubblico allargato", caratterizzato da  un "perimetro che risulta mutevole nel tempo, come nel caso delle unità istituzionali inserite nell’elenco annuale predisposto dall’ISTAT", dimostra che la scelta di estendere le misure di "pubblicizzazione" deve essere rimessa al prudente apprezzamento del legislatore e soprattutto- ai fini qui rilevanti- che "le norme sulla mobilità del personale dipendente dalle società partecipate (e dalle aziende speciali) introdotte dalla" legge di stabilità 2014"- ora leggi d.lgs. 175/2016- "sono da considerare di stretta interpretazione". La questione della riallocazione del personale delle società a partecipazione pubblica, assunto al di fuori del concorso o selezione pubblica, non può pertanto trovare soluzione nel riassorbimento del personale in esubero nei ruoli dell’Ente partecipante o di altro Ente pubblico (cfr. del Sezione delle Autonomie n. 9 /SEZAUT/2015/QMIG del 17 febbraio 2015). La Corte costituzionale ha più volte censurato le leggi regionali che consentivano i meccanismi di reinternalizzazione attraverso il passaggio automatico dall’impiego privato (società partecipata) a quello pubblico (Ente territoriale), aggirando in tal modo l’art. 97 Cost. e, in particolare, la regola che condiziona l’acquisizione dello status di dipendente pubblico al previo esperimento di un pubblico concorso. Al riguardo, la Corte costituzionale ha ritenuto che l’operazione di trasferimento avrebbe realizzato un’ipotesi di «inquadramento riservato senza concorso» anche nei casi in cui il personale dipendente da una società partecipata fosse stato assunto ab origine in seguito all’espletamento di una procedura selettiva equiparabile ad un concorso pubblico; argomentazione che tiene conto del carattere chiuso e riservato di tale passaggio, in contrasto con la regola costituzionale che garantisce l’imparzialità mediante l’accesso dall’esterno con procedure selettive reclutamento (cfr. C. cost., 1 luglio 2013, n. 167 e 16 luglio 2013, n. 227, nonché, da ultimo, 30 gennaio 2015, n. 37 e in precedenza C.cost. 205/2006, 274/2003). Ciò senza considerare i riflessi sul rispetto, da parte degli enti territoriali, dei limiti alle facoltà assunzionali, delle norme sul patto di stabilità interno (art. 1, commi 557 ss., l. 27 dicembre 2006, n. 296 e ss.) e ora del saldo non negativo, in termini di competenza, tra le entrate finali e le spese finali ex articolo 1, comma 710 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016), e in generale dei vigenti vincoli di finanza pubblica (es. dell’articolo 3, comma 5, del d.l. n.90/2014; dell’art.4, comma 3, del decreto legge n.78 del 19 giugno 2015; dell’art.1, comma 424 della legge n.190/2014). Alla luce di quanto esposto, non potendo considerare "quale dipendente pubblico di altra amministrazione unità di personale di società partecipata al 100% da un Ministero non assunto tramite procedure concorsuali pubbliche ma tramite procedure aziendali pubbliche" consegue che è da ritenere preclusa l’applicabilità dell’istituto dell’art. 30 del d.lgs. 165/2001 "al personale di società partecipata al 100% da un Ministero, non assunto tramite procedure concorsuali pubbliche ma tramite procedure aziendali". Per approfondire scarica il testo integrale.

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Sintesi: La Sezione ritiene che, alla luce della normativa vigente, considerata la differente collocazione sistematica della disciplina per la mobilità del personale delle società a partecipazione pubblica e del personale del tradizionale settore del "pubblico impiego" l’art. 30 del d.lgs. 165/2001 ... Continua a leggere

 

Cauzione provvisoria: l'incameramento in caso di mancanza dei requisiti richiesti

segnalazione della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 19.4.2017

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La partecipazione alla gara in mancanza dei necessari requisiti costituisce elemento che denota di per sé un contegno colposo, sub specie di violazione dei principi di diligenza professionale ed autoresponsabilità connessi alla partecipazione ad una procedura di affidamento di contratti pubblici, pacificamente configurabile rispetto a fatti, stati e situazioni riferibili allo stesso operatore economico. A rafforzare questo sforzo di diligenza - precisa il Consiglio di Stato nella sentenza del 19.4.2017 - sovviene appunto l’istituto della cauzione, il cui incameramento una volta accertata la mancanza dei requisiti in questione consiste proprio nel responsabilizzare i partecipanti a procedure di affidamento in ordine alle dichiarazioni rese e nel garantire la serietà e l’affidabilità dell’offerta (cfr. in questi termini Cons. Stato, Ad. plen. 10 dicembre 2014, n. 34; da ultimo: V, 31 agosto 2016, nn. 3746 e 3751). Per approfondire scarica la sentenza.

segnalazione della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 19.4.2017

 
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Falsa dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà: le conseguenze penali

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La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che al soggetto autore di una falsa dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà siano effettivamente applicabili le sanzioni previste dall'art. 483 cod. pen.: ciò, ad esempio, laddove vengano rese false attestazioni circa gli stati, le qualità personali ed i fatti indicati nell'art. 46 del d.P.R. n. 445/2000 al fine di partecipare a una gara di appalto (Cass., Sez. V, n. 20570 del 10/05/2006, Esposito), oppure si affermi in difformità dal vero di aver completato opere edilizie entro i termini utili per la concessione in sanatoria (Cass., Sez. V, n. 21209 del 25/05/2006, Bartolazzi), ovvero ancora si dichiari falsamente di non avere mai riportato condanne penali con atto allegato ad un'istanza di iscrizione nel registro dei praticanti geometri (Cass., Sez. V, n. 48681 del 06/06/2014, Sola). Occorre, quale presupposto per l'applicazione della norma de qua, che la dichiarazione sostitutiva sia destinata a provare la verità dei fatti oggetto di rappresentazione al pubblico ufficiale, vale a dire che esista l'obbligo del privato di attestare il vero in base a disposizioni di legge che ricolleghino «specifici effetti all'atto-documento nel quale la dichiarazione è inserita dal pubblico ufficiale ricevente» (v. Cass., Sez. V, n. 18279 del 02/04/2014, Scalici, nonché Cass., Sez. V, n. 39215 del 04/06/2015, Cremonese, dove la configurabilità del delitto è stata esclusa in casi dove le false dichiarazioni erano state rese ad un curatore fallimentare, sull'avvenuta distruzione di documentazione contabile e societaria, e ad un notaio, sul precedente acquisto a titolo di usucapione di un bene oggetto di successiva vendita) ...Questa Corte, al riguardo, ha già messo in evidenza che le false dichiarazioni del privato concernenti la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge o dagli strumenti urbanistici per il rilascio di concessione edilizia, essendo destinate a dimostrare la verità dei fatti cui si riferiscono e ad essere "recepite" quali condizioni per la emanazione o per la efficacia dell'atto pubblico, producendo cioè immediati effetti rilevanti sul piano giuridico, sono idonee ad integrare, se ideologicamente false, il delitto di cui all'art. 483 cod. pen. [...]. Della ricorrenza del requisito in parola non hanno dubitato nemmeno le Sezioni Unite le quali, in una fattispecie in tutto analoga (presentazione di dichiarazione di privato circa il possesso dei requisiti per la partecipazione ad una gara d'appalto), hanno confermato la sussistenza del reato di cui all'art. 483 cod. pen. (Cass., Sez. U, n. 35488 del 28/06/2007, Scelsi). Ad avviso della consolidata giurisprudenza, in conclusione, la dichiarazione del privato resa con dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, in presenza di una norma che preveda il ricorso a tale procedura, vale a far ritenere integrate anche l'ulteriore requisito richiesto dall'art. 483 cod. pen. (dichiarazione "in atto pubblico") ogni volta in cui la dichiarazione stessa sia destinata ad essere poi "trasfusa" in un atto pubblico. Viceversa e specularmente si è escluso, ad esempio, che integri il delitto di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico la condotta del privato che attesti falsamente, con dichiarazione diretta al sindaco, l'ultimazione dei lavori di un fabbricato, quando tale dichiarazione non sia destinata a confluire in un atto pubblico e, quindi, a provare la verità dei fatti in essa attestati, come verificatosi nella ipotesi di dichiarazione finalizzata ad ottenere il rilascio del certificato di abitabilità» (Cass., Sez. V, n. 2978/2010 del 26/11/2009, Urso). Nella motivazione della pronuncia appena richiamata si legge altresì che non risulta sostenibile l'assunto secondo cui il requisito dato dalla necessità che il falso ideologico sia commesso dal privato "in atto pubblico" non sarebbe integrato dalla verifica che la falsa dichiarazione sia, in alternativa, "destinata ad essere trasfusa in atto pubblico", stante la diversità ontologica dei due concetti e l'esistenza - nel corpo dell'art. 495 cod. pen. - di una autonoma sanzione per l'ipotesi di "destinazione della dichiarazione ad essere riprodotta in atto pubblico". A tali osservazioni la sentenza Urso ribatte che «la ipotesi del falso ideologico commesso dal privato ai sensi dell'art.483 cod. pen. deve ritenersi integrata in tutti i suoi requisiti anche ulteriori per il combinato rilievo che l'atto si intende [...] ricevuto dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni con la stessa attitudine a produrre gli effetti giuridici connessi alla dichiarazione dalla norma specifica che gli attribuisce l'obbligo di affermare il vero. Come già affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. U, n. 6 del 17/02/1999, Lucarotti) "oggetto della tutela penale in relazione al reato di cui all'art. 483 cod. pen. è l'interesse di garantire il bene giuridico della pubblica fede in quanto si attiene alla pubblica fede documentale attribuita agli atti pubblici non in relazione a ciò che vi attesta per suo fatto e di sua scienza il pubblico ufficiale documentante, ma per quello che vi assevera, mediante la documentazione del pubblico ufficiale, il dichiarante. Talché, è palese che il reato postula che il dichiarante abbia il dovere giuridico di esporre la verità" [...]. La situazione non è sostanzialmente mutata, ad avviso del Collegio, a seguito dell'abrogazione della legge n. 15 del 1968, attuata in via generale, da ultimo, dal d.lgs. n. 445 del 2000, art. 77, in seguito alla quale la sottoscrizione della dichiarazione sostitutiva di atto notorio non deve più essere autenticata dal pubblico ufficiale, in quanto, come sopra precisato, quel che rileva, ai fini della sussistenza del delitto in questione, è la destinazione e lo scopo della falsa dichiarazione del privato e gli effetti di essa sul piano giuridico, che impongono una particolare tutela. Quanto alla particolare menzione, contenuta nell'art. 495 cod. pen. [...], è appena il caso di ricordare come si tratti di un inciso che reca un contributo assai opinabile alla tesi che qui si esclude. Infatti quell'inciso è stato eliminato dal legislatore nel testo vigente dell'art. 495 cod. pen., (come modificato con d.l. n. 92 del 2008), assieme alla menzione, separata, della dichiarazione "in atto pubblico", senza peraltro che tale modifica abbia impedito alla giurisprudenza di sostenere, pur in presenza del nuovo lessico normativo, che la condotta di "attestazione falsa", nonostante l'eliminazione del riferimento all'atto pubblico, continua a incriminare tuttora il soggetto che renda false dichiarazioni "attestanti", ovvero tese a garantire, il proprio stato od altre qualità della propria od altrui persona, destinate ad essere riprodotte in un atto fidefaciente idoneo a documentarle». La linea interpretativa ora illustrata, in chiara antitesi rispetto alle tesi sostenute nella sentenza oggetto di ricorso, risulta ribadita anche in pronunce successive (v. Cass., Sez. V, n. 42524 del 12/07/2012, Picone). Per approfondire scarica il testo integrale della sentenza.

 
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La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che al soggetto autore di una falsa dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà siano effettivamente applicabili le sanzioni previste dall'art. 483 cod. pen.: ciò, ad esempio, laddove vengano rese false attestazioni circa gli stati, le qual ... Continua a leggere

 

Lottizzazione abusiva: scatta il reato anche senza il frazionamento o l'accatastamento

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La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione nella sentenza pubblicata in data 6.4.2017 ha affermato che "Il reato di lottizzazione abusiva può configurarsi, secondo la previsione contenuta nell'art.30 dpr 380/2001, o mediante un'attività materiale, allorquando vengano eseguite opere che determinano una trasformazione edilizia o urbanistica del territorio in violazione degli strumenti urbanistici vigenti o adottati comunque da leggi statali o regionali senza la prescritta autorizzazione, ovvero con il compimento di attività negoziali nell'ipotesi in cui, pur non essendo ancora intervenuta una trasformazione lottizzatoria di carattere materiale, se ne realizzino i presupposti attraverso la vendita non autorizzata di un terreno frazionato in lotti oppure sulla base di quote che accrescano il numero dei soggetti titolari del diritto sul bene, determinandone inequivocabilmente la destinazione ad uso edificatorio. Ai fini del perfezionamento della cd. lottizzazione negoziale non è necessario perciò che si sia proceduto ad una vendita di terreno frazionato già in lotti, ovverosia mediante apposita operazione catastale che preceda le vendite o gli atti di disposizione, ma è sufficiente secondo l'univoco orientamento di questa Corte che sia stata posta in essere la vendita di quote di un terreno indiviso mediante un unico atto di trasferimento a più acquirenti, così da imporre al suolo un equivalente assetto proprietario, purché ne risulti inequivocamente da elementi indiziari la destinazione a scopo edificatorio (Sez. 3, n. 6080 del 26/10/2007 - dep. 07/02/2008, Casile e altri, Rv. 238977; Sez. 3, 29.2.2000, n. 3668, Pennelli). Deve infatti ritenersi che il termine "frazionamento" sia stato utilizzato dal legislatore nella sua accezione lata, comprensiva cioè di qualsiasi attività giuridica che abbia per effetto la suddivisione in lotti di una più ampia estensione territoriale, comunque predisposta od attuata ed anche se avvenuta in forma non catastale, attribuendone la disponibilità ad altri al fine di realizzare una non consentita trasformazione urbanistica o edilizia del territorio. .....In definitiva la lottizzazione abusiva negoziale si perfeziona attraverso i due elementi, nella fattispecie entrambi ricorrenti, del frazionamento del terreno in più lotti, nell'accezione più ampia sopra delineata, e della sua inequivoca destinazione a scopo edificatorio, con tale termine dovendosi intendere qualunque trasformazione del territorio che si ponga in contrasto con le specifiche previsioni dello strumento urbanistico generale". Per approfondire scarica il testo per esteso della sentenza della Corte di Cassazione.

 
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La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione nella sentenza pubblicata in data 6.4.2017 ha affermato che "Il reato di lottizzazione abusiva può configurarsi, secondo la previsione contenuta nell'art.30 dpr 380/2001, o mediante un'attività materiale, allorquando vengano eseguite opere che deter ... Continua a leggere

 

Gare e Durc: l’istituto dell’invito alla regolarizzazione opera solo nei rapporti tra impresa ed ente previdenziale

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 3.3.2017

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La Sesta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 3.3.2017 ha richiamato i principi sanciti dall’Adunanza Plenaria, nel 2016 (sentenze n. 5, 6 e 10) che, fra l’altro, ha affermato: "Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, del decreto legge 21 giugno 2013 n. 69, (Disposizioniurgenti per il rilancio dell'economia), convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n. 98), non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l’impresa essere in regola con l'assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione contributiva. L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, del decreto ministeriale 24 ottobre 2007 e ora recepito a livello legislativo dall’art. 31, comma 8, del decreto legge 21 giugno 2013 n. 69, può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i) ai fini della partecipazione alla gara d’appalto". (sentenze nn. 5 e 6). "Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, adito per la definizione di una controversia avente ad oggetto l’affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, l’accertamento inerente alla regolarità del documento unico di regolarità contributiva, quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara. Tale accertamento viene effettuato, nei limiti del giudizio relativo all’affidamento del contratto pubblico, in via incidentale, cioè con accertamento privo di efficacia di giudicato nel rapporto previdenziale". "…l’ambito di applicazione dell’art. 31 d.l. n. 69 del 2013 [è] limitato ai rapporti fra ente previdenziale ed operatore privato richiedente il rilascio del DURC. Di conseguenza, va escluso che detta disposizione abbia determinato una implicita modifica all’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006." (sentenza n. 10). La Corte di giustizia dell’UE (Sez. IX, 10 novembre 2016, causa C-199/15, Ciclat), ha così statuito: "L’articolo 45 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che obbliga l’amministrazione aggiudicatrice a considerare quale motivo di esclusione una violazione in materia di versamento di contributi previdenziali ed assistenziali risultante da un certificato richiesto d’ufficio dall’amministrazione aggiudicatrice e rilasciato dagli istituti previdenziali, qualora tale violazione sussistesse alla data della partecipazione ad una gara d’appalto, anche se non sussisteva più alla data dell’aggiudicazione o della verifica d’ufficio da parte dell’amministrazione aggiudicatrice.". In estrema sintesi, sulla base dei principi da applicare, è legittima (ai sensi dell’art. 38 cit.), l’esclusione dalla gara dell’operatore economico che, al momento della presentazione dell’offerta, non sia in regola con l'assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali, secondo quanto risultante dal DURC richiesto dalla stazione appaltante al fine della verificazione dell’autodichiarazione resa, operando l’istituto dell’invito alla regolarizzazione solo nei rapporti tra impresa ed ente previdenziale, e risultando irrilevante un eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione contributiva, non essendo consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l’impresa essere in regola con l'assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante. Tali approdi sono stati ritenuti non contrastanti con il diritto comunitario. Per approfondire scarica il testo integrale della sentenza.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 3.3.2017

 
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La Sesta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 3.3.2017 ha richiamato i principi sanciti dall’Adunanza Plenaria, nel 2016 (sentenze n. 5, 6 e 10) che, fra l’altro, ha affermato: "Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, del decreto legge 21 giugno 2013 n. 69, (Disposizioni ... Continua a leggere

 

Edilizia: la tempestività del ricorso amministrativo per impugnare il permesso di costruire

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV del 3.3.2017

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La Quarta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 3.3.2017 ha ritenuto di non doversi discostare da quanto più volte rappresentato dalla giurisprudenza della Sezione, in ordine ai criteri di verifica della tempestività del ricorso, onde verificarne la ricevibilità, con particolare riguardo all’ambito dell’attività edilizia. Come si è anche di recente affermato (Cons. Stato, sez. IV, 21 marzo 2016 n. 1135), l’inizio dei lavori segna il dies a quo della tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l’an della edificazione (cioè laddove si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area), mentre laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.) il dies a quo va fatto coincidere con il completamento dei lavori ovvero con il grado di sviluppo degli stessi, ove renda palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, dell’erigendo manufatto, ferma restando la possibilità, da parte di chi solleva l’eccezione di tardività, di provare, anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza del provvedimento lesivo in capo al ricorrente (cfr., ex plurimis e da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. IV 28 ottobre 2015, n. 4910 e n. 4909; Sez. IV, 22 dicembre 2014 n. 6337; Sez. V, 16 aprile 2013, n. 2107; Sez. VI, 18 aprile 2012, n. 2209, che si conformano sostanzialmente all’insegnamento dell'Adunanza Plenaria n. 15 del 2011 sviluppandone i logici corollari). In particolare è stato affermato che: a) il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che – fatte salve le precisazioni di seguito esposte – si intende realizzata al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza anticipata; una simile prova va addossata a chi eccepisce la tardività del ricorso, e può essere desunta anche da elementi presuntivi che evidenzino la potenziale lesione portata all'interesse del ricorrente; in quest’ambito assume un ruolo importante l’eventuale presenza del cartello dei lavori ex art. 27, co. 4, t.u. edilizia); b) l’obbligo di esposizione del cartello dei lavori, penalmente sanzionato, è posto a presidio, anche secondo la giurisprudenza penale, della esigenza di consentire ad eventuali controinteressati di far valere le proprie doglianze innanzi all'autorità amministrativa (ex aliis Cass. pen., Sez. III, 22 maggio 2012, n. 40118). La presenza del cartello, pertanto, costituisce un indizio grave preciso e concordante ai fini della integrazione della prova presuntiva della conoscenza del provvedimento da parte del ricorrente; c) la richiesta di accesso non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso in quanto la data del permesso di costruire pubblicata sul cartello di cantiere fissa la decorrenza del termine entro il quale deve essere presentata l'impugnativa; termine che non può essere dilazionato dalla richiesta di accesso agli atti. Ed infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, così determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali. Quanto al concetto stesso di "piena conoscenza" (ed alla sua idoneità a costituire il dies a quo di decorrenza del termine per l’impugnazione dell’atto), occorre ricordare quanto la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo di osservare (tra le altre, Cons. Stato, sez. IV, 6 ottobre 2015 n. 6242; 28 maggio 2012 n. 3159). Per approfondire scarica il testo integrare della sentenza.

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La Quarta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 3.3.2017 ha ritenuto di non doversi discostare da quanto più volte rappresentato dalla giurisprudenza della Sezione, in ordine ai criteri di verifica della tempestività del ricorso, onde verificarne la ricevibilità, con particolare riguard ... Continua a leggere

 

Interdittiva prefettizia antimafia: la sentenza ricognitiva della giurisprudenza

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 2.3.2017

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La Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 2 marzo 2017 ha richiamato la sentenza n. 1743 del 2016, ricognitiva della giurisprudenza della Sezione in tema di interdittiva prefettizia antimafia, secondo cui: - tale provvedimento costituisce una misura preventiva volta a colpire l'azione della criminalità organizzata, impedendole di avere rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione; - trattandosi di una misura a carattere preventivo, prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la pubblica amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente; - tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità, che può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati; - essendo il potere esercitato espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, la misura interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull'esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata; - anche se occorre che siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la pubblica amministrazione, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo; - gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente, dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata; - i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia, di titolari, soci amministratori, dipendenti dell’impresa con soggetti raggiunti da provvedimenti di carattere penale o da misure di prevenzione antimafia, possono assumere rilevanza quando non siano frutto di causalità, o per converso, di necessità; - se è irrilevante un episodio isolato, secondo la logica del "più probabile che non" non lo sono i contatti che l’imprenditore direttamente o anche tramite un proprio intermediario, tenga con soggetti attinti da provvedimenti antimafia; - rilevano anche le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa consistenti in fatti che lascino intravedere, nelle scelte aziendali, nelle dinamiche realizzative delle strategie imprenditoriali, nella stessa fase operativa o nella quotidiana attività di impresa, evidenti segni di influenza mafiosa; rientrano nella casistica, ad esempio, il nolo di mezzi esclusivamente da parte di imprese gestite dalla mafia, il subappalto o la tacita esecuzione diretta di opere da parte di altre imprese, gregarie della mafia o colpite da interdittiva antimafia, i rapporti commerciali intrattenuti solo con determinate imprese gestite o ‘raccomandate’ dalla mafia, la promiscuità di forze umane e di mezzi con imprese gestite dai medesimi soggetti riconducibili alla criminalità e già colpite, a loro volta, da interdittiva antimafia (...). In pratica ha svolto un ammissibile sindacato sulla logicità e congruità sulle informazioni assunte in sede istruttoria e sulle valutazioni che il Prefetto ne ha tratto (cfr. Cons. Stato, n. 5130 del 2011; Cons. Stato, n. 2783 del 2004; Cons. Stato n. 4135 del 2006). La giurisprudenza ha costantemente ritenuto che l’ampia discrezionalità di apprezzamento del Prefetto in tema di tentativo di infiltrazione mafiosa comporta che la valutazione prefettizia sia sindacabile in sede giurisdizionale in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti (cfr. Cons. Stato, n. 4724 del 2001) e che la valutazione prefettizia, connotata da ampia discrezionalità, possa essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (cfr., tra le tante, Cons. Stato n. 7260 del 2010). Per approfondire scarica il testo integrale della sentenza.

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La Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 2 marzo 2017 ha richiamato la sentenza n. 1743 del 2016, ricognitiva della giurisprudenza della Sezione in tema di interdittiva prefettizia antimafia, secondo cui: - tale provvedimento costituisce una misura preventiva volta a colpire l'az ... Continua a leggere

 

Procedure di gare: in caso di equivocità o di erroneità del bando, l'apertura delle buste deve essere preceduta da un apposito provvedimento per illustrare le correzioni da apportare e le ragioni che le giustificano

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 2.3.2017

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"I chiarimenti forniti dalla stazione appaltante – aventi ad oggetto il contenuto del bando e degli atti allegati - sono ammissibili ad una duplice condizione: non devono intervenire dopo l’inizio dell’esame delle offerte; non devono essere tali da modificare la disciplina dettata per lo svolgimento della gara, per come scolpita nella lex specialis." È questo il principio sancito nella sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, del 2.3.2017 sulla base del quale ha ritenuto non corretto il modus operandi della Commissione di gara che ha rettificato la formula aritmetica indicata nel bando di gara solamente dopo la consegna delle offerte economiche e l’apertura delle buste. Aggiunge il Collegio sotto altro profilo, che l’errore materiale direttamente emendabile è soltanto quello che può essere percepito o rilevato ictu oculi, senza bisogno di complesse indagini ricostruttive. Nel caso in esame, per contro, è ravvisabile un evidente contrasto tra quanto enunciato letteralmente nel bando e i chiarimenti offerti dalla commissione. Quest’ultima ha sostituito la voce "Rmin" con quella "Rmax" ed ha anche invertito l’ordine del numeratore e del denominatore. Poiché l’affermazione secondo cui la formula dovesse riferirsi allo "sconto percentuale" e non al "prezzo scontato" presentava margini di sicura opinabilità, la formula rettificata dalla commissione non era individuabile ex ante senza incertezza. In caso di equivocità o di erroneità del bando, un corretto rapporto tra amministrazione e privato, che sia rispettoso dei principi generali del buon andamento dell’azione amministrativa e di imparzialità, impone di far precedere all’apertura delle buste un apposito provvedimento per illustrare ai partecipanti le correzioni da apportare e le ragioni che le giustificano, mettendo quindi tutti i concorrenti di adeguarsi alle nuove condizioni prima di presentare le proprie offerte e di prendere parte alla gara. In definitiva, in questa sede non assume rilievo quale fosse la corretta interpretazione da attribuire alla formula di assegnazione del punteggio. Neppure occorre chiedersi se l’errore materiale avesse reso la formula inapplicabile (come sostenuto dall’appellante) o se, al contrario, la stessa poteva essere applicata senza condurre a risultati aberranti (come sostenuto dall’appellata). È dirimente invece che la commissione giudicatrice non poteva (dopo la presentazione e l’apertura delle buste) modificare la formula aritmetica dettata dal bando, ancorché incompleta o inapplicabile, e procedere all’attribuzione del punteggio relativo all’offerta economica. In definitiva, la condotta della commissione ha pregiudicato l’applicazione uniforme delle regole nei confronti di tutti i partecipanti. con conseguente illegittimità dell’intero procedimento di valutazione. Per approfondire scarica il testo integrale della sentenza.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 2.3.2017

 
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"I chiarimenti forniti dalla stazione appaltante – aventi ad oggetto il contenuto del bando e degli atti allegati - sono ammissibili ad una duplice condizione: non devono intervenire dopo l’inizio dell’esame delle offerte; non devono essere tali da modificare la disciplina dettata per lo svolgiment ... Continua a leggere

 

Informativa antimafia: il Prefetto può e non deve desumere elementi di infiltrazione mafiosa dalla contestazione dei delitti-spia

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 2.3.2017

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Nella controversia all'esame della Terza Sezione del Consiglio di Stato, il Ministero dell’Interno lamenta la violazione dell’art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011 da parte del primo giudice, che erroneamente avrebbe affermato l’inidoneità del solo procedimento penale, avente ad oggetto l’accertamento di traffico illecito di rifiuti, a giustificare l’emissione di una informativa antimafia, senza verificare se la fattispecie di reato costituisca o meno indice di rischio di infiltrazione da parte della criminalità di stampo mafioso. Secondo il T.A.R. per il Lazio, infatti, sebbene sia esatto che le organizzazioni mafiose, comunque denominate, abbiano ormai da anni grande interesse nel settore dei rifiuti, tanto che è stato coniato da anni il termine "ecomafie", ciò non implica necessariamente che tutti i soggetti sottoposti a misura cautelare o rinviati a giudizio con l’imputazione di essere coinvolti nel traffico illecito di rifiuti siano ipso facto a rischio di collusione con ambienti della criminalità organizzata e che, come tali, non forniscano più sufficienti garanzie per la p.a. Questa valutazione o, in altri termini, presunzione non può essere assoluta, tenuto conto degli effetti dirompenti prodotti dall’informativa, ma deve essere relativa, dovendo il Prefetto comunque verificare, prima di adottare il provvedimento, l’esistenza della concreta possibilità di interferenze mafiose, come del resto si evincerebbe anche dalla circolare ministeriale sopra ricordata. Il primo giudice ha fatto propria la tesi secondo cui, a norma dell’art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011, a giustificare l’informativa «non basta il titolo del reato riportato nel provvedimento del giudice penale, ma occorre esaminare il contenuto dell’ordinanza o della sentenza del giudice penale e rintracciare nel provvedimento stesso gli indizi da cui desumere il rischio di contiguità con la malavita organizzata, e dunque l’inaffidabilità dell’impresa» (p. 16 della sentenza impugnata). Questo assunto è tuttavia avversato dal Ministero appellante, il quale sostiene che l’elencazione dei titoli di reato, contenuta nell’art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011, sarebbe di per sé esaustiva, nel senso che per quei reati il legislatore ha inteso operare a monte una valutazione circa il pericolo di infiltrazione mafiosa, in quanto si tratta di fattispecie che destano maggiore allarme sociale, intorno alle quali con maggiore regolarità statistica gravita il mondo della criminalità organizzata di stampo mafioso. Il motivo é stato ritenuto meritevole di condivisione nei termini esposti nella sentenza del 2 marzo 2017 del Consiglio di Stato che ha, infatti, affermato che "che, secondo la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, il Prefetto può e non deve già desumere elementi di infiltrazione mafiosa dalla contestazione dei reati previsti dall’art. 84, comma 4, lett. a) del d. lgs. n. 159 del 2011. A mente dell’art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011, le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all’adozione dell’informazione antimafia interdittiva, di cui al comma 3, sono desunte, fra l’altro, «dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluni dei delitti di cui agli articoli 353, 353-bis, 629, 640-bis, 644, 648-bis, 648-ter del codice penale, dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e di cui all’articolo 12-quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306 convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 1992, n. 356». Ora questo Consiglio ha distinto nettamente il valore estrinseco del provvedimento giurisdizionale emesso in sede penale per uno dei delitti-spia dell’art. 84, comma 4, lett. a), quale fatto sintomatico dell’infiltrazione mafiosa, dal contenuto intrinseco di tale provvedimento, ossia dall’«apprezzamento che il Prefetto compie della sentenza» – o di altro provvedimento in sede penale – «e, cioè, il valore intrinseco che il contenuto della sentenza assume nella valutazione discrezionale compiuta dall’autorità» (Cons. St., sez. III, 24 luglio 2015, n. 3653). L’informativa antimafia è infatti per sua stessa ragion d’essere un provvedimento discrezionale, e non vincolato, che deve fondarsi su di un autonomo apprezzamento degli elementi delle indagini svolte, o dei provvedimenti emessi in sede penale, da parte dell’autorità prefettizia. Il Prefetto, in altri termini, deve necessariamente tenere in conto l’emissione o, comunque, il sopravvenire di un provvedimento giurisdizionale, nel suo valore estrinseco, tipizzato dal legislatore, di fatto sintomatico dell’infiltrazione mafiosa a fronte di uno dei delitti-spia previsti dall’art. 84, comma 4, lett. a), del codice delle leggi antimafia, ma deve nel contempo effettuarne un autonomo apprezzamento, nel suo contenuto intrinseco, delle risultanze penali, senza istituire un automatismo tra l’emissione del provvedimento cautelare in sede penale e l’emissione dell’informativa ad effetto interdittivo. E tanto l’autorità prefettizia ha correttamente fatto, nel caso di specie, perché l’informativa antimafia adottata dal Prefetto di Roma riporta, valuta e valorizza i gravi indizi di colpevolezza che hanno giustificato l’emissione della misura degli arresti domiciliari nei confronti di -OMISSIS- e dei suoi collaboratori e/o fiduciari, accusati di essersi associati al fine di commettere una serie indeterminata di reati di abuso d’ufficio, falso in atto pubblico, traffico di rifiuti, truffa aggravata, frode nelle pubbliche forniture, gestione illecita di rifiuti e comunque atti o attività illeciti necessari a consentire il mantenimento o l’ampliamento della posizione di sostanziale monopolio dello stesso -OMISSIS- e delle sue aziende nel settore della gestione dei rifiuti solidi urbani, prodotti dai Comuni insistenti all’interno della Regione Lazio, nonché di aver posto in essere sistematiche violazioni dell’art. 260 del d. lgs. n. 152 del 2006 perché, anche in tempo diversi e in concorso tra loro, al fine di consentire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate gestivano abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti. Si tratta di condotte gravi, compendiate nell’ipotesi accusatoria, il cui impianto ha retto al vaglio del G.I.P. presso il Tribunale di Roma, di associazione a delinquere (art. 416 c.p.) e, appunto, di traffico illecito di rifiuti (art. 260 del d. lgs. n. 152 del 2006), fattispecie delittuose che entrambe giustificano, per la loro alta sintomaticità mafiosa, l’emissione dell’informativa antimafia. Non è mancata, come sostiene invece il primo giudice, un’autonoma valutazione di tali fattispecie da parte dell’autorità prefettizia, che ha singolarmente elencato e valutato la posizione di -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, e tutta la galassia di figure, società, cointeressenze, gravitanti attorno all’egemonica figura di -OMISSIS-, ed ha correttamente ricordato, proprio nell’incipit dell’apparato motivazionale, l’emissione di una precedente informativa a carico della società con provvedimento del 29 novembre 2006 ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 252 del 1998, all’epoca vigente. Elemento, questo, che, pur nella sua laconicità, non è un mero dato d’archivio o una semplice notazione dal sapore cronachistico, quasi atteggiandosi a considerazione estemporanea o marginale nel compendio argomentativo del provvedimento, ma che al contrario, come si dirà, assume una centrale evidenza e fondamentale rilevanza all’interno di tale compendio. Di qui, per le ragioni vedute, l’erroneità della sentenza impugnata laddove ha ritenuto che il provvedimento prefettizio non abbia esaminato il contenuto dell’ordinanza e non abbia rintracciato in esso gli elementi di collegamento con la criminalità organizzata, ché anzi esso ha rinvenuto tali elementi proprio nell’ipotizzato sodalizio criminoso costituito e diretto da -OMISSIS- attraverso il gruppo imprenditoriale da lui costituito e diretto per anni. L’informativa antimafia qui in esame, infatti, ha fatto proprio e rielaborato il contenuto dell’ordinanza e ha evidenziato che tali elementi consistono proprio nelle imputazioni di associazioni a delinquere e di traffico illecito di rifiuti nei confronti di -OMISSIS- e dei suoi collaboratori per mantenere, sostanzialmente, con metodi illeciti un sostanziale monopolio sulla gestione di tali rifiuti nell’intero Lazio, rifiuti abusivamente gestiti. Nemmeno può condividersi, quanto allo specifico profilo del traffico illecito dei rifiuti, l’eccessiva svalutazione dell’art. 260 del d. lgs. n. 152 del 2006 che la sentenza qui impugnata effettua del suo valore sintomatico ai fini che qui rilevano. La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha ribadito, anche di recente, che il delitto di cui all’art. 260 del d. lgs. n. 152 del 2006 costituisce elemento in sé bastevole a giustificare l’emissione dell’informativa, perché il disvalore sociale e la portata del danno ambientale connesso al traffico illecito di rifiuti rappresentano, già da soli, ragioni sufficienti a far valutare con attenzione i contesti imprenditoriali, nei quali sono rilevati, in quanto oggettivamente esposti al rischio di infiltrazioni di malaffare che hanno caratteristiche e modalità di stampo mafioso (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 21 dicembre 2012, n. 6618; Cons. St., sez. III, 28 aprile 2016, n. 1632; Cons. St., sez. III, 28 ottobre 2016, n. 4555 e n. 4556). La presenza di legami con la criminalità organizzata, a fronte di tale grave condotta, è data per presupposta dal legislatore, con una praesumptio iuris tantum che certamente, in ciò si può convenire con la difesa delle società appellate, deve ammettere la prova contraria, non potendosi postulare un automatismo tra l’emissione dell’ordinanza e l’emissione dell’informativa, ma che nel caso di specie, per quanto si dirà, non è stata offerta dalle stesse società appellate, le quali si sono limitate ed eccepire che nelle 410 pagine dell’ordinanza cautelare non si rinverrebbe traccia di legami con la criminalità organizzata di stampo mafioso, ma ha trascurato o, comunque, svalutato, oltre alla grave sintomaticità dei delitti contestati al -OMISSIS- e ai suoi collaboratori, l’esistenza di una precedente informativa a carattere interdittivo a carico della medesima società, risalente al 2006, e fondata sulla vicinanza di uomini del gruppo imprenditoriale diretto da -OMISSIS- al mondo della criminalità organizzata di stampo mafioso." Per approfondire scarica la sentenza.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 2.3.2017

 
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Nella controversia all'esame della Terza Sezione del Consiglio di Stato, il Ministero dell’Interno lamenta la violazione dell’art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011 da parte del primo giudice, che erroneamente avrebbe affermato l’inidoneità del solo procedimento penale, avente ad o ... Continua a leggere

 

Procedure di gara: le "idonee referenze bancarie" richieste nei bandi di gara ed il soccorso istruttorio processuale

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 2.3.2017

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Si segnala la sentenza della Terza Sezione del Consiglio di Stato depositata in data 2 marzo 2017 nella quale si precisa che "L’art. 41 del Codice dei contratti pubblici n. 163/2006, applicabile alla vicenda in esame, dispone che "negli appalti di forniture o servizi, la dimostrazione della capacità finanziaria ed economica delle imprese concorrenti può essere fornita mediante uno o più dei seguenti documenti: a) dichiarazione di almeno due istituti bancari o intermediari autorizzati ai sensi del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385". Correttamente, il primo giudice ha rilevato che secondo il costante orientamento della giurisprudenza <> (Cons. Stato Sez. III, 17-12-2015, n. 5704; nello stesso senso, Cons. Stato, sez. V, 23/2/2015 n. 858; id., sez. V, 27/05/2014 n. 2728; id., sez. V, 23/06/2008); e che tali referenze, "con i contenuti fissati dalla lex specialis, hanno una sicura efficacia probatoria dei requisiti economico-finanziari necessari per l'aggiudicazione di contratti pubblici: e ciò in base al fatto notorio che il sistema bancario eroga credito a soggetti affidabili sotto tali profili, per cui è ragionevole che un'Amministrazione aggiudicatrice, nell'esercizio della propria discrezionalità in sede di fissazione della legge di gara, ne richieda la produzione in tale sede" (Cons. Stato, sez. V, 07/07/2015 n. 3346; analogamente Cons. Stato, sez. V, 22 maggio 2012, n. 2959; Consiglio di Stato, sez. V, 27 maggio 2014, n. 2728)". Nel caso di specie, il disciplinare di gara prevedeva, all’art. 5, punto 3, l’obbligo per le concorrenti di produrre dichiarazioni di almeno due istituti bancari o intermediari finanziari "attestanti che l’impresa è solida e ha sempre fatto fronte ai propri impegni con regolarità e puntualità", mentre nella dichiarazione prodotta in gara dalla cooperativa. La Banca si è limitata ad affermare di "intrattenere rapporti" con la ditta aggiudicataria, senza alcuna ulteriore precisazione, il che con ogni evidenza non fornisce, per la neutralità dell’asserzione, nessuna utile ed idonea informazione sulla natura e la qualità di tali rapporti e, ancor meno, sulla capacità economica e finanziaria dell’impresa di farsi carico delle obbligazioni conseguenti all'eventuale aggiudicazione del servizio posto a gara". Tenuto conto dello specifico tenore della clausola, il riferimento contenuto all’oggetto del contratto non soddisfa di per sé il requisito ivi previsto, in quanto anche se l’istituto di credito è stato reso edotto dell’oggetto della procedura di gara e del suo valore economico, non ha reso alcuna dichiarazione riferita alla solidità economica dell’impresa e alla sua correttezza e puntualità nel far fronte agli impegni nei suoi confronti, essendosi limitato a dichiarare di "intrattenere rapporti" con la cooperativa. In sostanza, la dichiarazione dell’istituto di credito non soddisfa l’esigenza manifestata dalla stazione appaltante con l’inserimento della specifica clausola. Il documento prodotto dall’appellante in sede di gara è stato dunque correttamente ritenuto dal primo giudice inidoneo a dimostrare il possesso del prescritto requisito di capacità economica e finanziaria. Ne consegue che, pur volendo qualificare la referenza bancaria come semplice dichiarazione di scienza, assegnandole valenza meramente indiziaria circa il possesso del requisito, la sua incompletezza la rende inidonea, da sola, a provare la solidità della cooperativa e ad attestare un requisito assolutamente cruciale per l’affidabilità del soggetto chiamato a svolgere il servizio. Sulla base di tali presupposti, il TAR ha dichiarato, senz’altro, l’illegittimità dell’ammissione alla gara della società aggiudicataria. La pronuncia ha determinato effetti giuridici sostanzialmente assimilabili a quelli di un provvedimento di "automatica" esclusione dalla gara, disposta dalla stazione appaltante e non preceduta dalla fase procedimentale del "soccorso istruttorio". Il primo giudice, infatti, ha ritenuto che "la stazione appaltante avrebbe dovuto procedere all’esclusione dell’aggiudicataria dalla gara essendo del tutto incontestato che, in materia di partecipazione ad appalti pubblici, l'art. 46, comma 1 bis, d.lgs. n. 163/2006 sulla tassatività delle cause di esclusione alla gara, giusta il rinvio operato ad altre disposizioni del medesimo Codice, tra cui anche all'art. 41, consente alla stazione appaltante di specificare nella legge di gara i requisiti di capacità economica finanziaria richiesti a pena di esclusione (Cons. Stato, sez. V, 22 ottobre 2015, n. 4869; T.A.R. Lazio, sez. I, 8 aprile 2015 n. 5106; T.A.R. Puglia, Bari, sez. I, 12 luglio 2012, n. 1430)": il TAR, quindi, non ha valutato l’applicabilità – nell’ambito del procedimento di gara, o, eventualmente, nel corso del giudizio, della previsione recata dall’art. 46, comma 1 ter, del D.Lgs 163/06, che impone alla stazione appaltante di consentire al concorrente di integrare e regolarizzare la documentazione allegata alla domanda di partecipazione. Sia l’appellante che l’Amministrazione sostengono, invece, che il TAR, una volta appurata la carenza (ma non la totale mancanza) della idonea documentazione probatoria del requisito di partecipazione, non potesse adottare una pronuncia destinata a provocare gli effetti di una automatica esclusione dalla gara della concorrente aggiudicataria, poiché, in tal modo, aveva precluso lo svolgimento del doveroso subprocedimento del soccorso istruttorio. La difesa dell’appellata, però, ha replicato che il ricorso al soccorso istruttorio, riguardante la carenza della documentazione attestante il possesso dei requisiti economici di partecipazione, sarebbe stato possibile solo in corso di gara, prima dell’apertura delle offerte tecniche ed economiche: sicché non sarebbe possibile applicare in sede giurisdizionale l’art. 46 comma 1-ter citato. A supporto della propria tesi, si sostiene che il potere di integrazione documentale trova il limite intrinseco dell’inalterabilità del contenuto dell’offerta, della certezza della sua provenienza, del principio di segretezza che presiede alla presentazione della medesima e di inalterabilità delle condizioni in cui versano i concorrenti al momento della scadenza del termine per la partecipazione alla gara. (cfr. Cons. Stato, A.P. n. 16/2014) e che quindi non potrebbe applicarsi in sede giurisdizionale. Il complesso tema sottoposto all’attenzione del Collegio riguarda la questione del cosiddetto "soccorso istruttorio processuale". In particolare, si tratta di stabilire, in assenza di puntuali regole legislative, la disciplina sostanziale e processuale delle vicende nelle quali, come nel caso in esame, risulta accertato in giudizio che: a) la stazione appaltante abbia illegittimamente ammesso alla gara un’offerta carente, sotto il profilo meramente formale, del prescritto supporto documentale, idoneo a dimostrare in modo adeguato il possesso dei requisiti soggettivi di partecipazione del concorrente; b) la riscontrata carenza documentale e probatoria, se accertata tempestivamente nel corso dello svolgimento della procedura di gara, non avrebbe consentito l’immediata esclusione dell’offerta, ma avrebbe imposto alla stazione appaltante l’attivazione del procedimento del soccorso istruttorio, disciplinato dal codice dei contratti pubblici. La Sezione richiama, preliminarmente, l’ampia giurisprudenza di questo Consiglio, la quale ha delineato la portata oggettiva della disciplina del soccorso istruttorio, la quale, attuando nell’ordinamento nazionale un istituto del diritto europeo dei contratti pubblici a recepimento facoltativo, ha enfatizzato l’impostazione sostanzialistica delle procedure di affidamento. La disciplina della procedura di gara non deve essere concepita come una sorta di corsa ad ostacoli fra adempimenti formali imposti agli operatori economici e all’amministrazione aggiudicatrice, ma deve mirare ad appurare, in modo efficiente, quale sia l’offerta migliore, nel rispetto delle regole di concorrenza, verificando la sussistenza dei requisiti tecnici, economici, morali e professionali dell’aggiudicatario. In questo senso, dunque, l’istituto del soccorso istruttorio tende ad evitare che irregolarità e inadempimenti meramente estrinseci possano pregiudicare gli operatori economici più meritevoli, anche nell’interesse del seggio di gara, che potrebbe perdere l’opportunità di selezionare il concorrente migliore, per vizi procedimentali facilmente emendabili. Ciò chiarito, occorre affrontare l’obiezione pregiudiziale svolta dall’appellante, secondo cui un problema di soccorso istruttorio riferito ai requisiti di partecipazione non si potrebbe porre una volta intervenuta l’aggiudicazione, perché sarebbe violato il principio della "par condicio" tra i concorrenti. Tale tesi non convince, in quanto essa comporterebbe la sostanziale "disapplicazione" della disciplina introdotta dal legislatore, al fine di evitare le esclusioni dalle gare di appalto per ragioni meramente formali, quando sussiste in concreto, e fin dal momento del rilascio della dichiarazione irregolare, il requisito soggettivo richiesto in sede di gara. Ritiene infatti il Collegio che la scelta sostanzialistica del legislatore, diretta ad impedire l’esclusione per vizi formali nella dichiarazione, quando vi è prova del possesso del requisito, deve applicarsi anche quando l’incompletezza della dichiarazione viene dedotta come motivo di impugnazione dell’aggiudicazione da parte di altra impresa partecipante alla selezione (non essendone avveduta la stazione appaltante in sede di gara), ma è provato che la concorrente fosse effettivamente in possesso del prescritto requisito soggettivo, fin dall’inizio della procedura di gara e per tutto il suo svolgimento. In tale caso, infatti, l’irregolarità della dichiarazione si configura come vizio solo formale e non sostanziale, emendabile secondo l’obbligatoria procedura di soccorso istruttorio. La successiva correzione, o integrazione documentale, della dichiarazione non viola affatto il principio della par condicio tra i concorrenti, in quanto essa mira ad attestare, correttamente, l’esistenza di circostanze preesistenti, riparando una incompletezza o irregolarità che la stazione appaltante, se avesse tempestivamente rilevato, avrebbe dovuto comunicare alla concorrente, attivando l’obbligatorio procedimento di soccorso istruttorio. Né possono sussistere problematiche connesse alla segretezza delle offerte, in quanto la dichiarazione integrativa non attiene all’offerta, al suo contenuto tecnico ed economico, in relazione ad elementi oggetto di valutazione comparativa tra i concorrenti, ma al concreto possesso dei requisiti di partecipazione alla gara, i quali possono essere verificati anche in un momento successivo, fermo restando l’onere, per i partecipanti, di rispettare i vincoli minimi, di carattere formale, necessari per essere ammessi alla procedura selettiva. Inoltre, la tesi dell’impossibilità di ricorrere al soccorso istruttorio, con conseguente esclusione dell’aggiudicataria per omessa attivazione del soccorso istruttorio in sede di gara da parte della stazione appaltante, comporterebbe effetti eccessivamente gravosi sia per la P.A. che per l’impresa: quest’ultima sarebbe privata della possibilità di stipulare il contratto, pur disponendo, in via sostanziale, dei necessari requisiti. Né va trascurato il rischio che l’impresa aggiudicataria, privata del contratto e della possibilità di ricorrere al soccorso istruttorio, potrebbe azionare una domanda risarcitoria nei confronti della stazione appaltante. Gli effetti sarebbero quindi del tutto irragionevoli e sproporzionati. Si tratta di stabilire, allora, in quale modo la disciplina sostanziale del soccorso istruttorio possa in concreto rilevare nel giudizio promosso dalla concorrente che contesti l’illegittima ammissione dell’aggiudicataria, che abbia omesso di presentare la prescritta documentazione. In linea astratta, una possibile soluzione interpretativa potrebbe essere individuata mediante la delimitazione della portata della pronuncia di eventuale annullamento dell’aggiudicazione e dei conseguenti effetti conformativi. In tale prospettiva, si potrebbe ritenere che il giudice, accertata l’illegittimità dell’ammissione alla gara dell’aggiudicataria e annullati i provvedimenti della stazione appaltante, dovrebbe far salvo il potere e il dovere di attivare il procedimento di soccorso istruttorio, anche al fine di applicare la disciplina concernente il pagamento della sanzione imposta al concorrente che procede alla regolarizzazione della domanda di partecipazione. All’esito del procedimento, alla luce della documentazione eventualmente prodotta dall’interessata, la stazione appaltante assumerà le determinazioni definitive, concernenti l’esclusione o l’ammissione della concorrente. Questa possibile ricostruzione, tuttavia, sebbene astrattamente coerente con lo sviluppo procedimentale della gara, non appare compatibile con il principio di concentrazione delle tutele e con la naturale proiezione del processo verso la rapida definizione del contenuto sostanziale del rapporto controverso. Ritiene, pertanto, il collegio che la questione riguardante l’emendabilità della riscontrata carenza documentale e la sostanziale titolarità dei requisiti di partecipazione alla gara debba essere sempre dedotta nell’ambito del giudizio proposto contro l’ammissione dell’aggiudicataria e non possa essere sempre rinviata alla rinnovazione, totale o parziale, del procedimento selettivo, in tutti i casi in cui, come nella vicenda per cui è controversia, la stazione appaltante debba limitarsi al riscontro oggettivo della sussistenza dei requisiti di partecipazione, senza alcun margine di apprezzamento discrezionale. Quanto alle modalità strettamente processuali attraverso cui il tema del soccorso istruttorio possa essere esaminato in giudizio, il collegio ritiene, in primo luogo, che la questione non possa essere rilevata d’ufficio del giudice, ma presuppone sempre un’iniziativa della parte aggiudicataria, interessata alla affermazione della legittimità (sostanziale) della propria ammissione alla gara, correlata alla concreta dimostrazione della sussistenza dei requisiti di partecipazione. Secondo una possibile tesi interpretativa, peraltro, l’aggiudicatario illegittimamente ammesso alla gara per carenza della prescritta documentazione, dovrebbe articolare un ricorso incidentale, teso ad evidenziare l’ulteriore illegittimità commessa dalla stazione appaltante, consistente nella omessa attivazione del procedimento di soccorso istruttorio. La Sezione ritiene, però, che l’aggiudicataria, per poter validamente invocare in sede processuale il principio del soccorso istruttorio, al fine di paralizzare la doglianza diretta ad ottenere la sua esclusione dalla gara, possa limitarsi ad una deduzione difensiva, volta a dimostrare che, in ogni caso, la mancata produzione della prescritta documentazione non avrebbe condotto alla esclusione della procedura. A tal fine, però, la parte è gravata dall’onere, ex art. 2697 c.c., della dimostrazione della natura meramente formale dell’errore contenuto nella dichiarazione: può validamente spendere tale argomento difensivo solo dimostrando in giudizio di disporre del necessario requisito di partecipazione fin dal primo momento, e cioè da quando ha reso la dichiarazione irregolare. In sostanza, secondo il Collegio, deve superare la prova di resistenza, non potendo pretendere di paralizzare l’azione di annullamento, adducendo, solo in via ipotetica, la violazione del principio del soccorso istruttorio, ma deve dimostrare in giudizio che, ove fosse stato attivato, correttamente, tale rimedio, l’esito sarebbe stato ad essa favorevole, disponendo del requisito in contestazione. In caso contrario, non soltanto sarebbe violato il principio dell’onere della prova, che è immanente nel processo, ma verrebbe frustrata finanche la finalità di accelerazione che permea le controversie in materia di contratti pubblici." Per approfondire scarica il testo integrale della sentenza

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 2.3.2017

 
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Si segnala la sentenza della Terza Sezione del Consiglio di Stato depositata in data 2 marzo 2017 nella quale si precisa che "L’art. 41 del Codice dei contratti pubblici n. 163/2006, applicabile alla vicenda in esame, dispone che "negli appalti di forniture o servizi, la dimostrazione della capacit ... Continua a leggere

 

Appalti: la legittimazione della terza classificata

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 2.3.2017

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La Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza depositata in data 2 marzo 2017 ha evidenziato che "la ricorrente originaria si è classificata terza e può efficacemente coltivare, attraverso il giudizio, l’utilità dell’aggiudicazione solo in quanto dimostri l’illegittimità del posizionamentodelle due imprese che l’hanno preceduta in graduatoria. Ovviamente, nessun ostacolo in ordine all’ammissibilità si pone in relazione alle censure che tendono ad invalidare l’intera procedura, poiché, attraverso di esse, è coltivato un interesse diverso da quello all’aggiudicazione, sub specie strumentale alla riedizione dell’intera gara. I principi sopra sinteticamente enunciati possono ritenersi "diritto vivente" posto che su di essi ha anche avuto modo di pronunciarsi l’Adunanza Plenaria con sentenza 3 febbraio 2014, n. 8, la quale ha chiarito che, seppure la collocazione al terzo posto in graduatoria non comporti di per sé - con carattere di automatismo - il difetto di legittimazione del concorrente terzo graduato ad introdurre contestazioni sulle scelte operate dalla stazione appaltante in ordine all'offerta del secondo graduato, la cui possibile estromissione di gara consentirebbe lo scorrimento in posizione utile per poter aspirare all'aggiudicazione, ove, tuttavia, siffatta evenienza non ricorra, l'impresa terza classificata non è portatrice di un interesse strumentale concreto e diretto all'annullamento degli atti impugnati, non avendo, in ragione della postergazione al secondo concorrente utilmente graduato, alcuna chance di vittoria". Per approfondire vai al testo integrale della sentenza.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 2.3.2017

 
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La Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza depositata in data 2 marzo 2017 ha evidenziato che "la ricorrente originaria si è classificata terza e può efficacemente coltivare, attraverso il giudizio, l’utilità dell’aggiudicazione solo in quanto dimostri l’illegittimità del posizionamento ... Continua a leggere

 

Anomalia dell'offerta: nel sub procedimento di verifica solo l'offerta è immodificabile

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 2.3.2017

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Nel giudizio in esame l’appellante censura l’assunto del giudice di prime cure, nella parte in cui, nel respingere le doglianza del ricorso incidentale escludente, ha affermato che l’amministrazione, nel computo del costo del personale "ha correttamente fatto riferimento al costo orario medio….ed alle ore teoriche". Secondo l’appellante, invece, l’amministrazione avrebbe dovuto quantificare anche il costo dei dipendenti incaricati della sostituzione del personale assente per ferie, malattia od altro, e quindi aggiungere il 25% (pari al tasso medio delle assenze) al dato tabellare delle ore teoriche. Tale censura è stata ritenuta infondata dal Consiglio di Stato che nella sentenza del 2 marzo 2017 ha ribadito che " nel costo di orario medio orario è ricompreso sia il costo dell’ora lavorativa effettiva sia il costo di sostituzione (id est quello necessario a retribuire il sostituto) a carico del datore di lavoro (Cfr. Sez. III, n. 6131/2014): pertanto nessuna maggiorazione ulteriore necessitava". L’appellante svolge poi ulteriori motivi d’appello tesi a censurare la sentenza nella parte in cui ha considerato fondato il ricorso introduttivo. "Sul punto giova chiarire preliminarmente che il TAR ha ritenuto illegittima la valutazione di anomalia svolta sull’aggiudicataria, poiché la commissione di gara non ha affatto esaminato, sull’erronea convinzione della loro inammissibilità, gli elementi addotti dalla medesima ed afferenti allo scorporo dell’I.R.A.P. dal costo medio orario e dall’utilizzazione del contratti a tutele crescenti secondo le possibilità offerte dalla normativa sopravvenuta. Secondo l’appellante, la statuizione sarebbe erronea, in primis perché non avrebbe messo adeguatamente a fuoco l’inaffidabilità complessiva dell’offerta (di cui il costo del lavoro era solo un elemento), e, comunque, perché avrebbe dato rilievo ad elementi normativi emersi quando l’offerta era già inattendibilmente formulata, in violazione del principio tempus regit actum. Il motivo riproduce in gran parte, anche nel lessico, le censure del ricorso incidentale nel primo giudizio, senza aggiungere argomentazioni critiche specificatamente riferite ai passaggi motivazionali della sentenza gravata sul punto. Ad ogni modo, ad esse si può brevemente replicare con l’indicazione del principio giurisprudenziale, anche di recente ribadito dalla Sezione, per il quale nel procedimento di valutazione dell’anomalia "sono anche ammesse le giustificazioni sui costi che si fondano su errori di calcolo, ovvero su fatti sopravvenuti o su sopravvenienze normative, alla cui stregua risulti comunque chiara la congruità ed adeguatezza dell’offerta così come originariamente formulata, fermo restando che l’offerta deve essere immodificabile nei suoi contenuti (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 5102 del 10 novembre 2015; Sez. V, n. 5218 del 16 novembre 2015 e, da ultimo, Sez. III, n. 438 del 3 febbraio 2016). L’appellante contesta, ancora con il medesimo approccio, le affermazioni del giudice di prime cure in punto di "rilevanza" dell’erroneo computo del costo del lavoro. Il giudice di prime cure ha affermato che "il mancato rispetto dei minimi tabellari, o, in mancanza, dei valori indicati dalla contrattazione collettiva non determina l'automatica esclusione dalla gara, ma costituisce un importante indice di anomalia dell'offerta che dovrà essere poi verificata attraverso un giudizio complessivo di rimuneratività", ben potendo la stazione appaltante dichiarare la congruità di un’offerta che indichi uno scostamento rispetto ai parametri indicati nelle dette tabelle, purché tale scostamento non sia eccessivo e risulti debitamente motivato (Consiglio di Stato, sez. VI, 21 luglio 2010 n. 4783; cfr. sez. V, 7 ottobre 2008, n. 4847; 5 agosto 2005, n. 4196; sez. VI, 3 maggio 2002, n.2334)". L’appellante sostiene in proposito che l’inaffidabilità dell’offerta si sarebbe cristallizzata al momento della presentazione dell’offerta per erroneità delle valutazione economiche sul fattore preponderante dell’appalto (il costo del lavoro), non rilevando i benefici successivi alle prime giustificazioni. Il Consiglio di Stato ha richiamato il principio, consolidato in giurisprudenza, secondo cui nel sub-procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta, solo quest'ultima è immodificabile, laddove le giustificazioni sono sicuramente modificabili e integrabili: ciò del resto, risulta coerente con la finalità, precipua del sub-procedimento di verifica, di appurare e apprezzare l'idoneità, l'adeguatezza e la congruità dell'offerta (rispetto alla corretta esecuzione dell'appalto), finalità che giustifica pertanto del tutto ragionevolmente la modificazione delle giustificazioni e dei chiarimenti. Tale principio dev’essere letto unitamente a quanto sopra osservato in ordine anche alle sopravvenienze.". Per approfondire scarica la sentenza.

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Nel giudizio in esame l’appellante censura l’assunto del giudice di prime cure, nella parte in cui, nel respingere le doglianza del ricorso incidentale escludente, ha affermato che l’amministrazione, nel computo del costo del personale "ha correttamente fatto riferimento al costo orario medio….ed a ... Continua a leggere

 

Procedure d’appalto: la regola della "non annullabilità" del provvedimento irregolare, il raffronto tra l'art. 38 Dlgs 163/2016 e l’art. 21 octies legge 241/90

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 2.3.2017

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La Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 2 marzo 2017 ha analizzato il tenore e le conseguenze dell’art. 38 comma 2-bis del codice dei contratti pubblici n. 163/2006 (disposizione ratione temporis applicabile), inserito dall'art. 39, comma 1, D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114. La disposizione testualmente recita "La mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria. In tal caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere. Nei casi di irregolarità non essenziali, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non indispensabili, la stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione, né applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di cui al secondo periodo il concorrente è escluso dalla gara……". Dalla piana lettura della disposizione emerge che la mancanza della dichiarazione da parte del concorrente, in ordine al possesso dei requisiti di moralità, determina l’avvio del procedimento di "soccorso istruttorio", subordinato all’adempimento della obbligazione pecuniaria posta in capo al medesimo. E’ solo la reiterata e perdurante omissione della richiesta integrazione documentale che determina l’esclusione dalla gara o, detto diversamente, rende illegittima la permanenza in gara e l’aggiudicazione in favore del candidato inadempiente. Tutto l’impianto della norma è calibrato sul carattere formale delle violazioni o delle omissioni, ed è a questo specifico carattere che la norma fa riferimento, quando impone la sanatoria in un certo termine, pena l’esclusione, così coniugando il principio di regolarità formale della gara, con quello sostanziale di scelta dell’offerta migliore. Il primo non è totalmente sacrificato, ma si impone nei limiti dell’obbligo di regolarizzazione, e sempre che l’interesse a regolarizzare ed a concorrere per l’aggiudicazione permanga in capo al concorrente. Se dunque è vero che le irregolarità formali sono sempre sanabili, è nondimeno errato sostenere che l’art. 38 comma 2-bis sia espressione di un principio per il quale la sostanza prevale sempre sulla forma, atteso che i difetti di forma (quelli essenziali) devono essere sempre emendati prima dell’aggiudicazione. E’ questo ultimo passaggio che rende, a ben vedere, la disposizione in esame, diversa dall’art. 21-octies della legge generale sul procedimento. L’art. 21 octies, citato, è ormai comunemente indicato quale espressione di un principio di irrilevanza, ai fini dell’annullamento (in sede giurisdizionale o amministrativa), delle violazioni di forma o di procedimento nell’emanazione di atti a contenuto vincolato quando esse non abbiano inciso sulla sostanza. Esso non richiede alcun procedimento di regolarizzazione poiché è la giusta regolazione autoritativa del rapporto a rilevare ai fini della legittimità. L’art. 38, comma 2-bis, ha invece diversa portata. Esso discrimina tra irregolarità essenziali e non essenziali e solo alle seconde implicitamente riserva una trattamento del tutto simile a quello previsto dall’art. 21-octies, sancendone l’irrilevanza ai fini della legittimità. Per le irregolarità che sono (sempre formali, ma) essenziali prevede invece, come sopra visto, un obbligatorio procedimento di sanatoria, ossia di produzione, integrazione, correzione, con effetto sanante. Ciò si spiega per la circostanza che le procedure concorsuali, seppure chiaramente finalizzate alla scelta della migliore offerta o del miglior candidato, operano all’interno di un quadro di regole poste a garanzia della leale e trasparente competizione, che devono essere rispettate nei limiti in cui ragionevolmente assolvano alla funzione di dirigere la competizione verso il risultato finale, e non si risolvano piuttosto in mere prescrizioni formali prive di aggancio funzionale o in meri ostacoli burocratici da superare. È la competizione il discrimen rispetto alla generale ipotesi di cui all’art. 21 octies, ed essa giustifica l’esigenza del rispetto di regole di ingaggio certe e ragionevoli, pur se formali, ossia concernenti la produzione di documenti entro un certo termine a prescindere dai contenuti degli stessi. In questa chiave di lettura, l’art. 38-bis, proteso verso il meritorio obiettivo di consentire sempre la scelta della migliore offerta, ha attenuato il rigore sanzionatorio delle regole formali di gara, imponendo all’amministrazione, ove sia rilevato una irregolarità comunque "essenziale", di accettare la regolarizzazione in luogo dell’esclusione, sembra che avvenga in un termine dato ed inderogabile. Concludendo sul primo tema d’indagine costituito dalle conseguenze in termini giuridici della irregolarità essenziali, deve dirsi che esse sono irregolarità che pretendono e necessitano di un’obbligatoria sanatoria (ovviamente, giova ripeterlo, sempre che l’offerente abbia interesse a proseguire la gara), in ciò differenziandosi dalle mere irregolarità contemplate dall’art. 21-octies della legge generale sul procedimento. L’assunto è pregno di conseguenze sul piano processuale. Esso, in particolare, impedisce la lineare traslazione, nei giudizi sulle procedure d’appalto, della regola della "non annullabilità" del provvedimento irregolare, sulla quale pacificamente poggia l’art. 21-octies. Ove sia provato (sul tema e sui rilevantissimi profili di riparto del relativo onere già si è detto in premessa, e si tornerà più avanti) che la irregolarità essenziale vi sia (ad esempio sia stata omessa la produzione di un documento relativo ai requisiti morali) ed essa non sia stata rilevata e sanata in virtù dello specifico procedimento pure disciplinato dall’art. 38, comma 2-bis, il giudice dovrebbe, a rigore, annullare l’aggiudicazione finale, in quanto conseguentemente viziata, sancendo, in via conformativa, la riedizione del procedimento, a partire dall’ultimo segmento valido. L’esito demolitorio, in tali perentori termini, si rivelerebbe tuttavia contrario allo spirito che ha pervaso la novella dell’art. 38 ed all’impianto di fondo del nuovo processo amministrativo, nella parte in cui esso, alla luce del principio di effettività e satisfattività della tutela, consente al giudice a) un pieno accesso al fatto; b) un pieno accesso al rapporto, quando il potere dell’amministrazione si presenti vincolato. A ciò deve aggiungersi la necessità di pervenire alla rapida definizione della corretta graduatoria della procedura selettiva, evitando defatiganti rinnovazioni di singoli segmenti dell’iter. E non v’è dubbio che l’accertamento della completezza documentale ai fini dell’ammissione alla gara sia il frutto di un’attività vincolata. In tali casi il giudice amministrativo ben potrebbe "limitarsi" ad accertare, all’esito del processo, i termini della dedotta irregolarità essenziale e, ove risulti provato che ad essa non si accompagni anche una carenza sostanziale del requisito (alla cui dimostrazione la documentazione omessa o irregolarmente prodotta era finalizzata), dichiarare, alla luce della prognosi postuma fatta, che il vizio era sanabile e che l’offerente aveva interesse a sanarlo, previo pagamento della sanzione pecuniaria. Un tale accertamento renderebbe inutile l’ulteriore pronuncia costitutiva deputata a privare d’effetto l’aggiudicazione, poiché l’ulteriore procedimento amministrativo che ne scaturirebbe non potrebbe che essere una mera riproduzione, in forma amministrativa, del percorso giudiziale già effettuato nel contraddittorio della parti sotto la supervisione del giudice così come descritto in sentenza. Nondimeno, l’accertamento conserverebbe una sua autonoma utilità, poiché è in grado di vincolare l’amministrazione, determinando, in virtù del connesso effetto conformativo, l’obbligo di ingiungere la sanzione. Non osta in tale direzione, né la mancanza di una esplicita domanda di accertamento da parte del ricorrente, posto che la domanda di annullamento implica sempre e necessariamente l’accertamento di una violazione, né la peculiarità della posizione giuridica dell’offerente, comunque ricompresa nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativa, né il "dovere" di annullare l’atto quando il ricorso è accolto, come deducibile dall’art. 34, comma 1, lett. a), atteso che la medesima disposizione, al comma 3, espressamente prevede che "quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori". Tale ultima norma è espressione di un principio per il quale a) il mero accertamento rientra tra i poteri del giudice; b) la domanda di accertamento rientra implicitamente nel contenuto della domanda di annullamento, talché ove vengano meno i presupposti della seconda, perché non più utile, può rimanere in piedi la prima. La norma deve ritenersi applicabile non solo nei casi di perdurante interesse risarcitorio, ma anche in tutti i casi in cui perdura un interesse qualificato e processualmente rilevante; e tale, invero, è da considerare l’interesse del ricorrente ad ottenere la sottoposizione del concorrente al procedimento di soccorso istruttorio e alla connessa sanzione pecuniaria. Sin qui si è unicamente discusso di violazioni solo formali e delle conseguenti possibili statuizioni del giudice amministrativo, idonee a coniugare il principio di satisfattività della tutela, con quello di proporzionalità (utilizzo del minimo mezzo), ossia senza elidere gli effetti dell’azione amministrativa sostanzialmente giusti. A conclusioni del tutto diverse deve giungersi quando le lacune dell’offerta non siano solo formali, ma si accompagnino, invece, ad una effettiva carenza sostanziale del requisito, o, quanto meno, al ragionevole dubbio che quest’ultimo possa essere carente. In tali casi l’annullamento rimane l’unica strada percorribile per il giudice. Occorre tuttavia, come accennato in premessa, interrogarsi su quali siano gli strumenti per accertare che alla violazione delle forma si accompagni, o meno, anche una sostanziale carenza dei requisiti. Il tema è di grande importanza, poiché ove l’omissione formale nasconda la cennata carenza sostanziale, la conseguente valutazione del giudice fuoriesce dall’art. 38 comma 2-bis, per rientrare nel fuoco dell’art. 38, comma 1, sul necessario ed inderogabile possesso dei requisiti di moralità. Si consideri, in proposito, che la sussistenza o meno del requisito – a differenza dell’accertamento della produzione o meno del documento che lo comprova - non è una valutazione necessariamente vincolata (si pensi solo per fare un esempio al concetto di "grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara"), ragion per cui, ove il giudice sia certo, in ragione della natura vincolata dell’accertamento, che il requisito non sussista, egli deve annullare l’aggiudicazione ed accogliere le richieste del secondo graduato di subentrarvi, ma se le valutazioni che si richiedono dinanzi al dubbio sono invece connotate da discrezionalità, la soluzione non può che essere l’annullamento dell’ammissione del concorrente, con la conseguente regressione del procedimento alla fase dell’invito alla regolarizzazione e delle pertinenti verifiche e valutazioni in sede amministrativa di quanto prodotto. Come sopra accennato, il tema della prova e del riparto del relativo onere assume quindi rilievo fondamentale ai fini delle risoluzione delle questioni controverse e delle finali statuizioni del giudice. Si è già detto in proposito che il ricorrente, il quale invoca l’esclusione dell’aggiudicatario, può limitarsi, ordinariamente, ad addurre la mancanza o l’incompletezza della produzione documentale, collegando presuntivamente a tali difetti (che giova ribadire, devono comunque essere essenziali) una possibile carenza del requisito sostanziale. E’ invece il resistente controinteressato che deve ricondurre, in via di eccezione, la res controversa nell’alveo dell’art. 38 comma 2-bis, provando che il requisito esiste e che, per l’appunto, si tratta di una mera, sia pur essenziale, irregolarità documentale. Per approfondire scarica il testo integrale della sentenza.

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La Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 2 marzo 2017 ha analizzato il tenore e le conseguenze dell’art. 38 comma 2-bis del codice dei contratti pubblici n. 163/2006 (disposizione ratione temporis applicabile), inserito dall'art. 39, comma 1, D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito ... Continua a leggere

 

Farmacie: localizzazione e perimetrazione delle sedi

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 1.3.2017

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La Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 1.3.2017 ha esaminato il ricorso con il quale "Gli appellanti non contestano in realtà che l’individuazione delle nuove sedi farmaceutiche costituisca espressione di discrezionalità amministrativa, come peraltro si evince plasticamente daldettato dell’art. 11, comma 1 della legge 27/2012, il quale stabilisce, per quanto qui interessa, che: "1. Al fine di favorire l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, aventi i requisiti di legge, nonché di favorire le procedure per l’apertura di nuove sedi farmaceutiche garantendo al contempo una più capillare presenza sul territorio del servizio farmaceutico, alla legge 2 aprile 1968, n. 475, e successive modificazioni, sono apportare le seguenti modificazioni: a) all’articolo 1, il secondo e il terzo comma sono sostituiti dai seguenti: «Il numero delle autorizzazioni è stabilito in modo che vi sia una farmacia ogni 3.300 abitanti. La popolazione eccedente, rispetto al parametro di cui al secondo comma, consente l’apertura di una ulteriore farmacia, qualora sia superiore al 50 per cento per parametro stesso»; … c) l’articolo 2 è sostituito dal seguente: «Art. 2. 1. Ogni comune deve avere un numero di farmacie in rapporto a quanto disposto dall’articolo 1. Al fine di assicurare una maggiore accessibilità al servizio farmaceutico, il comune, sentiti l’azienda sanitaria e l’Ordine provinciale dei farmacisti competente per territorio, identifica le zone nelle quali collocare le nuove farmacie, al fine di assicurare un’equa distribuzione sul territorio, tenendo altresì conto dell’esigenza di garantire l’accessibilità del servizio farmaceutico anche a quei cittadini residenti in aree scarsamente abitate». […]". La norma identifica la causa e il fine del potere pubblico, ma non detta alcun vincolo sui contenuti, salvo quello della popolazione residente, che non è contestato. In presenza di discrezionalità amministrativa – e non tecnica – il sindacato del giudice amministrativo è di tipo estrinseco e deve arrestarsi non solo dinanzi alle scelte equivalenti, ma anche dinanzi a quelle meno attendibili, purché non irragionevoli. Tanto premesso, si può esaminare direttamente il provvedimento impugnato, che il Tar ritiene congruamente motivato, nelle parti significative, citate dagli stessi appellanti. - "il Comune di Lendinara al 31.12.2010 (dato Istat) contava una popolazione di 12.181 abitanti"; - "nel territorio comunale sono già presenti n. 3 farmacie, una presso Piazza Risorgimento, una presso piazza S Marco e una nella frazione di Ramodipalo"; - "di ritenere opportuno avvalersi della facoltà di utilizzo del parametro numerico relativo alla popolazione eccedente per l'istituzione di una quarta farmacia, al fine di assicurare un'equa distribuzione sul territorio per meglio garantire l'accessibilità del servizio farmaceutico"; - "negli ultimi decenni, il capoluogo lendinarese si è sviluppato principalmente nella parte sud, in particolare nella zona oltre la linea ferroviaria di via Duode"; - "la predetta zona ha avuto un'edificazione prevalentemente residenziale intensiva, senza che i servizi locali fossero adeguatamente e conseguentemente potenziati" - "una prossima estensione residenziale dell'area dell'ex zuccherificio, area a sud della linea ferroviaria, di notevole estensione". Il dato relativo alla popolazione residente è quello utilizzabile al momento dell’adozione del provvedimento impugnato, né possono rilevare variazioni successive, peraltro modeste. La circostanza relativa allo sviluppo "negli ultimi decenni" e "principalmente" nella zona sud del centro abitato di Lendinara non è stata confutata. La documentazione fotografica prodotta non appare sufficiente a smentire l’esistenza di una "prevalente" edificazione residenziale intensiva, non potendo tale conclusione affidarsi alla mera circostanza che l’area è caratterizzata da villette monofamiliari e palazzine. Quanto all’estensione dell’area a sud della linea ferroviaria, si tratta di una prognosi plausibile e che comunque assume un valore marginale nel contesto del provvedimento di localizzazione. Al di là di tali aspetti, ciò che non convince nelle censure difensive è l’idea di riesaminare la scelta amministrativa, che, per quanto opinabile, non appare irragionevole, essendosi basata sulla reale entità della popolazione residente, per la gran parte allocata nel capoluogo. 2.2 Nessun pregio ha la denunciata disattenzione verso il parere negativo dell’Ordine dei farmacisti, una volta che le ragioni poste a fondamento della scelta sono risultate legittimo esercizio di discrezionalità amministrativa. Detto parere fornisce un contributo conoscitivo e valutativo all’Amministrazione, che non è chiamato a confutarlo se contrario al suo orientamento, restando assorbite le critiche formulate alla motivazione, che potrà essere illegittima se oggettivamente illogica e frutto di errori e travisamento, eventualmente segnalati nel parere, non già perché il parere non è stato considerato o confutato. 2.3 Con riguardo al terzo motivo di appello, non vi è ragione di discostarsi dal consolidato orientamento per cui la competenza in materia è della Giunta comunale, atteso che la valenza programmatoria della localizzazione di nuove sedi è alquanto sfumata, poiché non si tratta di riorganizzare il servizio farmaceutico, ma di completarlo, e, comunque, non tale da attrarla alla ristretta competenza dell’organo consiliare. 2.4 In ordine alla questione relativa alla perimetrazione delle sedi, la giurisprudenza del Consiglio di Stato, peraltro in evoluzione rispetto agli arresti originari, maggiormente tesi ad un’interpretazione nel segno della continuità tra vecchio e nuovo sistema, ha rilevato che l’obbligo di delimitare territorialmente le nuove sedi è stato alleggerito, ma non è venuto meno. Altrimenti ne risentirebbe la razionalità del servizio e vi sarebbe anche il rischio di conflitti di "competenza" tra farmacie confinanti. Anche il precedente su cui insistono gli appellanti (sentenza n. 5884 del 31 dicembre 2015 della Sezione) riconosce che la delimitazione delle sedi non dev’essere analitica: «contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, in seguito all'entrata in vigore della nuova disciplina normativa, non è venuto meno l'obbligo per l'Amministrazione comunale di provvedere alla pianificazione territoriale delimitando la zona di competenza di ciascuna farmacia, anche se in forma semplificata, dovendo essere assicurata un'equa distribuzione sul territorio degli esercizi, al fine di rendere agevole alla cittadinanza l'accesso al servizio farmaceutico. La mancanza della zonizzazione – anche se in forma semplificata, e dunque non necessariamente con una dettagliata definizione dei confini del territorio di pertinenza di ciascun esercizio – non consente di delimitare la libertà di scelta del farmacista di allocazione del proprio esercizio commerciale, e dunque non garantisce l'ottimale collocazione degli esercizi a tutela dell'interesse pubblico alla migliore accessibilità al servizio farmaceutico». Nel caso in esame la sede di nuova istituzione è stata individuata sulla base dell’indicazione "via Valli ovvero la zona a sud della linea ferroviaria". L’indicazione è sufficiente a identificare la "zona", così sottraendo il provvedimento impugnato a vizi di legittimità, ma è opportuno che essa sia precisata in sede di attuazione". Per approfondire scarica la sentenza integrale

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Porto d'armi: l'irrilevanza ai fini del rilascio della licenza del tipo di attività professionale o economica svolta dal richiedente

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 1.3.2017

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La disciplina del rilascio della licenza di porto d’armi è orientata alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. La regola generale, nel nostro ordinamento, è il divieto, per i cittadini, di portare le armi, sancito dall’art. 699 cod. penale e dall’art. 4, co. 1, della legge n. 110 del 1975. La giurisprudenza del Consiglio di Stato, confortata da pronunce della Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost. 16 dicembre 1993, n. 440) ormai costantemente afferma che il porto d’armi costituisce eccezione al normale divieto di portare le armi e le valutazioni in ordine al rilascio o al rinnovo sono sindacabili solo per illogicità o carenza della motivazione, ma non per i profili di merito della discrezionalità dell’autorità prefettizia (tra le molte, cfr. CdS, III sez, n. 3604/2016). Il Ministero dell’Interno, attraverso le sue articolazioni centrali e periferiche, ben può effettuare valutazioni – che attengono al merito della tutela della sicurezza pubblica – in ordine ai criteri per il rilascio ed il rinnovo della licenza di porto d’arma, tenendo conto sia del particolare momento storico, sia della peculiarità delle situazioni locali, sia dell’influenza dei predetti fattori su determinate attività o professioni. A quest’ultimo proposito va osservato che manca alcuna previsione normativa sul rilascio della licenza "ratione personae" per imprenditori, avvocati, commercianti, ecc., sicché l’appartenenza ad una "categoria" non ha uno specifico rilievo, tale da giustificare il rilascio o il rinnovo della licenza. Occorre, allora, esclusa la rilevanza del tipo di attività professionale o economica, che il richiedente dimostri con elementi specifici ed attuali il "bisogno" di portare l’arma, richiedendo per se stesso una protezione personale ulteriore rispetto a quella che, per tutti i cittadini, è istituzionalmente assicurata dagli organismi statali di sicurezza pubblica. Per approfondire scarica la sentenza

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 1.3.2017

 
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La disciplina del rilascio della licenza di porto d’armi è orientata alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. La regola generale, nel nostro ordinamento, è il divieto, per i cittadini, di portare le armi, sancito dall’art. 699 cod. penale e dall’art. 4, co. 1, della legge n. 110 del 1 ... Continua a leggere

 

Costi di sicurezza aziendale e soccorso istruttorio per le gare bandite anteriormente al nuovo Codice

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 1.3.2017

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La Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 1 marzo 2017 ha richiamato il principio secondo cui «per le gare bandite anteriormente all’entrata in vigore del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, nelle ipotesi in cui l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, e non sia in contestazione che dal punto di vista sostanziale l’offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale, l’esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l’offerta dalla stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio», enunciato da Cons. Stato Ad. Pl. n. 19 del 2016. Il dictum costituisce applicazione del più generale principio secondo cui, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia UE (da ultimo nella recente sentenza 2 giugno 2016, C-27/15), deve escludersi che una condizione di partecipazione alla gara possa determinare l’automatica esclusione dell’offerta, senza il previo esercizio del soccorso istruttorio, ove tale condizione non sia espressamente prevista dai documenti di gara e possa essere individuata solo con una interpretazione giurisprudenziale del diritto nazionale, qual è quella veicolata nella pronuncia n. 3/2015 della stessa Plenaria, in ordine alla eterointegrazione della lex specialis dell’appalto". Per approfondire scarica la sentenza.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 1.3.2017

 
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La Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 1 marzo 2017 ha richiamato il principio secondo cui «per le gare bandite anteriormente all’entrata in vigore del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, nelle ipotesi in cui l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziend ... Continua a leggere

 

Soppalco, quando non è necessario il permesso di costruire

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 2.3.2017

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La Sesta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 2 marzo 2017 ha affermato che la disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito, un’abitazione, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto. In linea di principio, sarà necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3 comma 1 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e in prospettiva ulteriore carico urbanistico: così per tutte C.d.S. 3 settembre 2014 n.4468. Si rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell’immobile, e ciò sicuramente avviene quando esso non sia suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno. Quest’ultima è l’ipotesi che si è verificata nel caso attenzionato dal Consiglio di Stato, in cui, come lo spazio realizzato con il soppalco è un vano chiuso, senza finestre o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo assolutamente non fruibile alle persone: si tratta, in buona sostanza, di un ripostiglio. Per approfondire scarica la sentenza

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 2.3.2017

 
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La Sesta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 2 marzo 2017 ha affermato che la disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito, un’abitazione, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata c ... Continua a leggere

 
 
 
 
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