News 16 Maggio 2016 - Area Tecnica


GIURISPRUDENZA

Condono edilizio per immobili che ricadono in aree vincolate: il vincolo sopravvenuto alla costruzione

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Per giurisprudenza costante, ai fini del rilascio del condono edilizio per immobili che ricadono in aree vincolate, occorre il parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo anche se il vincolo è stato imposto successivamente alla realizzazione delle opere e vige nel momento in cui deve essere esaminata la domanda di sanatoria. La Sezione ha, in proposito, affermato, anche di recente, che «è irrilevante che il vincolo sia sopravvenuto alla costruzione dell’immobile dovendo essere esaminata la domanda di condono sulla base della normativa vigente alla conclusione del procedimento» (Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 5326 del 24 novembre 2015). Si è infatti ricordato che il vincolo su un’area, ancorché sopravvenuto all’intervento edilizio, non può restare senza effetti sul piano giuridico, con la conseguenza che deve ritenersi sussistente l’onere procedimentale di acquisire il parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo in ordine alla assentibilità della domanda di sanatoria, a prescindere dall’epoca d’introduzione del vincolo, essendo tale valutazione funzionale all’esigenza di vagliare la compatibilità attuale dei manufatti realizzati abusivamente con lo speciale regime di tutela del bene compendiato nel vincolo (Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 2297 del 7 maggio 2015).

 
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Rilascio dell'autorizzazione paesaggistica: il parere espresso tardivamente dall'organo statale perde il suo valore vincolante e deve essere autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo

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L’art. 146, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio, dopo aver ricordato che l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio, stabilisce che al di fuori dei limitati casi «di cui all'articolo 167, commi 4 e 5, l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi». L’art. 167, comma 4, del d.lgs. 42 del 2004 prevede quindi il possibile accertamento postumo della compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al successivo comma 5, solo nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380. Se le opere rientrano in una delle tipologie indicate, il comma 5 dell’art. 167 prevede che «il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi … presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni. Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione». Con riferimento alla questione, oggetto della sentenza di primo grado, riguardante il rispetto del termine assegnato alle suindicate amministrazioni per l’esercizio della funzioni loro assegnate ai fini della valutazione della possibile compatibilità paesaggistica delle opere per le quali è stata chiesta la sanatoria, questa Sezione ha affermato che, qualora non sia rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione statale «continua a sussistere … ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale» (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4656 del 18 settembre 2013). La perentorietà del termine riguarda, infatti, «non la sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze)». Quindi, «nel caso di superamento del medesimo termine (e così come avviene nel caso di superamento del termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato dall’art. 146, comma 5, il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo» (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4656 del 18 settembre 2013 cit.). La giurisprudenza più recente di questa Sezione, nell’esaminare la disposizione dettata dall’art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica nel procedimento ordinario, ha poi anche sostenuto che, decorso il termine assegnato, l’organo statale conserva la possibilità di rendere il parere ma il parere espresso tardivamente perde il suo valore vincolante e deve essere quindi autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2136 del 27 aprile 2015). In conseguenza il superamento del sopra richiamato termine di novanta giorni: - consente all’interessato di proporre il ricorso previsto dall’art. 117 del codice del processo amministrativo avverso il silenzio dell’amministrazione; - non rende illegittimo il parere tardivo; - comporta che comunque il provvedimento conclusivo del procedimento deve far riferimento motivato al parere emesso dall’organo statale sia pure dopo il superamento del termine fissato dal richiamato art. 167, comma 5, del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

 
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Pianificazione urbanistica: il Comune può introdurre prescrizioni urbanistiche anche ai fini di protezione paesaggistico o ambientale di determinate aree, indipendentemente dalle specifiche normative di settore

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Per consolidato orientamento giurisprudenziale, al Comune è consentito introdurre prescrizioni urbanistiche anche ai fini di protezione paesaggistico o ambientale di determinate aree del proprio territorio, indipendentemente dalle specifiche normative di settore. Anche di recente il Consiglio di Stato ha, in proposito, affermato che il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio, in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma è funzionalmente rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di altri interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti, come quello alla tutela dell'ambiente (Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 839 del 19 febbraio 2015). Per approfondire scarica la sentenza.

 
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Approvazione di strumenti urbanistici: il conflitto d'interesse ed il dovere d'astensione dei consiglieri comunali

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Nella controversia in esame viene denunciato il conflitto d’interesse inveratosi in capo agli amministratori posto che alcuni consiglieri hanno partecipato alla discussione e votazione della delibera di approvazione della variante al PUC pur essendo, i medesimi, proprietari di terreni siti in zonaagricola. La censura non merita positivo apprezzamento. Ai fini della sussistenza dell’obbligo di astensione di cui all’art.78 comma 2 del dlgs n. 267/2000 occorre vi sia una correlazione immediata e diretta tra il contenuto della delibera che sia va a discutere e votare e specifici interessi propri dei partecipanti alla seduta ( Cons Stato Sez. IV 21/6/ 2007n.3385; idem 25/9/2014 n. 4806 ), ma nella specie parte appellante non dà adeguata contezza e nemmeno mezzi di prova in ordine al concreto vantaggio che la delibera avrebbe comportato in favore dei soggetti che si sarebbero dovuto astenere ( Cons. Stato Sez. IV 26/172012 n. 351)., non essendo sufficiente la generica circostanza relativa alla semplice condizione che alcuni consiglieri siano proprietari di fondi. Ora la necessità di una più stringente situazione di concreta conflittualità si rende indispensabile allorchè come nel caso del genere si va ad approvare strumenti urbanistici disciplinanti la pianificazione di centri piccoli, dove la possibilità di essere proprietari di suoli interessati dalle previsioni dell’approvando strumento è particolarmente alta. Inoltre avuto riguardo alla natura e contenuto delle previsioni di tipo restrittivo introdotte appare ragionevole escludere che siano potuti derivare dalla prescrizioni de quibus margini di oggettivo vantaggio per i consiglieri proprietari di terreni.

 
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Edilizia: la semplice pendenza del procedimento di rilascio del permesso di costruire non basta a fondare un’aspettativa qualificata

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La semplice pendenza del procedimento di rilascio della concessione edilizia non è circostanza idonea a fondare un’aspettativa qualificata, posto che l’eventuale contrasto dell’intervento oggetto della domanda di permesso di costruire (e prima di concessione edilizia) con lo strumento urbanistico adottato determina ex lege l’obbligo di sospendere ogni determinazione per periodo non eccedente tre anni dall’adozione del piano o cinque anni se trasmesso entro un anno ai fini dell’approvazione da parte dell’amministrazione competente, onde evitare che gli obiettivi perseguiti dal nuovo disegno programmatorio restino pregiudicati (cfr. tra le tante Cons. Stato, Sez. IV,9 ottobre 2012, n. 5257). E’ noto, invece, che una aspettativa di tal genere, tale da restringere l’ampia discrezionalità relativa alla programmazione urbanistica e l’assunzione di scelte diverse quanto alla qualificazione e tipizzazione delle zone e/o alla loro suscettività edificatoria, e da imporre quindi una specifica motivazione, può ricollegarsi solo all’esistenza di un piano attuativo approvato e convenzionato, ad un permesso di costruire già rilasciato, ad un giudicato favorevole di annullamento di diniego del titolo edilizio o dichiarativo dell’obbligo del suo rilascio, perché in generale le osservazioni presentate dai privati in sede di pianificazione urbanistica rappresentano semplici apporti collaborativi (secondo giurisprudenza più che consolidata: cfr. tra le tante Cons. Stato, Sez. VI, 4 novembre 2013, n. 5292 e le più risalenti Sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1477 e 3 novembre 2008, n. 5478). Né nella richiesta di integrazioni documentali logiche e pertinenti, e nei correlati tempi della loro acquisizione può cogliersi evidenza del denunciato intento sviato di ricondurre la domanda sotto l’imperio del regime di salvaguardia.

 
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Pianificazione generale del territorio comunale: la discrezionalità, la motivazione e l'affidamento

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Per costante principio (Consiglio di Stato, sez. IV, 25/06/2013, n. 3476) In sede di pianificazione generale del territorio la discrezionalità, di cui l'Amministrazione dispone per quanto riguarda le scelte in ordine alle destinazioni dei suoli, è talmente ampia da non richiedere una particolare motivazione al di là di quella ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano il piano regolatore generale, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di specifiche situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo. Lo specifico affidamento è stato ravvisato in varie fattispecie (e certamente non nel caso di "semplice" precedente diversa destinazione) quali ad esempio al ricorrere convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, ovvero in presenza di aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (ex aliis. Consiglio di Stato, sez. IV, 14/05/2015, n. 2453).

 
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Appalto integrato: è legittima un’esclusione disposta per mancanza di documenti indicati dalla lex specialis di gara

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In via generale è da ritenersi legittima un’esclusione disposta per mancanza di documenti indicati dalla lex specialis di gara, da produrre obbligatoriamente a pena di esclusione, trattandosi di documenti espressione di specifiche prescrizioni poste dalla legge (o, come nel caso di specie, dal Regolamento sui contratti pubblici ex d.P.R. n. 2017-2010), ciò integrando la fattispecie del "mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti" (cfr. anche Consiglio di Stato, Ad, Plen,, 25 febbraio 2014, n. 9), non rimediabile con la regolarizzazione documentale postuma ex art. 46 del Codice dei contratti pubblici (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 22 ottobre 2015, n. 4869). Tale principio è ancora più rilevante nelle ipotesi, come quelle in esame, in cui viene in rilievo un cd. appalto integrato ex art. 53, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 163 del 2006, nel quale il progetto definitivo rappresenta una parte integrante e sostanziale della domanda di partecipazione del concorrente. Per approfondire scarica la sentenza.

 
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Servizi pubblici locali: la motivazione in caso di affidamento diretto in house

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La Corte Costituzionale con la sentenza 20 luglio 2012, n. 199 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4 d.l. n. 138 del 2011, convertito con modificazioni dalla l. n. 148 del 2011 (nel testo conseguente alle ulteriori modifiche apportate dall'art. 9, comma 2, lett. n), L. 12 novembre 2011, n. 138, dall'art. 25 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con modificazioni dalla L. 24 marzo 2012, n. 27, nonché dall'art. 53, comma 1, lett. h), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83), adottato successivamente all'abrogazione, a seguito di referendum popolare, dell'art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, convertito con modificazioni dalla l. n. 133 del 2008. Sulla scorta di tale pronuncia la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che i servizi pubblici locali di rilevanza economica possono in definitiva essere gestiti indifferentemente mediante il mercato (ossia individuando all'esito di una gara ad evidenza pubblica il soggetto affidatario) ovvero attraverso il c.d. partenariato pubblico - privato (ossia per mezzo di una società mista e quindi con una gara a doppio oggetto per la scelta del socio o poi per la gestione del servizio), ovvero attraverso l'affidamento diretto, in house, senza previa gara, ad un soggetto che solo formalmente è diverso dall'ente, ma che ne costituisce sostanzialmente un diretto strumento operativo, ricorrendo in capo a quest'ultimo i requisiti della totale partecipazione pubblica, del controllo (sulla società affidataria) analogo (a quello che l'ente affidante esercita sui propri servizi) e della realizzazione, da parte della società affidataria, della parte più importante della sua attività con l'ente o gli enti che la controllano. L'affidamento diretto, in house - lungi dal configurarsi, alla stato attuale delle normativa, come un'ipotesi eccezionale e residuale di gestione dei servizi pubblici locale - costituisce invece una delle (tre) normali forme organizzative delle stesse, con la conseguenza che la decisione di un ente in ordine alla concreta gestione dei servizi pubblici locali, ivi compresa quella di avvalersi dell'affidamento diretto, in house, costituisce frutto di una scelta ampiamente discrezionale (Consiglio di Stato, sez. V, 30 settembre 2013, n. 4832; sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 762, sez. V, 10 settembre 2014, n. 4599). Tale scelta discrezionale, come tale, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non sia manifestamente inficiata da illogicità, irragionevolezza, irrazionalità ed arbitrarietà ovvero non sia fondata su di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti; tuttavia, proprio in ossequio ai principi di trasparenza e democraticità dei processi decisionali pubblici (sanciti dalla norma cardine dell’art. 3 della l. n. 241 del 1990) si impone che detta scelta debba essere adeguatamente motivata circa le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano. Tanto più nella specie in cui l’art. 34, comma 20, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. in L. 17 dicembre 2012, n. 221, a ribadire e specificare il principio summenzionato di trasparenza e democraticità delle decisioni pubbliche, impone un dettagliato e più aggravato onere motivazionale, subordinando la legittimità della scelta della concreta modalità di gestione dei servizi pubblici locali proprio alla redazione di un'apposita relazione che dia conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma dell'affidamento prescelta e che definisca i contenuti specifici degli obblighi del servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste. Nel caso di specie tale dettagliata e specifica motivazione non sussiste, né essa può desumersi (in applicazione dell’art. 3 l. n. 241-1990) da altri atti pur depositati in giudizio, dovendo pertanto convenirsi sulla fondatezza della censura relativa alla carenza o insufficiente o adeguata l’istruttoria, di cui deve ragionevolmente dubitarsi che sia stata compiuta in modo completo ed approfondito e che conseguentemente siano state effettivamente valutate tutte le possibili forme di gestione in astratto, che siano stati soppesati in specifico i pro e i contro; non risulta in definitiva che sia stato dato conto che la scelta sia ricaduta sulla gestione in house sulla base di specifiche e distinte indicazioni di elementi concreti e riscontrabili o di valutazioni di interesse pubblico consistenti e pregnanti. Al riguardo deve sottolinearsi che la relazione ex art. 34, comma 20, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, che pure c’è, in realtà non contiene alcuna valutazione di tipo concreto, riscontrabile, controllabile, intellegibile e pregnante sui profili della convenienza, anche non solo economica, della gestione prescelta, limitandosi per contro ad apodittici riferimenti alla gestione in house che, come tali, sono da ritenersi privi di quel livello di concreta pregnanza richiesto per soddisfare l’onere di motivazione aggravato e di istruttoria ai sensi del combinato disposto degli art. 3 l. n. 241 del 1990 e 34, comma 20, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179. Pertanto, un affidamento diretto siffatto è da ritenersi di per sé illegittimo, come ha ben rilevato il TAR, a prescindere, come detto, dalle questioni controverse circa la natura giuridica del soggetto affidatario.

 
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Stazioni appaltanti: la posizione del del Consiglio di Stato sull'introduzione tra i criteri di valutazione delle offerte di elementi attinenti alla capacità tecnica dell’impresa, come le certificazioni di qualità aziendale

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La Quinta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 12.5.2016 n. 1890 ha, tra l'altro, richiamato il precedente della Sezione costituito dalla sentenza 20 agosto 2013 n. 4191, secondo il quale i principi di massima concorrenzialità e par condicio vigenti in materia di appalti pubblici impediscono in linea di principio alle stazioni appaltanti di introdurre tra i criteri di valutazione delle offerte elementi attinenti alla capacità tecnica dell’impresa, come appunto le certificazioni di qualità aziendale (cfr. inoltre: Cons. Stato, III, 18 giugno 2012, n. 3550; V, 3 ottobre 2012, n. 5197; VI, 4 ottobre 2011, n. 5434). A questo principio occorre dare continuità nella presente fattispecie controversia, pur nella consapevolezza di alcune aperture giurisprudenziali volte ad introdurvi deroghe, ogniqualvolta attraverso questa commistione l’amministrazione abbia inteso valorizzare ai fini della valutazione delle offerta non già i requisiti soggettivi in sé intesi bensì quei profili soggettivi diretti a riflettersi in modo specifico sullo svolgimento dell’appalto (cfr. Cons. Stato, III, 21 dicembre 2011, n. 6777; V, 23 gennaio 2012, n. 266, 28 agosto 2009 n. 5105).... le aperture giurisprudenziali nel senso di ammettere deroghe al divieto di commistione in esame hanno nondimeno posto in rilievo la necessità che il punteggio attribuibile alle offerte per elementi di carattere soggettivo non incida in maniera rilevante su quello complessivo. Per approfondire scarica il testo integrale della sentenza.

 
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Appalti: l'onere di immediata impugnazione del bando o del disciplinare di gara

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Secondo l’incontrastata giurisprudenza del Consiglio di Stato (ex multis: Cons. Stato, Ad. plen. 29 gennaio 2003, n. 1, III, 14 maggio 2015, n. 2413, 2 febbraio 2015, n. 491; V, 20 novembre 2015, n. 5296, 16 novembre 2015, n. 5218, 1 agosto 2015, n. 3776, 21 luglio 2015, n. 3611, 18 giugno 2015, n.3104, 3 giugno 2015, n. 2713; VI, 8 febbraio 2016, n. 510) l’onere di immediata impugnazione del bando o del disciplinare di gara sussiste solo in caso di clausole escludenti, tra cui quelle che impediscono la partecipazione alla gara. Altrettanto non può sostenersi per le previsioni di lex specialis che invece disciplinano la fase di valutazione delle offerte. La lesività di queste ultime si manifesta infatti solo per effetto della successiva applicazione da parte della commissione di gara, per cui nessun onere di immediata impugnativa è configurabile prima di questo momento, sia che per effetto di tali clausole l’aggiudicazione sia disposta in favore di altri, sia che - come avvenuto nel caso di specie - in ragione delle medesime una concorrente non raggiunga la soglia di sbarramento per la successiva valutazione delle offerte.

 
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Secondo l’incontrastata giurisprudenza del Consiglio di Stato (ex multis: Cons. Stato, Ad. plen. 29 gennaio 2003, n. 1, III, 14 maggio 2015, n. 2413, 2 febbraio 2015, n. 491; V, 20 novembre 2015, n. 5296, 16 novembre 2015, n. 5218, 1 agosto 2015, n. 3776, 21 luglio 2015, n. 3611, 18 giugno 2015, n. ... Continua a leggere

 

Appalti: per la dimostrazione del requisito del fatturato per servizi analoghi sono utili anche le precedenti esperienze analoghe a quelle oggetto dell’appalto se collegate alla stregua di un ragionevole criterio di analogia o di inerenza

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Nella controversia in esame il Consiglio di Stato ha respinto la doglianza vòlta alla esclusione dalla gara della seconda graduata sul presupposto del mancato possesso da parte della stessa del requisito del fatturato per servizii analoghi nell’ultimo triennio. Afferma il Collegio che ai fini della dimostrazione del possesso del requisito (di ordine economico-finanziario e di carattere tecnico-professionale) di cui si tratta, in applicazione del principio del favor partecipationis, devono considerarsi certamente utili anche le precedenti esperienze analoghe a quelle oggetto dell’appalto, ove ad esse collegate alla stregua di un ragionevole criterio di analogia o di inerenza ( cfr. Cons. St., V, 5 settembre 2014, n. 4529 e 23 marzo 2015, n. 1568 ).

 
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Nella controversia in esame il Consiglio di Stato ha respinto la doglianza vòlta alla esclusione dalla gara della seconda graduata sul presupposto del mancato possesso da parte della stessa del requisito del fatturato per servizii analoghi nell’ultimo triennio. Afferma il Collegio che ai fini dell ... Continua a leggere

 

Interdittiva antimafia: è legittima l'estensione alla società della interdittiva motivata dalla posizione del suo amministratore unico presso altra società

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Non può considerarsi illegittima la estensione alla società della interdittiva motivata dalla posizione del suo amministratore unico presso altra società. Non è evidentemente irrilevante per le finalità che la interdittiva si propone nei confronti di società operanti sul mercato la personalità di chi viene preposto come amministratore unico alla operatività della società stessa. La sussistenza di un procedimento penale per fatti implicanti comportamenti atti a rivelare infiltrazioni mafiose nei confronti della persona investita delle funzioni di amministratore è per giurisprudenza costante indizio più che sufficiente a giustificare l’interdittiva. In associazione a tale elemento, ma anche a prescindere da esso, risultano comunque rilevanti e significativi fatti, ancorché risalenti, da cui può dedursi la propensione della stessa persona a comportamenti di indole criminale e intimidatoria tipicamente mafiosi anche nei rapporti familiari. Per approfondire scarica il testo integrale della sentenza.

 
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Informativa antimafia: excursus della normativa e casi pratici nella sentenza del Consiglio di Stato

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L’informativa antimafia, ai sensi degli art. 84, comma 4, e 91, comma 6, del d. lgs. 159/2011, presuppone «concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata». Per quanto riguarda la ratiodell’istituto della interdittiva antimafia, va premesso che si tratta di una misura volta – ad un tempo - alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica Amministrazione: nella sostanza, l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione – meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti «affidabile») e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge. Il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al d. lgs. n. 159 del 2011 – come già avevano disposto l’art. 4 del d.lg. 8 agosto 1994, n. 490, e il d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 – ha tipizzato un istituto mediante il quale, con un provvedimento costitutivo, si constata una obiettiva ragione di insussistenza della perdurante «fiducia sulla affidabilità e sulla moralità dell’imprenditore», che deve costantemente esservi nei rapporti contrattuali di cui sia parte una amministrazione (e di per sé rilevante per ogni contratto d’appalto, ai sensi dell’art. 1674 c.c.) ovvero comunque deve sussistere, affinché l’imprenditore risulti meritevole di conseguire un titolo abilitativo, ovvero di conservarne gli effetti. Nell’attribuire il relativo potere ad un organo periferico del Ministero dell’Interno e nel prevedere il dovere di tutte le altre Amministrazioni di emanare i relativi atti consequenziali, il legislatore ha tenuto conto sia delle competenze generali delle Prefetture in ordine alla gestione dell’ordine pubblico ed al coordinamento delle Forze dell’ordine, sia dell’esigenza che non sia ciascuna singola Amministrazione – di per sé non avente i necessari mezzi ed esperienze – a porre in essere le relative complesse attività istruttorie e ad emanare singoli provvedimenti ad hoc sulla perdurante sussistenza o meno del «rapporto di fiducia». Un singolo provvedimento ad hoc – avente per oggetto un solo «rapporto» – rischierebbe, infatti, anche di porsi in contrasto con provvedimenti di altre Amministrazioni che intrattengano rapporti con il medesimo imprenditore. Osserva il Collegio che – sia in sede amministrativa che in sede giurisdizionale – rileva il complesso degli elementi concreti emersi nel corso del procedimento: una visione ‘parcellizzata’ di un singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame sistematico con gli altri. Quanto alla motivazione della informativa, essa: a) deve «scendere nel concreto», e cioè indicare gli elementi di fatto posti a base delle relative valutazioni; b) deve indicare le ragioni in base alle quali gli elementi emersi nel corso del procedimento siano tali da indurre a concludere in ordine alla sussistenza dei relativi presupposti e, dunque, in ordine alla «perdita di fiducia», nel senso sopra chiarito dell’affidabilità, che le Istituzioni nutrono nei confronti dell’imprenditore. Qualora i fatti valutati risultino chiari ed evidenti o quanto meno altamente plausibili (ad es. perché risultanti da articolati provvedimenti dell’Autorità giudiziaria o da relazioni ben fatte nel corso del procedimento), il provvedimento prefettizio – che in tali casi assume quasi un carattere vincolato, nell’ottica del legislatore – si può anche limitare a rimarcare la loro sussistenza, provvedendo di conseguenza. Ove invece i fatti emersi nel corso del procedimento risultino in qualche modo marcatamente opinabili, e si debbano effettuare collegamenti e valutazioni, il provvedimento prefettizio deve motivatamente specificare quali elementi ritenga rilevanti e come essi si leghino tra loro. In altri termini, se gli atti richiamati nel provvedimento prefettizio – emessi da organi giudiziari o amministrativi – già contengono specifiche valutazioni degli elementi emersi, il provvedimento prefettizio si può intendere sufficientemente motivato per relationem, anche se fa ad essi riferimento. Viceversa, se gli atti richiamati contengono una sommatoria di elementi eterogenei non ancora unitariamente considerati (ad es., perché si sono susseguite relazioni delle Forze dell’ordine indicanti meri dati di fatto), spetta al provvedimento prefettizio valutare tali elementi eterogenei. In materia, non rilevano formalismi linguistici, non occorrendo l’utilizzo di una terminologia tecnico-giuridica nelle relazioni redatte dalle Forze dell’ordine, chiamate al delicato compito di controllo del territorio. È condizione necessaria e sufficiente, invece, l’effettiva sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e basta una ragionevole valutazione – pur priva di formule sacramentali – del contenuto obiettivo delle risultanze acquisite, che può anche evidenziare, se del caso, la condivisione delle conclusioni già in precedenza esplicitate nel corso del procedimento. Quand’anche il provvedimento prefettizio contenga una motivazione poco curata e scarna (che, cioè, si sia limitata ad elencare o a richiamare le risultanze procedimentali, senza alcuna rielaborazione concettuale), profili di eccesso di potere possono risultare effettivamente sussistenti solo se, a loro volta, anche gli atti del procedimento non siano congruenti e siano carenti di effettivi contenuti, frettolosi o immotivati e, sostanzialmente, non sindacabili nemmeno nel loro valore indiziario. Profili di inadeguatezza della valutazione vanno esclusi se – mediante una tale motivazione per relationem – negli atti risultino richiamate, in altri termini, le effettive ragioni sostanziali poste a base del provvedimento prefettizio. Al contrario, se gli atti del procedimento risultino poco perspicui o, addirittura, imperscrutabili (e, cioè, consistano in un mero elenco di elementi eterogenei e non evidenzino una ragionata valutazione del loro significato indiziario), il provvedimento prefettizio deve desumere dagli atti istruttori quegli elementi che giustifichino la misura adottata. In ogni caso, l’impianto motivazionale dell’informativa (ex se o col richiamo agli atti istruttori) deve fondarsi su una rappresentazione complessiva, imputabile all’autorità prefettizia, degli elementi di permeabilità criminale che possano influire anche indirettamente sull’attività dell’impresa, la quale si viene a trovare in una condizione di potenziale asservimento – o comunque di condizionamento - rispetto alle iniziative della criminalità organizzata di stampo mafioso (ovvero «comunque localmente denominata»). Il quadro indiziario dell’infiltrazione mafiosa posto a base dell’informativa deve dar conto in modo organico e coerente, ancorché sintetico, di quei fatti aventi le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, dai quali, sulla base della regola causale del «più probabile che non» (Cons. St., sez. III, 7 ottobre 2015, n. 4657; Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2011, n. 15709), il giudice amministrativo, chiamato a verificare l’effettivo pericolo di infiltrazione mafiosa, possa pervenire in via presuntiva alla conclusione ragionevole che tale rischio sussista, valutatene e contestualizzatene tutte le circostanze di tempo, di luogo e di persona. È estranea al sistema delle informative antimafia, non trattandosi di provvedimenti nemmeno latamente sanzionatori, qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (né – tanto meno – occorre l’accertamento di responsabilità penali, quali il «concorso esterno» o la commissione di reati aggravati ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203 del 1991), poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell’informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante. Occorre invece valutare il rischio di inquinamento mafioso in base all’ormai consolidato criterio del più «probabile che non», alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso. Per questo gli elementi posti a base dell’informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione. I fatti che l’autorità prefettizia deve valorizzare prescindono, infatti, dall’atteggiamento antigiuridico della volontà mostrato dai singoli e finanche da condotte penalmente rilevanti, non necessarie per la sua emissione, come meglio si dirà, ma sono rilevanti nel loro valore oggettivo, storico, sintomatico, perché rivelatori del condizionamento che la mafia, in molteplici, cangianti e sempre nuovi modi, può esercitare sull’impresa anche al di là e persino contro la volontà del singolo. Anche soggetti semplicemente conniventi con la mafia (dovendosi intendere con tale termine ogni similare organizzazione criminale «comunque localmente denominata»), per quanto non concorrenti, nemmeno esterni, con siffatta forma di criminalità, e persino imprenditori soggiogati dalla sua forza intimidatoria e vittime di estorsioni sono passibili di informativa antimafia. Infatti, la mafia, per condurre le sue lucrose attività economiche nel mondo delle pubbliche commesse, non si vale solo di soggetti organici o affiliati ad essa, ma anche e sempre più spesso di soggetti compiacenti, cooperanti, collaboranti, nelle più varie forme e qualifiche societarie, sia attivamente, per interesse, economico, politico o amministrativo, che passivamente, per omertà o, non ultimo, per il timore della sopravvivenza propria e della propria impresa. Le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa, tipizzate dal legislatore, comprendono dunque una serie di elementi del più vario genere e, spesso, anche di segno opposto, frutto e cristallizzazione normativa di una lunga e vasta esperienza in questa materia, situazioni che spaziano dalla condanna, anche non definitiva, per taluni delitti da considerare sicuri indicatori della presenzao mafiosa (art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011), alla mancata denuncia di delitti di concussione e di estorsione, da parte dell’imprenditore, dalle condanne per reati strumentali alle organizzazioni criminali (art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011), alla sussistenza di vicende organizzative, gestionali o anche solo operative che, per le loro modalità, evidenzino l’intento elusivo della legislazione antimafia. Esistono poi, come insegna l’esperienza applicativa della legislazione in materia e la vasta giurisprudenza formatasi sul punto nel corso di oltre venti anni, numerose altre situazioni, non tipizzate dal legislatore, che sono altrettante ‘spie’ dell’infiltrazione (nella duplice forma del condizionamento o del favoreggiamento dell’impresa). Gli elementi di inquinamento mafioso, ben lungi dal costituire un numerus clausus, assumono forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano sociale, del fenomeno mafioso, ad un preciso inquadramento. Quello voluto dal legislatore, ben consapevole di questo, è dunque un catalogo aperto di situazioni sintomatiche del condizionamento mafioso. L’autorità prefettizia deve valutare perciò il rischio che l’attività di impresa possa essere oggetto di infiltrazione mafiosa, in modo concreto ed attuale, sulla base dei seguenti elementi: a) i provvedimenti ‘sfavorevoli’ del giudice penale; b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione; c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011; d) i rapporti di parentela; e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa; g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa; h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi ‘benefici’; i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità. Passando ad un più dettagliato esame di tali elementi, osserva il Collegio che innanzitutto rilevano i provvedimenti del giudice penale che dispongano una misura cautelare o il giudizio o che rechino una condanna, anche non definitiva, di titolari, soci, amministratori, di fatto e di diritto, direttori generali dell’impresa, per uno dei delitti-spia previsti dall’art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011. Tra questi delitti (rilevanti pur se ‘risalenti nel tempo’), un particolare rilievo hanno quelli di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.), turbata libertà di scelta del contraente (art. 353-bis c.p.), estorsione (art. 629 c.p.), truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bisc.p.), usura (art. 644 c.p.), riciclaggio (art. 648-bis c.p.) o impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648-ter c.p.), e quelli indicati dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., cioè, tra gli altri, i delitti di associazione semplice (art. 416 c.p.) o di associazione di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) o tutti i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. o per agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché l’art. 12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992, convertito con modificazioni dalla l. n. 356 del 1992. Rilevano anche tutti i provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali, di cui all’art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011. Le sentenze di proscioglimento o di assoluzione hanno una specifica rilevanza, ove dalla loro motivazione si desuma che titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa, pur essendo andati esenti da condanna, abbiano comunque subìto, ancorché incolpevolmente, un condizionamento mafioso che pregiudichi le libere logiche imprenditoriali. Può rilevare, più in generale, qualsivoglia provvedimento del giudice civile, penale, amministrativo, contabile o tributario, quale che sia il suo contenuto decisorio, dalla cui motivazione emergano elementi di condizionamento, in qualsiasi forma, delle associazioni malavitose sull’attività dell’impresa o, per converso, l’agevolazione, l’aiuto, il supporto, anche solo logistico, che questa abbia fornito, pur indirettamente, agli interessi e agli affari di tali associazioni. Rileva anche la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011, siano esse di natura personale o patrimoniale, nei confronti di titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e dei loro parenti, proprio in coerenza con la logica preventiva e anticipatoria che sta a fondamento delle misure in esame. Quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose, l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità, o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del «più probabile che non», che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare(di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto. Ai rapporti di parentela l’Autorità amministrativa, in presenza di altri elementi univoci e sintomatici, può anche assimilare quei «rapporti di comparaggio», derivanti da consuetudini di vita. Infatti, specialmente nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una «influenza reciproca» di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza. Una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione. Sotto tale profilo, hanno rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito). In materia, possono risultare utili anche i principi formulati da questo Consiglio, in materia di revoca delle licenze di polizia, quando abbiano ad oggetto armi e munizioni, e cioè in una materia in cui similmente si pongono – sia pure sotto distinti profili – aspetti di protezione dell’ordine pubblico. Infatti, l’Autorità di polizia può ragionevolmente disporre la revoca quando il titolare della licenza sia un congiunto di un appartenente alla criminalità organizzata e sia con questi convivente: si può senz’altro ritenere sussistente un pericolo di abuso, quando un’arma sia custodita nella stessa abitazione di un appartenente alla criminalità organizzata, non solo perché è concretamente ipotizzabile che vi sia la possibilità di utilizzare l’arma senza il consenso del titolare della licenza, ma anche perché il legame familiare e la convivenza comportano reciproci condizionamenti. Similmente, il provvedimento del Prefetto può ritenere sussistente il pericolo di condizionamento mafioso, quando l’imprenditore conviva con un congiunto, risultato appartenente ad un sodalizio criminoso. Circa i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia, di titolari, soci, amministratori, dipendenti dell’impresa con soggetti raggiunti da provvedimenti di carattere penale o da misure di prevenzione antimafia, l’Amministrazione può ragionevolmente attribuire loro rilevanza quando essi non siano frutto di casualità o, per converso, di necessità. Se di per sé è irrilevante un episodio isolato ovvero giustificabile, sono invece altamente significativi i ripetuti contatti o le ‘frequentazioni’ di soggetti coinvolti in sodalizi criminali, di coloro che risultino avere precedenti penali o che comunque siano stati presi in considerazione da misure di prevenzione. Tali contatti o frequentazioni (anche per le modalità, i luoghi e gli orari in cui avvengono) possono far presumere, secondo la logica del «più probabile che non», che l’imprenditore – direttamente o anche tramite un proprio intermediario - scelga consapevolmente di porsi in dialogo e in contatto con ambienti mafiosi. Quand’anche ciò non risulti punibile (salva l’adozione delle misure di prevenzione), la consapevolezza dell’imprenditore di frequentare soggetti mafiosi e di porsi su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità (che lo Stato deve invece demarcare e difendere ad ogni costo) deve comportare la reazione dello Stato proprio con l’esclusione dell’imprenditore medesimo dal conseguimento di appalti pubblici e comunque degli altri provvedimenti abilitativi individuati dalla legge. In altri termini, l’imprenditore che – mediante incontri, telefonate o altri mezzi di comunicazione, contatti diretti o indiretti – abbia tali rapporti (e che si espone al rischio di esserne influenzato per quanto riguarda le proprie attività patrimoniali e scelte imprenditoriali) deve essere consapevole della inevitabile perdita di ‘fiducia’ che ne consegue (perdita che il provvedimento prefettizio attesta, mediante l’informativa). Rilevano altresì le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa, sia essa in forma individuale o collettiva, nonché l’abuso della personalità giuridica. Tali vicende e tale abuso non sono altrimenti spiegabili, secondo la logica del «più probabile che non», se non con la permeabilità mafiosa dell’impresa e il malcelato intento di dissimularla, come, ad esempio, nei casi previsti dall’art. 84, comma 4, lett. f), del d. lgs. n. 159 del 2011 e, cioè, le sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società, nonché nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, effettuate da chiunque conviva con soggetti destinatati di provvedimenti di cui alle lettere a) e b) dello stesso art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011, realizzate con modalità che, per i tempi in cui vengono realizzati, il valore economico delle transazioni, il reddito dei soggetti e le qualità dei subentranti, «denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia». Rilevano, più in generale, tutte quelle operazioni fraudolente, modificative o manipolative della struttura dell’impresa, che essa esercitata in forma individuale o societaria: - scissioni, fusioni, affitti di azienda o anche solo di ramo di azienda, acquisti di pacchetti azionari o di quote societarie da parte di soggetti, italiani o esteri, al di sopra di ogni sospetto, spostamenti di sede, legale od operativa, in zone apparentemente ‘franche’ dall’influsso mafioso; - aumenti di capitale sociale finalizzati a garantire il controllo della società sempre da parte degli stessi soggetti, patti parasociali, rimozione o dimissioni di sindaci o controllori sgraditi; - walzer di cariche sociali tra i medesimi soggetti, partecipazioni in altre società colpite da interdittiva antimafia, gestione di diverse società, operanti in settori diversi, ma tutte riconducibili alla medesima governance e spostamenti degli stessi soggetti dalle cariche sociali dell’una o dell’altra, etc. Tali operazioni vanno considerate fraudolente, quando sono eseguite al malcelato fine di nascondere o confondere il reale assetto gestionale e con un abuso delle forme societarie, dietro il cui schermo si vuol celare la realtà effettiva dell’influenza mafiosa, diretta o indiretta, ma pur sempre dominante. Rilevano inoltre le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, riscontrate dal Prefetto anche mediante i poteri di accesso e di accertamento di cui alle lettere d) ed e) dell’art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011, consistenti in fatti che lasciano intravedere, nelle scelte aziendali, nelle dinamiche realizzative delle strategie imprenditoriali, nella stessa fase operativa e nella quotidiana attività di impresa, evidenti segni di influenza mafiosa. Tale casistica è assai varia ed è ben nota alla giurisprudenza di questo Consiglio, potendo avere rilievo, a solo titolo esemplificativo: - le cc.dd. teste di legno poste nelle cariche sociali, le sedi legali con uffici deserti e le sedi operative ubicate presso luoghi dove invece hanno sede uffici di altre imprese colpite da antimafia; - l’inspiegabile presenza sul cantiere di soggetti affiliati alle associazioni mafiose; - il nolo di mezzi esclusivamente da parte di imprese locali gestite dalla mafia; - il subappalto o la tacita esecuzione diretta delle opere da parte di altre imprese, gregarie della mafia o colpite da interdittiva antimafia; - i rapporti commerciali intrattenuti solo con determinate imprese gestite o ‘raccomandate’ dalla mafia; - le irregolarità o le manomissioni contabili determinate dalla necessità di camuffare l’intervento e il tornaconto della mafia nella effettiva esecuzione dell’appalto; - gli stati di avanzamento di lavori ‘gonfiati’ o totalmente mendaci; - l’utilizzo dei beni aziendali a titolo personale, senza alcuna ragione, da parte di soggetti malavitosi; - la promiscuità di forze umane e di mezzi con imprese gestite dai medesimi soggetti riconducibili alla criminalità e già colpite, a loro volta, da interdittiva antimafia; - l’assunzione esclusiva o prevalente, da parte di imprese medio-piccole, di personale avente precedenti penali gravi o comunque contiguo ad associazioni criminali; - i rapporti tra impresa e politici locali collusi con la mafia o addirittura incandidabili, etc. Quanto alla condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi ‘benefici’, la perdita di ‘fiducia’ – giustificativa della interdittiva – si può legittimamente basare anche sulla manifestata disponibilità dell’imprenditore di far parte di un sistema di gestione di un settore, caratterizzato da illegalità, con ‘scambi di favori’ (riferibili, ad es., ad una volontaria mancata partecipazione ad una gara, ‘in cambio’ di successivi vantaggi). Può avere un rilievo decisivo – per escludere la fiducia necessaria perché vi siano i contatti con la pubblica Amministrazione – anche l’inserimento dell’imprenditore in un contesto di illegalità o di abusivismo, reiterato e costante o anche solo episodico, ma particolarmente allarmante, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità, sintomatiche di una sostanziale impunità. In tali casi, il Prefetto può senz’altro desumere ulteriori argomenti per ritenere che l’imprenditore possa contare in loco su ‘coperture’ e connivenze, anche presso gli uffici pubblici, valendosi del clima tipico di una realtà pervasa e soggiogata dall’influenza mafiosa. Può essere sufficiente a giustificare l’emissione dell’informativa anche uno dei sopra indicati elementi indiziari: la valutazione del provvedimento prefettizio si può ragionevolmente basare anche su un solo indizio, che comporti una presunzione, qualora essa sia ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli elementi di giudizio ad essa contrari. Ciò in quanto, come afferma la consolidata giurisprudenza, il ragionamento indiziario può fondarsi anche su un unico elemento presuntivo, purché non contrastato da altro ragionamento presuntivo di segno contrario, con la conseguenza che il requisito della concordanza, previsto dall’art. 2729 c.c., perde il carattere di requisito necessario e finisce per essere elemento eventuale della valutazione presuntiva, destinato ad operare solo laddove ricorra una pluralità di presunzioni (v., ex plurimis, Cass., sez. I, 26.3.2003, n. 4472). Circa la motivazione, come sopra si è osservato in termini generali, per ciascuno o anche uno solo di essi il Prefetto dovrà indicare con precisione, nell’informativa, gli elementi di fatto e motivare, anche mediante il rinvio, per relationem, alle relazioni eseguite dalle Forze di Polizia, le ragioni che lo inducono a ritenere probabile che da uno o più di tali elementi, per la loro attualità, univocità e gravità, sia ragionevole desumere il pericolo concreto di infiltrazione mafiosa nell’impresa: se la valutazione unitaria non traspare dagli atti del procedimento, occorre che essa sia effettuata dal Prefetto, con una motivazione che può anche non essere analitica e diffusa, ma che richiede un calibrato giudizio sintetico su uno o anche più di detti elementi presuntivi, sopra indicati. La valutazione della prova presuntiva, giova qui ricordare, esige che dapprima il Prefetto in sede amministrativa (come poi il giudice amministrativo nell’esercizio dei suoi poteri quale giudice di legittimità) esamini tutti gli indizi di cui disponga, non già considerandoli isolatamente, ma valutandoli complessivamente ed alla luce l’uno dell’altro, senza negare valore ad uno o più di essi sol perché equivoci, così da stabilire se sia comunque possibile ritenere accettabilmente probabile l’esistenza del fatto da provare. Passando all’esame del caso qui controverso, facendo specifica applicazione dei principi sopra enunciati, si deve rimarcare innanzitutto come – per quanto riguarda i «rapporti familiari» di cui al precedente punto d) – la giurisprudenza di questo Consiglio abbia già più volte chiarito che i legami di parentela costituiscono un indice importante per valutare la sussistenza di condizionamenti mafiosi, quando siano connotati da attivi comportamenti di solidarietà e di cointeressenza (Cons. St., sez. III, 19 ottobre 2015, n. 4792).

 
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