News 24 Novembre 2015 - Area Tecnica


GIURISPRUDENZA

Regolamentazione dell'utilizzo degli spazi esterni agli esercizi pubblici: i presupposti che legittimano l'azione del Comune diretta a vietare di occupare con espositori od altro il suolo, anche privato, all’esterno degli esercizi commerciali e artigianali

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Il Comune appellante con la deliberazione oggetto del giudizio ha regolamentato l’utilizzo delle aree, anche private, situate all’esterno degli esercizi commerciali e artigianali di una zona dell’abitato, nella quale si trovano gli esercizi degli appellati, estendendo ad essa la disciplina già vigente in altra zona, situata nelle vicinanze. La suddetta disciplina vieta di occupare con espositori od altro il suolo, anche privato, all'esterno degli esercizi commerciali ed artigianali. L’impugnazione proposta dagli odierni appellati è stata accolta dal primo giudice il quale ha ritenuto il regolamento comunale inficiato dalla mancata precisazione del potere che il Comune ha inteso esercitare nel caso di specie e da difetto di motivazione sulle ragioni di scelta, che incide anche sull’utilizzo della proprietà privata. Il Consiglio di Stato Sez. V con la sentenza del 20.11.2015 n. 5298 ha accolto l'appello proposto dal Comune evidenziando quanto segue. "L’intervento comunale, come già indicato, regolamenta la collocazione di oggetti di arredamento urbano in area centrale e molto frequentata dell’abitato, adiacente ad altra già sottoposta alla stessa regolamentazione. Il Comune ha quindi esercitato un potere ascrivibile congiuntamente alla potestà urbanistica, alla potestà di regolamentazione della viabilità e, soprattutto, alla potestà afferente alla tutela del decoro urbano. Atteso che in ogni caso si tratta di competenze afferenti all’ambito comunale, il Comune non aveva affatto l’obbligo di enunciare espressamente quale (o meglio quali) intendesse esercitare. Un tale obbligo non può infatti essere rinvenuto nelle disposizioni della legge 7 agosto 1990, n. 241, ed inoltre deve essere rilevato come i presupposti dell’azione amministrativa siano, nel caso di specie, agevolmente individuabili. Il provvedimento impugnato esplicita poi con chiarezza i presupposti che hanno ispirato l’azione del Comune. Nelle premesse del provvedimento impugnato si legge infatti che la differenziazione nella disciplina per l’occupazione del suolo pubblico e/o privato all’esterno degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi ed esercizi similari è "giustificata a causa della nuova fisionomia che hanno assunto alcune aree urbane rispetto ad altre a seguito degli interventi di arredo urbano nonché della necessità di garantire la percorribilità dei marciapiedi e degli altri spazi adibiti al passaggio pedonale" precisando inoltre che per quanto riguarda l’area di cui ora si tratta era stato concordato con le associazioni dei commercianti e dei pubblici esercizi di estendere ad essa la disciplina già dettata per l’altra contigua in quanto "tale area, con gli interventi di qualificazione pubblica e privata realizzati negli ultimi anni, oggi presentano caratteri di omogeneità per quel che riguarda le tipologie di offerta e di clientela complessive". Alla luce di tali elementi - afferma il Collegio - che la deliberazione impugnata dà adeguato conto delle scelte ivi consacrate, e che ciò consente di superare la discussione relativa all’assoggettamento di tale atto all’obbligo di motivazione.

 
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Il Comune appellante con la deliberazione oggetto del giudizio ha regolamentato l’utilizzo delle aree, anche private, situate all’esterno degli esercizi commerciali e artigianali di una zona dell’abitato, nella quale si trovano gli esercizi degli appellati, estendendo ad essa la disciplina già vige ... Continua a leggere

 

Ritardato versamento degli oneri di urbanizzazione e costruzione: il Consiglio di Stato interviene sul contrasto giurisprudenziale stabilendo che il Comune è obbligato all'escussione della fideiussione

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La controversia giunta all'attenzione del Consiglio di Stato riguarda l'impugnazione proposta da una Società degli atti con cui il Comune gli aveva ingiunto ex art. 3 l. n. 47/1985 ("Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia. Sanzioni amministrative e penali") il pagamento di sanzioni per ritardato versamento del costo di costruzione e degli oneri di urbanizzazione secondaria relativi ad una serie di costruzioni residenziali realizzate nell’ambito di un piano particolareggiato. La società si doleva in via principale del fatto che l’amministrazione non avesse prevenuto il ritardato versamento escutendo la fideiussione a prima richiesta da essa prestata a garanzia dell’esatto adempimento dei propri obblighi, ed in via subordinata contestava la sanzione con riguardo ad uno dei lotti edificati, affermando di avere pagato gli oneri di urbanizzazione ad esso relativi nel rispetto delle scadenze previste. Con la sentenza in epigrafe il TAR adito respingeva l’impugnativa, statuendo, con riguardo alla censura svolta in via principale, che la garanzia fideiussoria «non si estende anche all’obbligazione sanzionatoria» scaturente dal ritardato pagamento delle sanzioni, poiché la fonte di quest’ultima non è data dal titolo ad edificare, ma dalla distinta ingiunzione conseguentemente emessa dall’amministrazione, e dichiarando generica la doglianza svolta in via subordinata. La Società ha appellato la decisione di primo grado ed il Consiglio di Stato Sez. V nella sentenza del 20.11.2015 n. 5287 ha segnalato alcune pronunce anche recenti poste su posizioni divergenti. L’orientamento prevalente si pone in continuità con l’indirizzo fatto proprio dal TAR ed afferma quindi che l’amministrazione non è obbligata ma solo facoltizzata ad escutere la fideiussione prestata a garanzia del pagamento dei contributi concessori (da ultimo: Sez. IV, 17 febbraio 2014, n. 731, e giurisprudenza ivi richiamata). L’opposto orientamento invocato dalla società appellante a sostegno delle proprie tesi è stato invece riproposto con la sentenza 21 novembre 2014, n. 5734 di questa Sezione, a mente della quale nel caso di ritardato pagamento dei contributi dovuti a fronte del rilascio di un titolo edilizio, l’ente locale creditore è invece tenuto ad escutere la garanzia rilasciata dal privato per il caso di inadempimento, al fine di evitare che quest’ultimo incorra nelle sanzioni previste per il caso in questione dal citato art. 3 l. n. 47/1985, con importi crescenti a seconda dell’entità del ritardo. Come precisato dalla pronuncia ora richiamata, l’obbligo dell’amministrazione di attivarsi in questo senso ha un duplice fondamento normativo. In primo luogo, esso discende dal dovere di origine civilistica di correttezza nell’attuazione del rapporto obbligatorio sancito dall’art. 1175 cod. civ., secondo il quale il creditore ha il dovere di cooperare con il debitore per il puntuale adempimento dell’obbligazione. In secondo luogo, la pronuncia in esame ha affermato che nella medesima direzione si pone anche il principio costituzionale di imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), dal momento che le sanzioni pecuniarie previste dal citato art. 3 l. n. 47/1985 «si giustificano con la necessità, per l'ente locale, di disporre tempestivamente delle somme spettanti, atteso l'interesse pubblico alla celere realizzazione e completamento delle opere di urbanizzazione», e che la garanzia, con i conseguenti maggiori oneri economici che il privato sostiene per il relativo rilascio, viene in questo caso prestata proprio per evitare il ritardato pagamento (così la sentenza 21 novembre 2014, n. 5734, sopra richiamata). Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha ritenuto di dare continuità a quest’ultimo indirizzo. "Ciò segnatamente per la funzione della garanzia, debitamente lumeggiata nel precedente cui si aderisce, di tutela delle ragioni creditorie dell’ente concedente, il quale viene in tal modo preservato dai rischi di inadempimento del privato concessionario, ossia dai rischi che il precetto sanzionatorio mira a prevenire. Pertanto, sebbene sia indiscutibile che la fonte della sanzione è distinta da quella in virtù del quale è dovuto il contributo concessorio - la prima risiedendo direttamente nella legge ed il secondo nel titolo edilizio - è del pari incontroverso che la garanzia prestata per l’adempimento delle obbligazioni pecuniarie discendenti da quest’ultimo pone l’amministrazione anche nelle condizioni se non di impedire quanto meno di limitare le conseguenze legislativamente previste per il caso in cui si verifichi l’evento garantito, e cioè l’applicazione delle sanzioni pecuniarie". Interessante è altresì il passaggio motivazione con il quale il Consiglio di Stato ha rigettato la richiesta dell'appellante che invoca per il caso di rideterminazione delle sanzioni dovute la più favorevole normativa sopravvenuta nel corso del giudizio, e cioè le sanzioni oggi previste nel testo unico dell’edilizia di cui al d.p.r. n. 380/2001, dopo la contestuale abrogazione dell’art. 3 l. n. 47/1985. In virtù di questo assunto, la percentuale di aumento sulle somme dovute da applicare a titolo sanzionatorio dovrebbe essere pari al 10% e non già al 20% [art. 42, comma 2, lett. a) del testo unico]. Sul punto, infatti,mil Collegio evidenzia come in materia di sanzioni amministrative vige in via generale il principio di legalità, in virtù del quale non si può essere sanzionati se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione dell’illecito (art. 1 l. n. 689/1981 - "Modifiche al sistema penale"), ma non già l’ulteriore principio di retroattività delle disposizioni sanzionatorie più favorevoli. Quest’ultimo, espressione del favor rei, è invece circoscritto al solo sistema sanzionatorio penale (art. 2 cod. pen.), nonché, per scelta discrezionale del legislatore, ad alcune tipologie specifiche di illeciti amministrativi, come ad esempio per quelli in materia tributaria (art. 2, comma 3, d.lgs. n. 472/1997 – "Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell'articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662"). Per contro, una regola analoga a quest’ultima non è riscontrabile nel settore edilizio, il cui sistema sanzionatorio è nel suo complesso informato ad esigenze di carattere ripristinatorio più che di afflizione dei responsabili degli illeciti.

 
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Contratti pubblici: Sì del Consiglio di Stato all’impiego di personale volontario da parte delle associazioni di volontariato ammesse alla gara

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La Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 17.11.2015 n. 5249 ha ribadito l’orientamento che ha riconosciuto l’ascrivibilità anche delle associazioni di volontariato, quali soggetti autorizzati dall’ordinamento a prestare servizi e a svolgere, quindi, attività economiche, ancorchè senza scopi di lucro, al novero dei soggetti ai quali possono essere affidati i contratti pubblici (cfr. Cons. St., Sez. III, 16 luglio 2015; n.3685; Sez. VI, 23 gennaio 2013, n.387), escludendo, quindi, il carattere tassativo dell’elenco contenuto nell’art.34 d.lgs. n.163 del 2006. L’ammissione (peraltro, in sé, non contestata dal ricorrente) delle associazioni di volontariato alla gara implica, quale logico corollario, la possibilità di impiegare nel servizio anche personale volontario (altrimenti la clausola partecipativa resterebbe priva di senso), mentre, a ben vedere, la decisione citata dal RTI ricorrente come affermativa di un principio contrario (Cons. St., Sez. V, 16 gennaio 2015, n.84) non risulta, come sembra prospettare l’appellante, impeditiva dell’impiego dei volontari.

 
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Informativa antimafia: l'ultrattiva’ dell’informazione interdittiva ormai scaduta

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Il Consiglio di Stato Sez. III nella sentenza del 17.11.2015 n. 5256 ha affermato di "non ignorare l'esistenza di un orientamento giurisprudenziale secondo cui le norme che stabiliscono che l’’informativa antimafia’ debba avere una validità (e dunque un’efficacia) limitata nel tempo, siano da interpretare nel senso: - che la sola informativa antimafia ‘favorevole’ all’impresa ed al cittadino sottoposto a controllo (id est: l’informativa ‘non interdittiva’ o ‘non pregiudicante’) perde ‘automaticamente’ la propria efficacia allo scadere del termine (rendendosi così necessaria, da tale scadenza, l’acquisizione di una nuova informativa); - mentre l’informativa antimafia ‘sfavorevole’ all’impresa ed al cittadino (id est: quella ‘interdittiva’ o ‘pregiudicante’, che attesta la effettiva sussistenza di pericoli di infiltrazione mafiosa) mantiene la propria efficacia anche oltre il decorso dei termini di validità (e dunque ‘sine die’ o comunque fino all’adozione di un espresso provvedimento riabilitativo o di revisione). Premesso che l’interpretazione in questione può (ed inizia a) suscitare in giurisprudenza qualche perplessità (sia in quanto introduce, in contrasto ad un ben noto canone ermeneutico, elementi ‘di discrimine’ non emergenti dal chiaro ed univoco significato letterale del testo normativo; sia in quanto appare rivolta ad ‘estendere’, in deroga ad un altrettanto ben noto canone ermeneutico - ed in mancanza di idonei strumenti di garanzia - la ‘stretta’ portata di ‘norme emergenziali’ introduttive di ‘potestà ablatorie straordinarie’), risulta assolutamente pacifico ed incontroverso in giurisprudenza che tale interpretazione (‘in malam partem’), e l’applicazione della norma nel senso ad essa conforme, implica - perché si resti nell’ambito della legittimità - che la situazione oggetto dell’originario controllo che ha condotto all’informativa interdittiva sia rimasta comunque del tutto ‘immutata’ (Cfr.: C.S., III^, n.5955/2014; Id., n.292/2014 e n.293/2014; C.S., V^, n.851/2006; Id., n.3126/2007; C.S., VI^, n.7002/2011). Non appare revocabile in dubbio - in altri termini - che la persistenza dell’efficacia dell’informativa ‘ormai scaduta’ (o, ciò che esprime il medesimo concetto, la c.d. ‘ultrattività’ dell’efficacia del provvedimento oltre il termine di scadenza della sua validità), può verificarsi - secondo il ‘sistema’, introdotto dal citato orientamento giurisprudenziale - solamente a condizione che la situazione che ha condotto all’adozione del provvedimento non si sia modificata. Solamente in tale ipotesi, infatti, la ‘ratio’ sottesa all’orientamento giurisprudenziale in questione appare conforme - come sottolineato dalle sentenze richiamate - ai principii generali che ispirano il sistema ordinamentale della prevenzione; sistema volto non già ad introdurre rinnovate fattispecie di ‘colpa d’autore’ (determinanti ‘status’ soggettivi interdittivi a carattere tendenzialmente permanente), ma - più linearmente - a limitare il rischio o il pericolo che si verifichino eventi a rilevanza penale. Dai principii fin qui affermati consegue che prima di ‘spedire’, affinchè possa essere ‘ultrattivamente utilizzata’, una informativa ‘ormai scaduta’ (per decorso del termine di validità), l’Amministrazione prefettizia competente ad emetterla ha almeno l’obbligo di verificare che le condizioni che ne hanno determinato l’originaria emissione non siano modificate e persistano in toto (C.S., III^, nn.292 e 293/2014; C.S., V^, n.851/2006; Id., n.3126/2007). E ciò a maggior ragione se il soggetto interessato abbia chiesto espressamente alla competente Amministrazione - proprio in considerazione dell’avvenuta scadenza del c.d. termine di validità del provvedimento - l’emissione di una nuova informativa, o la revisione di quella ‘ultrattivamente ancora efficace’. E così pure l’Amministrazione che richiede l’informativa - al fine di utilizzarla in conformità alla sua fisiologica funzione (prevenzione contro l’effettivo pericolo di infiltrazione mafiosa) - e che se ne veda recapitare una dal carattere apparentemente ultrattivo (id est: trasmessale come efficace ancorchè ormai scaduta per decorso temporale), ha l’obbligo - prima di farne uso per effetti escludenti definitivi - di aprire un’istruttoria (rectius: di avviare un sub-procedimento istruttorio) sulla questione, con il coinvolgimento del soggetto interessato.

 
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Il vincolo di inedificabilità assoluta gravante sulla fascia di rispetto del cimitero non si applica agli impianti di telefonia mobile

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L’art. 388 comma 1 del R.D. n. 27/7/1934 n. 1265 stabilisce "I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. E’ vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge". Secondo il costante orientamento della giurisprudenza sussiste – in base a detta disposizione – il vincolo di inedificabilità assoluta nella fascia di rispetto del cimitero: il vincolo ex lege può essere rimosso solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quarto comma; ma non per interessi privati, come ad esempio per legittimare ex post realizzazioni edilizie abusive di privati, o comunque interventi edilizi futuri, su un'area a tal fine indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura, salve ulteriori esigenze di mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale (cfr., tra le tante, Cons. Stato sez. VI 27 luglio 2015 n. 3667) E’ stato quindi precisato in giurisprudenza che il vincolo cimiteriale, che comporta l’inedificabilità assoluta, non consente in alcun modo l’allocazione di edifici, anche non aventi natura residenziale, in ragione dei molteplici interessi pubblici che tale fascia di rispetto intende tutelare, e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura e nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale (T.A.R. Puglia, Lecce sez. III 04/07/2015 n. 2245; T.A.R. Sicilia, Palermo Sez. I 3/03/2015 n. 575). Facendo applicazione di detti principi la sentenza appellata ha annullato le autorizzazioni impugnate. Secondo il primo giudice, infatti, il vincolo di inedificabilità assoluta gravante sulla fascia di rispetto del cimitero per espressa previsione normativa, impedisce la realizzazione di qualunque manufatto, anche ad uso diverso da quello abitativo, e trattandosi di vincolo imposto ex lege in via astratta, prescinde da qualunque valutazione in merito alla specifica conformazione della costruzione che si intende realizzare in prossimità del cimitero: sulla base di detti presupposti ha ritenuto che non potesse costruirsi neppure un traliccio di telecomunicazioni – struttura impattante – "non più rispettoso della pietas nei confronti dei defunti di quanto non lo sia una abitazione di residenza". Il Consiglio di Stato Sez. III nella sentenza del 17.11.2015 n. 5257 non ha condiviso le affermazioni del primo giudice. La giurisprudenza più recente ha chiarito che l'art. 338 R.D. cit. vieta l'edificazione, nella fascia di duecento metri dal muro di cinta dei cimiteri, di manufatti che possono essere qualificati come costruzioni edilizie (Cons. Stato Sez. V 14 settembre 2010 n. 6671): ha quindi ritenuto che l'installazione di un impianto di telefonia mobile che - per le proprie caratteristiche - non può in alcun modo essere classificato come un manufatto edilizio non è incompatibile con il vincolo cimiteriale (nella specie si trattava di un'antenna staffata sul muro del cimitero e non di una costruzione edificata sul terreno ricadente nella fascia di rispetto). (Cons. Stato sez. III 25/11/2014 n. 5837). Detta decisione – pur non essendo riferibile ad una fattispecie concreta identica, perché nel caso di specie si controverte sulla realizzazione di una stazione radio base sulla fascia di rispetto cimiteriale e non sulla semplice collocazione dell’antenna sul muro perimetrale del cimitero – nondimeno contiene una precisazione importante: sussiste il vincolo di inedificabilità solo in presenza di "edifici" e cioè solo quando vengono realizzate delle vere e proprie costruzioni. Gli impianti di telefonia mobile non possono essere assimilati alle normali costruzioni edilizie in quanto normalmente non sviluppano volumetria o cubatura, non determinano ingombro visivo paragonabile a quello delle costruzioni, non hanno un impatto sul territorio paragonabile a quello degli edifici in cemento armato o muratura (T.A.R. Puglia Sez. I Lecce 8/4/2015 n. 1120). Il concetto di edificio, come ha correttamente rilevato la difesa delle appellanti, è nettamente caratterizzato sia in architettura che nel diritto urbanistico: un palo di sostegno e le attrezzature installate su di esso non presentano – evidentemente – la stessa natura (cfr. Cons. Stato Sez. VI 17/10/08 n. 5044). Inoltre, come ha correttamente rilevato la giurisprudenza più recente di primo grado, le stazioni radio base, sono opere di urbanizzazione primaria, compatibili con qualsiasi zonizzazione prevista dagli strumenti urbanistici vigenti, e dunque possono essere installate anche in zona di rispetto cimiteriale (cfr. T.A.R. Calabria, Catanzaro Se. I 21/2/2014 n. 311; T.A.R. Campania, Napoli Sez. VII 25/10/2012 n. 4223; T.A.R. Lazio Sez. II Bis 14/5/07 n. 4367), tenuto anche conto che non ledono gli interessi dei quali il vincolo di inedificabilità persegue la tutela. Gli impianti di telefonia mobile, infatti, – assimilabili ai tralicci dell’energia elettrica – non arrecano alcun danno al decoro e alla tranquillità dei defunti; non creano problemi di ordine sanitario e, nel caso di specie, nel quale l’impianto è collocato oltre la strada che costeggia il muro perimetrale del cimitero, non incidono neppure sulla possibilità di ampliamento del cimitero. Correttamente, quindi, la legislazione regionale richiamata dalle appellanti (L.R. Lombardia n. 11/2001 art. 7, regolamento regionale 6/2004 e la circolare regionale 12 marzo 2007 n. 9) partendo dalla qualifica contenuta nell’art. 86 del codice delle comunicazioni elettroniche, secondo cui detti impianti costituiscono opere di urbanizzazione primaria, specificano che è possibile realizzarli nella fascia di rispetto cimiteriale. Non convince la tesi dell’appellato secondo cui anche per la realizzazione di detti impianti sarebbe necessario ricorrere al procedimento previsto dall’art. 388 c. 5 del R.D. 27/7/34 n. 1265, in quanto – come già precisato – non si tratta di "edifici", ma di semplici opere di urbanizzazione primaria riconducibili a tralicci per l’energia elettrica. Infine, la natura di opere di urbanizzazione primaria consente di prescindere dalla zonizzazione recata dal P.R.G., potendo gli impianti di telecomunicazione per la telefonia mobile essere realizzati in qualunque zona del territorio comunale. La giurisprudenza è univoca: "A norma dell’art. 86 c. 3 del D.Lgs. n. 259 del 2003 relativa alla localizzazione di infrastrutture di telecomunicazioni, è possibile prescindere dalla destinazione urbanistica del sito individuato per la loro installazione in quanto le infrastrutture di reti pubbliche di telecomunicazioni, di cui agli art. 87 e 88, sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all’art. 16 comma 7 del D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380. Ne deriva anche alla luce dell’art. 4 comma 7 della L.R. n. 11 del 2001 che gli impianti radiobase di telefonia mobile di potenza totale non superiore a 300 watt non richiedono specifica regolamentazione urbanistica ( cfr., tra le tante, T.A.R. Lombardia Sez. II 2/3/2012 n. 351).

 
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L’art. 388 comma 1 del R.D. n. 27/7/1934 n. 1265 stabilisce "I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. E’ vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale, quale risultante dagli s ... Continua a leggere

 

Installazione di impianti di radiotelefonia: il Consiglio di Stato interviene sui divieti o limitazioni generalizzate contenuti nel Regolamento Comunale

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"Se è vero che dal punto di vista urbanistico i Comuni possono incidere sulla localizzazione degli impianti di telefonia mobile a patto che la regolamentazione non abbia l’effetto di vietare indiscriminatamente l’istallazione degli stessi su tutto il territorio comunale, tenendo anche conto della minimizzazione dell’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici, è altrettanto vero che i Comuni non possono introdurre nei piani regolatori e negli altri strumenti pianificatori –regolamento comunale per gli impianti – divieti o limitazioni generalizzate o, comunque, estese ad intere zone comunali con l’effetto di non assicurare i livelli essenziali delle prestazioni che l’Amministrazione è tenuta a garantire su tutto il territorio nazionale". È questo il principio sancito dalla Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza n. 5260 del 17 novembre 2015 nella quale il Supremo Consesso ha evidenziato come tale affermazione derivi sia dell’art. 117, secondo comma, della Costituzione che riserva nelle materie di legislazione concorrente, la potestà legislativa alle Regioni, salva la determinazione dei principi fondamentali, spettante alla legislazione dello Stato, sia delle normative statali, medio tempore introdotte dal legislatore - L.n. 36/2001 e D.lgs. n. 259/2003 sulla disciplina delle comunicazioni elettroniche. Nella specie, inoltre, precisa il Collegio "non appare violato, come deduce il Comune,l’art. 8 dellaL. n. 36/2001, in quanto l’impugnato regolamento aveva previsto l’esclusione di ogni impianto per le classi "0" e "1" e cioè per tutte le zone, rispettivamente: del centro storico ad elevata densità edilizia ed abitativa, aree residenziali e di completamento, aree destinate ad attrezzature e servizi d’interesse generale ed insediamenti produttivi ed inoltre aree destinate ad uso prevalentemente residenziale caratterizzate da significativa densità edilizia ed abitativa. Ora dal contenuto della predetta elencazione emerge in modo fin troppo evidente, oltre la genericità della descrizione dei siti esclusi, anche una generalizzazione degli stessi, con riferimento alla loro effettiva estensione, tali, come afferma la decisione del Tar, da rendere del tutto incerti ed immotivati i criteri di localizzazione degli impianti, circoscritti e si potrebbe dire "confinati" ad aree destinate ad insediamenti produttivi e terziari".

 
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"Se è vero che dal punto di vista urbanistico i Comuni possono incidere sulla localizzazione degli impianti di telefonia mobile a patto che la regolamentazione non abbia l’effetto di vietare indiscriminatamente l’istallazione degli stessi su tutto il territorio comunale, tenendo anche conto della m ... Continua a leggere

 

L'impugnazione dei titoli edilizi: il Consiglio di Stato fa il punto sulla nozione di vicinitas ed in particolare per gli esercenti che contestano l'autorizzazione di una struttura commerciale

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La Quarta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 19.11.2015 n. 5278 ha osservato, in coerenza con la costante giurisprudenza (cfr. da ultimo e per tutte Ad. Plen. 25.02.2014 n. 9), come l'azione di annullamento davanti al giudice amministrativo sia soggetta a tre condizioni fondamentali:il c.d. titolo o possibilità giuridica dell'azione (cioè la posizione giuridica configurabile in astratto da una norma come di interesse legittimo, ovvero come altri dice la legittimazione a ricorrere discendente dalla speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo rispetto all'esercizio del potere amministrativo); l'interesse ad agire (ex art. 100 c.p.c. ); la legitimatio ad causam (o legittimazione attiva, discendente dall'affermazione di colui che agisce in giudizio di essere titolare del rapporto controverso dal lato attivo). Tutte le condizioni dell'azione giudiziale anzidette, quindi, devono necessariamente sussistere anche nel caso di impugnativa di titoli edilizi. Infatti, è ormai ius receptum come l'art. 10 della legge n. 765 del 1967 (che ha novellato in parte qua l'art. 31, comma 9, della legge n. 1150 del 1942) non abbia introdotto un'azione popolare (che consentirebbe a qualsiasi cittadino di impugnare il provvedimento che prevede la realizzazione di un'opera per far valere comunque l'osservanza delle prescrizioni che regolano l'edificazione), ma abbia più semplicemente voluto riconoscere una posizione qualificata e differenziata in favore di chi si trovi in una specifica situazione giuridico-fattuale rispetto all'intervento edilizio assentito, per cui il provvedimento impugnato venga oggettivamente ad incidere la sua posizione sostanziale, determinandone una lesione concreta, immediata e attuale. E tale assunto, giova evidenziarlo, risulta in oggi ancora più corroborato a seguito dell'intervenuta abrogazione del richiamato art. 31 della legge n. 1150/1942, ad opera dell'art. 136, comma 1 lettera a) del Testo Unico dell'Edilizia. Così la giurisprudenza amministrativa ha elaborato al riguardo la nozione di vicinitas riconoscendo, in linea di principio, la legittimazione a contestare in sede giurisdizionale i titoli edilizi,solo a chi sia titolare di immobili nella zona in cui è stata assentita l'edificazione e a coloro che si trovino in una situazione di "stabile collegamento" con la stessa. La richiamata nozione di vicinitas, peraltro, è stata nel tempo affinata e più adeguatamente specificata nella sua concreta portata attraverso significativi e sostanziali correttivi . Da un lato, infatti, dopo le prime pronunce tendenti a circoscrivere la legittimazione ad agire ai soli proprietari frontisti, si è progressivamente estesa la platea dei soggetti abilitati al ricorso, riconoscendo un più ampio interesse di zona con riguardo, altresì, alla posizione degli operatori economici che intendano contrastare un titolo edilizio a cui si accompagni una contestuale autorizzazione di natura commerciale. Dall'altro lato, però, si è sempre più avuto modo di precisare come il semplice dato materiale della vicinitas, non sempre costituisca oggettivo ed incontrovertibile elemento di individuazione della legittimazione e dell'interesse ad agire, dovendosi comprovare il reale pregiudizio che venga a derivare dalla realizzazione dell'intervento assentito, specificando con riferimento alla situazione concreta e fattuale come, perché, ed in quale misura il provvedimento impugnato incida la posizione sostanziale dedotta in causa, determinandone una lesione concreta, immediata e di carattere attuale. Infatti, una diversa posizione che non tenga conto di una più attenta e oculata disamina della situazione dedotta in causa, al di là della rappresentazione formulata dal ricorrente, finirebbe per avallare una inammissibile sorta di azione popolare nei confronti dell'operato dell'amministrazione, per conseguire l'annullamento di ogni provvedimento che consenta interventi non graditi da parte dei vicini. Allo stato attuale, quindi, va osservato come la nozione di vicinitas vada diversamente apprezzata, quanto meno con riguardo alla circostanza per cui : a) ad impugnare il permesso di costruire sia o meno il titolare di un immobile confinante, adiacente o prospiciente su quello oggetto dell'intervento assentito; b) ad impugnare il permesso di costruire cui è correlata un'autorizzazione commerciale, sia un operatore economico . Invero, nel caso di cui alla lettera a) che precede, la giurisprudenza del Consiglio ha più volte precisato con un indirizzo assolutamente prevalente che, ai fini della legittimazione a impugnare un titolo edilizio da parte del proprietario confinante (o di chi si trovi in una posizione analoga), è sufficiente la semplice vicinitas, ossia la dimostrazione di uno stabile collegamento materiale fra l'immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, escludendosi in linea di principio la necessità di dare dimostrazione di un pregiudizio specifico e ulteriore. Tale pregiudizio, infatti, deve ragionevolmente ritenersi sussistente "in re ipsa in quanto consegue necessariamente dalla maggiore tropizzazzione (traffico, rumore), dalla minore qualità panoramica, ambientale, paesaggistica e dalla possibile diminuzione di valore dell'immobile" ( cfr. da ultimo e per tutte Cons. Stat. Sez IV, 22.09.2014 n. 4764 ed i richiami giurisprudenziali ivi operati) . Diversamente, nel caso in cui ad impugnare il titolo edilizio non sia il proprietario confinante (o un soggetto che si trovi in posizione analoga) la medesima giurisprudenza, ed in particolare quella di questa Sezione che il collegio pienamente condivide, ha precisato con indirizzo pressoché univoco che il mero criterio della vicinitas riguardato in senso solo materiale non può di per sé radicare la legittimazione al ricorso giurisdizionale "prescindendo dal generale principio dell'interesse ad agire in relazione alla lesione concreta, attuale e immediata della posizione sostanziale dell'interessato…….., presupponendo altresì la detta legittimazione la specificazione, con riferimento alla situazione concreta e fattuale del come, del perché ed in quale misura il provvedimento impugnato si rifletta sulla propria posizione sostanziale, determinandone una lesione concreta, immediata e di carattere attuale" ( Sez. IV 5.11.2004 n. 7245 ; 17.09.2012 n. 4924 ; 27.01.2012 n. 420 ; 30.11.2010 n. 8364 ; 4.12.2007 n. 6157 ) . Ed al riguardo è stato aggiunto "che la sussistenza dell'interesse ad agire deve essere valutata in astratto, con riferimento al contenuto della domanda, e non secundum eventum litis, e che requisiti imprescindibili per la configurazione di questa condizione dell'azione sono il suo carattere personale, la sua attualità e la sua concretezza…… per cui la lesione arrecata dal provvedimento impugnato deve essere effettiva, nel senso che dall'esecuzione di esso discenda in via immediata e diretta un danno certo alla sfera giuridica della ricorrente,ovvero potenziale, intendendosi come tale, però, quello che sicuramente (o molto probabilmente ) si verificherà in futuro" ( Sez. IV 30.11.2010 n. 8364 ) . Infatti," al fine di evitare il proliferare di ricorsi non effettivamente rispondenti al principio della tutela di un interesse qualificato……… in concreto devono ritenersi titolati alla impugnativa solo i soggetti che possono lamentare una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell'intervento controverso……. in termini, ad esempio, di deprezzamento del valore del bene o di concreta compromissione del diritto alla salute ed all'ambiente" ( Sez. IV 17.09.2012 n. 4924 ) . Ed in questo senso, la giurisprudenza della Sezione ha avuto modo di precisare ulteriormente che mentre la comprovata vicinitas è elemento sufficiente a legittimare l’impugnativa di un titolo edilizio da parte del proprietario confinante, non può viceversa " ambire alla stessa tutela il proprietario confinante con l'edificio a sua volta confinante con quello oggetto di intervento edilizio, in quanto ciò determinerebbe una vera e propria sostituzione processuale, in violazione dell'articolo 181 c.p.c. , secondo il quale nessuno può far valere in giudizio in nome proprio un editto altrui se non nei casi espressamente previsti dalla legge" ( Sez. IV 01.07.2013 n. 3543) . Nel caso in cui ad impugnare il permesso di costruire correlato ad una autorizzazione commerciale sia un operatore economico, il requisito della vicinitas ha poi subito una peculiare elaborazione da parte della giurisprudenza di questo Consiglio . In particolare il criterio dello stabile "collegamento territoriale" che deve legare il ricorrente all'area di operatività del controinteressato per poterne qualificare la posizione processuale e conseguentemente il diritto di azione, deve essere riguardato in un'ottica più ampia rispetto a quella usuale. Così il concetto di vicinitas nella contestazione di una struttura commerciale, "si specifica identificandosi nella nozione di stesso bacino d'utenza della concorrente, tale potendo essere ritenuto anche con un raggio di decine di chilometri" ( cfr. tra le tante Cons. St. Sez. IV 12.09.2007 n. 4821 ; 20.11.2007 n. 6613 ) . Pertanto, nell'ipotesi in cui ad impugnare il permesso di costruire sia il titolare di una struttura di vendita, affinché il suo interesse processuale possa qualificarsi personale, attuale e diretto, deve potersi ravvisare la coincidenza, totale o quanto meno parziale, del bacino di clientela, tale da poter oggettivamente determinare un'apprezzabile calo del volume d'affari del ricorrente. In sostanza, l'insediamento commerciale realizzato ex novo nella zona può considerarsi pregiudizievole e radicare un interesse tutelabile, quando venga a servire oggettivamente in tutto o in parte uno stesso bacino di clientela, oggettivamente circoscrivibile in un determinato ambito spaziale. Così, la legittimazione al ricorso non può di certo configurarsi allorquando l'instaurazione del giudizio appaia finalizzata a tutelare interessi emulativi, di mero fatto o contra ius, siccome volti nella sostanza a contrastare la libera concorrenza e la libertà di stabilimento. E ciò in coerenza con la funzione svolta dalle condizioni dell'azione nei processi di parte, innervati come sono dal principio della domanda e dal suo corollario rappresentato dal principio dispositivo; sul punto va richiamata la tesi (corroborata dalla più recente giurisprudenza nelle Sezioni Unite della Corte di Cassazione,cfr.22 aprile 2013 n. 9685 ), secondo cui tali condizioni (ed in particolare il titolo e l'interesse ad agire ), assolvono una funzione di filtro in chiave deflattiva delle domande proposte al giudice, fino ad assumere l'aspetto di un controllo di meritevolezza dell'interesse sostanziale in gioco, alla luce dei valori costituzionali ed internazionali rilevanti, desumibili dagli articoli 24 e 111 della Costituzione. Ne consegue che il riconoscimento della legittimazione ad agire non è genericamente ammesso nei confronti di tutti gli esercenti commerciali, ma è subordinato al riconoscimento di determinati presupposti, e ciò al fine di poter ritenere giuridicamente rilevante, nonché qualificato e differenziato, l'interesse all'impugnazione. Pertanto, è necessario che l’operatore economico che intende impugnare un titolo edilizio a cui accede una valida e formale autorizzazione commerciale eserciti nelle immediate adiacenze, che l’attività commerciale esercitata sia dello stesso tipo in tutto o in parte di quella relativa ai provvedimenti in contestazione, e che le due attività vengano a servire uno stesso bacino di clientela oggettivamente circoscritto o comunque circoscrivibile con sufficiente certezza.

 
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La Quarta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 19.11.2015 n. 5278 ha osservato, in coerenza con la costante giurisprudenza (cfr. da ultimo e per tutte Ad. Plen. 25.02.2014 n. 9), come l'azione di annullamento davanti al giudice amministrativo sia soggetta a tre condizioni fondamentali: ... Continua a leggere

 

Gare: i servizi esclusi dalla possibilità di procedere all'escussione della cauzione provvisoria conseguente alla disposta esclusione di un concorrente

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L’incameramento della cauzione come più volte rilevato dal Consiglio di Stato (Sez. V 10/9/2012 n. 4778; di recente, questa Sezione 9/6/2015 n. 2829 ) si configura come misura sanzionatoria costituente conseguenza automatica del provvedimento di esclusione. Invero, i criteri di esclusione dalla partecipazione alle gare sono dati in funzione della trasparenza della posizione dei concorrenti e non ritengono necessaria la prova della colpa nella formazione delle dichiarazioni presentate, dovendosi tener presente che nella specie l’esclusione è avvenuta proprio in ragione di un rilevato difetto dei requisiti da dichiararsi ex art.38 del dlgs n. 163/2006. Aderendosi a questa tesi interpretativa, il Consiglio di Stato Sez. IV nella sentenza del 19.12.2015 n. 5280 ha affermato che "ne deriva che l’assunto del Tar secondo cui nel caso de quo necessitava far precedere la determinazione di incameramento da una valutazione sulla gravità dell’addebito contestato alla Società si appalesa privo di pregio mentre, specularmente, fondata si rivela la tesi difensiva di parte appellante che fonda il suo motivo di gravame proprio sul carattere automatico della escussione intesa come misura sanzionatoria applicabile ex lege . Nondimeno, rileva il Collegio che la stazione appaltante non poteva procedere alla escussione della cauzione per una ragione che si pone a monte della problematica sopra esposta, ravvisabile, precipuamente, nel fatto che l’art. 48 citato non è applicabile tout court alla fattispecie, come correttamente e fondatamente fatto rilevare dalla Società qui appellata nella memoria di resistenza. Il titolo II del dlgs n.163/06 che si occupa dei contratti esclusi dall’ambito di applicazione del codice annovera l’art. 21 relativo agli appalti aventi ad oggetto i servizi elencati sia nell’allegato A sia nell’allegato B . Ora oggetto della gara per cui è causa risulta essere per tabulas il servizio di ristorazione collettiva mediante catering e la ristorazione è tra gli appalti di servizi inseriti nell’allegato II B del codice dei contratti . Questo sta a significare, in base ad una coordinata lettura del disposto legislativo, che la procedura ristretta posta in essere rientra a pieno titolo tra i servizi esclusi ai quali non è applicabile la norma di cui all’art.48 dettata a proposito della escussione della cauzione provvisoria. In tali sensi si è peraltro già espressa questa Sezione con sentenza n.2853 del 25/2/2014 proprio in occasione della definizione di una gara avente ad oggetto il servizio ristorazione (da svolgersi in quella circostanza in favore della polizia penitenziaria) e il Collegio ritiene di aderire pienamente a tale decisum. D’altra parte occorre rilevare che nella lex specialis di gara non risulta vi sia una prescrizione che preveda l’escussione della cauzione provvisoria conseguentemente alla disposta esclusione alla gara di un concorrente, senza quindi che la stazione appaltante si sia posto al riguardo un autovincolo. Insomma non v’è per il caso di specie una norma di rango legislativo e neppure di tipo regolamentare che regga l’irrogazione della misura afflittiva costituita dalla escussione della cauzione provvisoria".

 
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