News 23 Dicembre 2015 - Area Tecnica


GIURISPRUDENZA

Procedure di gara: la Responsabilità della Pubblica Amministrazione, il nesso di causalità ed il risarcimento del danno

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Di seguito si riporta la parte motiva della sentenza della Sesta Sezione del Consiglio di Stato del 10.12.2015 n. 5611. La responsabilità extracontrattuale, che rinviene il fondamento della sua disciplina nell’art. 2043 cod. civ., presuppone che l’agente non abbia normalmente alcun rapporto o contatto con la parte danneggiata. La norma citata, infatti, impone, con clausola generale dotata di autonomia precettiva, il rispetto del dovere generale del neminem laedere a tutela di qualunque posizione soggettiva meritevole di protezione giuridica. La responsabilità contrattuale è conseguenza della violazione di un dovere di prestazione o di protezione inserito nell’ambito di un rapporto giuridico che sorge non solo da un contratto ma, esprimendo l’espressione impiegata una sineddoche, anche dalla legge o da contatto tra le parti che può generare un rapporto contrattuale di fatto. Le posizioni soggettive sono riconducibili alla categoria del diritto soggettivo relativo. La responsabilità della pubblica amministrazione da provvedimento illegittimo ha natura speciale non riconducibile agli indicati modelli normativi di responsabilità (Cons. Stato, VI, 27 giugno 2013, n. 3521; id. 14 marzo 2005, n. 1047), per le seguenti ragioni. In primo luogo, rispetto alla responsabilità civile, quella in esame presuppone che il comportamento illecito si inserisca nell’ambito di un procedimento amministrativo. L’amministrazione, in ossequio al principio di legalità, deve rispettare predefinite regole, procedimentali e sostanziali, che scandiscono le modalità di svolgimento della sua azione. L’esistenza di un contatto tra le parti, pubbliche e private, impedisce di ritenere che si sia in presenza della responsabilità di un soggetto non avente alcun rapporto con la parte danneggiata. In secondo luogo, rispetto alla responsabilità contrattuale, sono diverse le posizioni soggettive che si confrontano: da un lato, dovere di prestazione o di protezione e diritto di credito, dall’altro, potere pubblico e interesse legittimo o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, diritto soggettivo. Infine, rispetto ad entrambe le responsabilità civilistiche, la stretta connessione esistente tra sindacato di validità sul potere discrezionale e sindacato di responsabilità sul comportamento impone al giudice amministrativo, nel caso in cui sia proposta anche l’azione di annullamento o di nullità, di non sovrapporre, nell’accertare la sussistenza del fatto illecito, proprie valutazioni a quelle riservate alla pubblica amministrazione. In definitiva, la peculiarità dell’attività amministrativa – che deve svolgersi nel rispetto di determinate regole procedimentali, sostanziali e processuali – rende speciale, per le ragioni indicate, anche il sistema della responsabilità da attività illegittima (in questo senso, da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 29 maggio 2014, n. 2792). E’ bene chiarire che la descritta forma di responsabilità deve essere tenuta distinta dalla responsabilità precontrattuale. Quest’ultima, da un lato, non richiede necessariamente la sussistenza di una illegittimità amministrativa, dall’altro, è finalizzata a "sanzionare" l’abuso della libertà negoziale della parte pubblica che, in contrasto con la buona fede (artt. 1337-1338 cod. civ.), intesa come lealtà di comportamento, incide sulla libertà negoziale dei partecipanti nella fase delle "trattative" che precedono la stipulazione di un contratto (cfr., da ultimo, Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2015, n. 9636). Chiarito ciò, deve rilevarsi come gli elementi costitutivi della responsabilità della p.a., sul piano della fattispecie, sono: i) l’elemento oggettivo; ii) l’elemento soggettivo; iii) il nesso di causalità materiale o strutturale; iv) il danno ingiusto, inteso come lesione della posizione di interesse legittimo e, nella materie di giurisdizione esclusiva, di diritto soggettivo. Sul piano delle conseguenze e, dunque, delle modalità di determinazione del danno, il fatto lesivo, così come sopra individuato, deve essere collegato, con un nesso di causalità giuridica o funzionale, con i pregiudizi subiti dalla parte danneggiata (Cass., 17 settembre 2013, n. 21255, ritiene, invece, che anche tale fase, avendo rilevanza causale, debba essere inserita nell’ambito della fattispecie). In questa sede interessa soffermarsi sul rapporto di causalità. Questa Sezione ha già avuto modo di ricostruire, con la citata sentenza n. 2792 del 2014, la nozione di nesso di causalità nell’ambito di una più ampia ricostruzione che ha riguardato anche la natura giuridica della responsabilità della p.a. In questa sede è sufficiente riportare il passo rilevante di tale decisione, in cui si è affermato quanto segue. La ricostruzione del nesso eziologico è necessaria al fine di valutare se la condotta della pubblica amministrazione sia stata idonea a ledere la posizione soggettiva di interesse legittimo.L’accertamento della lesione dell’interesse legittimo – in ragione della stretta connessione con il potere pubblico – richiede, infatti, l’effettuazione di un giudizio prognostico mediante il ricorso alla teoria condizionalistica, integrata, ove occorra, dal modello della sussunzione sotto leggi scientifiche e corretta dalla teoria della causalità adeguata. Occorre distinguere due diverse fattispecie. La prima fattispecie ricorre nel caso in cui la parte abbia proposto sia l’azione di invalidità sia l’azione di responsabilità e l’esito del giudizio amministrativo di annullamento di un determinato provvedimento consente il riesercizio di poteri amministrativi discrezionali. In queste ipotesi la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha costantemente ritenuto che il giudice amministrativo non possa effettuare, per evitare di invadere sfere di valutazione che la Costituzione riserva alla pubblica amministrazione, il predetto giudizio prognostico. Si ritiene, infatti, necessario attendere che l’amministrazione rinnovi il procedimento emendato dal vizio riscontrato in sede giudiziale e soltanto se all’esito di tale giudizio si accerta che il privato aveva "diritto" a quel determinato bene della vita sarà possibile ottenere, ricorrendo gli altri presupposti, il risarcimento del danno. In questo caso, pertanto, svolgendosi un giudizio di spettanza, la regola probatoria applicata è quella della "certezza" (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27 dicembre 2013, n. 6260; sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4452; V, 27 marzo 2013, n. 1781; V, 8 febbraio 2011, n. 854). La seconda fattispecie ricorre nel caso in cui la parte abbia proposto un’autonoma azione di responsabilità ovvero, ed è questo il profilo che rileva in questa sede, nel caso in cui l’attività amministrativa sia vincolata o l’amministrazione abbia esaurito la discrezionalità e pertanto la rinnovazione procedimentale si svolge nel solo rispetto di quanto stabilito dal giudice ovvero determinato dalla legge. In queste ipotesi il giudice amministrativo, senza il rischio di sovrapporre il proprio giudizio alle valutazioni dell’autorità pubblica, può effettuare un giudizio prognostico applicando, con gli esposti adattamenti, le regole elaborate in ambito civilistico per ricostruire il nesso di causalità. Occorre, pertanto, accertare se vi è stato danno ingiusto valutando se, in applicazione della teoria condizionalistica e della causalità adeguata, è "più probabile che non" che l’azione o l’omissione della pubblica amministrazione siano state idonee a cagionare l’evento lesivo (Cons. Stato, Sez. VI, 29 maggio 2014, n. 2792) ovvero, nel caso di attività vincolata o discrezionalità esaurita, se è stato raggiunto il livello probatorio della certezza. Nel caso la richiesta risarcitoria sia volta ad ottenere i danni da perdita di chance la parte deve dimostrare non la perdita del "risultato" favorevole ma la perdita di una "occasione" favorevole (Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2014 n. 7195, ha chiarito che nel danno da perdita di chance non si possono applicare regole statistiche correlative alle percentuali di "successo"). Applicando questi principi alla fattispecie in esame, risulta dimostrata la sussistenza del nesso di causalità. Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1418 del 1997, ha ritenuto sussistenti illegittimità di natura sostanziale. La stazione appaltante aveva annullato la gara ritenendo non sufficiente il numero delle imprese che avevano partecipato alla gara e aveva individuato una anomalia delle offerte a causa di eccessivi ribassi. Il Consiglio di Stato ha ritenuto non adeguata tale motivazione in quanto, da un lato, non sarebbe «comprensibile, in base alla comune esperienza, perché una partecipazione di 26 imprese su 39 invitate risulti, in sé, un esito non auspicato», dall’altro, come il giudizio di anomalia presupponga «l’acquisizione di dati concreti e specifici» e un contraddittorio con le imprese che è mancato. Da tale motivazione della sentenza emerge, con chiarezza, come il Consiglio di Stato abbia ritenuto che l’aggiudicazione già disposta non doveva essere annullata. Per quanto il vizio sia stato quello della motivazione inadeguata, in concreto non vi sarebbe stato spazio, in ragione del fatto che era stata la stessa amministrazione ad adottare l’atto di aggiudicazione, per una diversa determinazione in fase di riesercizio del potere. In altri termini, l’amministrazione, adottando il provvedimento di aggiudicazione, aveva "esaurito" la sua discrezionalità e, pertanto, una volta annullato l’atto con cui si era decisa la non stipulazione del contratto, per le illegittime ragioni sostanziali sopra indicate, può considerarsi raggiunta, con il livello della certezza, la prova della lesione della posizione giuridica vantata dall’appellante. Si rientra, pertanto, nella seconda fattispecie che questo Consiglio ha individuato, con conseguente sussistenza del nesso di causalità negato dal primo giudice. Chiarito ciò si tratta di valutare quali sono i danni risarcibili. A) In relazione al «danno per mancato utile» e dunque al lucro cessante la giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che «il risarcimento del cd. lucro cessante è subordinato alla prova, a carico dell'impresa ricorrente, della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, prova desumibile in via principale dall'esibizione dell'offerta economica presentata al seggio di gara» (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2014, n. 5531). Ne consegue che all’appellante spetta l'utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicatario quale risultante dall'offerta economica presentata in sede di gara. B) In relazione al «danno per vincolo improduttivo di personale e mezzi tecnici», lo stesso non spetta perché sfornito di prova sia nell’an che nel quantum. Questa Sezione ha, recentemente, avuto modo di affermare che «tale immobilizzazione, anziché costituire un danno in sé, rappresenta lo stesso presupposto (negativo) del risarcimento del danno da mancato guadagno, in quanto è proprio l'immobilizzazione delle risorse e dei mezzi tecnici ad escludere il c.d. aliunde perceptum, il quale, ove percepito in conseguenza di attività materialmente incompatibili (data la struttura imprenditoriale) con la contestuale esecuzione dell'appalto di cui si lamenta la mancata aggiudicazione, dovrebbe altrimenti essere detratto da quanto riconosciuto a titolo di lucro cessante». Si è aggiunto che: «l'aliunde perceptum rappresenta, tuttavia, un fatto impeditivo del diritto al risarcimento del danno: l'onere di eccepirlo e provarlo grava, secondo principi costantemente affermati dalla giurisprudenza civile della Corte di Cassazione (cfr., fra le tante, Cass. civ. sez. lav., 11 giugno 2013, n. 14643), sul danneggiante e, in mancanza di tale eccezione o di tale prova, non può darsi luogo a nessuna detrazione di quanto riconosciuto a titolo di mancato guadagno». La Sezione ha, poi, condivisibilmente aggiungto che «il contrario indirizzo a volte espresso da questo Consiglio di Stato non risulta condivisibile in quanto trasforma irragionevolmente l'(assenza dell') aliunde perceptum da fattore impeditivo ad elemento costitutivo della pretesa risarcitoria, facendo, peraltro, gravare sull'impresa che chiede il risarcimento la difficile prova di un fatto negativo» (Cons. Stato, sez. VI, 15 settembre 2015, n. 4283). C) In relazione al «danno per la perdita di chance a partecipare ad altre gare di appalto», anch’esso non può essere risarcito perché "coperto" dalla voce risarcitoria da lucro cessante. La parte può, infatti, pretendere, quando non è più possibile ottenere la tutela in forma specifica, i danni per il mancato utile conseguente alla perdita del "risultato" favorevole ovvero i danni da perdita di chance conseguente alla perdita di una "occasione" favorevole. Nel caso in esame, la parte ha optato per la prima forma di tutela. D) In relazione al "danno curriculare", esso viene generalmente ritenuto risarcibile «posto che il mancato arricchimento del curriculum professionale dell'impresa danneggiata dal provvedimento illegittimo pregiudica la sua capacità di competere nel mercato e diminuisce le chances di aggiudicarsi ulteriori affidamenti» (Cons. Stato, III, 10 aprile 2015, n. 1839). La sezione, con la citata sentenza n. 4283 del 2015, ha affermato che, in relazione a tale voce risarcitoria, «il terreno della prova si fa evidentemente molto scivoloso, posto che, come è stato evidenziato, ammettendo una sorta di "danno per immagine depotenziata", si entra nelle sabbie mobili di un danno non surrogabile patrimonialmente e non agevolmente quantificabile». La quantificazione di tale voce di danno è stata, infatti, sino ad ora operata dal giudice amministrativo in via equitativa, riconoscendo una somma pari ad una percentuale (variabile dall'1% al 5%) applicata in alcuni casi sull’importo globale dell'appalto, in altri sulla somma già liquidata a titolo di lucro cessante. Il Collegio ritiene che, nel caso di specie, sia congruo, tenuto conto della tipologia di appalto, liquidare in via equitativa a titolo di danno curriculare una somma pari al 2% di quanto riconosciuto a titolo di mancato guadagno. E) In relazione al danno «da contatto amministrativo qualificato», riconosciuto dal primo giudice nei limiti delle spese sostenute e non delle occasione perse, lo stesso non può essere riconosciuto, neanche nella misura determinata dal Tribunale amministrativo, in quanto esso attiene alla diversa fattispecie di responsabilità precontrattuale. In quest’ultimo caso, il risarcimento del danno è "limitato" all’interesse negativo e dunque è strettamente correlato al pregiudizio subito dalla parte per essere stata "coinvolta" in una negoziazione procedimentale che non è stata condotta dalla stazione appaltante nel rispetto delle regole della correttezza. Il danno da illecito civile è, invece, ancorato all’accertamento di una illegittimità amministrativa nell’ambito dello stesso procedimento. E’ evidente come, trattandosi di due diverse tecniche risarcitorie applicabili alla medesima vicenda, la parte deve effettuare la scelta di quale è la violazione che, in concreto, ha ritenuto sussistente. Alla luce dei motivi di ricorso e delle violazioni lamentate, l’appellante ha agito con l’azione da responsabilità civile connessa ad una illegittimità amministrativa, con la conseguenza che, in relazione a tale azione, non è possibile "aggiungere" voci risarcitorie che, si ribadisce, attengono ad una diversa fattispecie di responsabilità. F) In relazione, infine, alla corresponsione degli accessori del credito, «va ricordato che nel liquidare l'obbligazione di risarcimento del danno da fatto illecito andrà svolta una duplice operazione: in primo luogo, il danneggiato andrà reintegrato nella stessa situazione patrimoniale nella quale si sarebbe trovato se il danno non fosse stato prodotto, dovendosi così provvedere alla rivalutazione del credito, cioè alla trasformazione dell'importo del credito originario in valori monetari correnti alla data in cui è compiuta la liquidazione giudiziale, avvalendosi del coefficiente di rivalutazione elaborato dall'ISTAT, applicando l'indice dei prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati, in quanto non è stata in questa sede evocato altro criterio; in secondo luogo, dovrà calcolarsi il cd. danno da ritardo, utilizzando il metodo consistente nell'attribuzione degli interessi (c.d. compensativi), da calcolare secondo i criteri già fissati dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 1712 del 1995), secondo cui gli interessi vanno calcolati dalla data del fatto non sulla somma complessiva rivalutata alla data della liquidazione, bensì sulla somma originaria rivalutata anno dopo anno, cioè con riferimento ai singoli momenti con riguardo ai quali la predetta somma si incrementa nominalmente in base agli indici di rivalutazione monetaria» (Consiglio di Stato, sez. IV, 1 aprile 2015, n. 1708).

 
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Contratti pubblici ad esecuzione periodica o continuativa: nessun diritto alla automatica revisione periodica del prezzo e termine decadenzale per impugnare il provvedimento autoritativo di rigetto

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La vicenda giunta all'attenzione della Quinta Sezione del Consiglio di Stato vede l'appellante, che ha espletato nel comune di Frascati il servizio di raccolta, trasporto e smaltimento di rifiuti solidi urbani fino al 30/6/1999, chiedere il riconoscimento del proprio diritto ad ottenere la revisione periodica del canone ai sensi dell’art.6, comma sesto, della L. n.537/1993. La prospettazione di parte appellante si fonda sulla asserita titolarità di un diritto soggettivo alla revisione periodica in virtù del contratto stipulato con i, Comune di Frascati in data 26 gennaio 1994. Il Comune non disporrebbe di alcun potere autoritativo con la conseguenza che la controparte contrattuale potrebbe agire in giudizio entro il termine di prescrizione decennale, in quanto il suddetto art. 6, comma 4, della l. n. 537/1993 sancirebbe il diritto al compenso revisionale. Il Consiglio di Stato nella sentenza del 27.11.2015 n. 5375 ha rigettato l'appello in quanto il provvedimento dell’amministrazione comunale di Frascati impugnato non può essere qualificato atto paritetico e come tale impugnabile entro il termine prescrizionale a tutela dell’asserito diritto vantato degli appellanti. Precisa il Collegio che l’iter procedimentale in subiecta materia è bisafico, cioè caratterizzato da due distinte fasi di diversa natura. In proposito si osserva che l’art. 44, 4 comma della L. n. 724/94, di cui parte appellante deduce la violazione prevede, per tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture, l’obbligatoria inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo da operare sulla base di un’istruttoria condotta dai competenti organi tecnici dell’amministrazione. Conseguentemente sono nulle le clausole contrattuali che escludono la revisione del canone e si verifica l'eterointegrazione della disciplina di gara ai sensi degli artt. 1339 e 1419 cc., ma questo principio non comporta anche il diritto all’automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto che l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente sanciti. In tal senso si è ripetutamente pronunciata la giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. V, sentt. 22 dicembre 2014, n. 6275 e 24 gennaio 2013 n. 465, T.A.R. sez. III Milano n. 222/2015, TAR Campania - Napoli, Sez. I, 21 ottobre 2010, n. 20632), rilevando che la posizione dell'appaltatore è di interesse legittimo, quanto alla richiesta di effettuare la revisione in base ai risultati dell’istruttoria, poiché questa è correlata ad una facoltà discrezionale riconosciuta alla stazione appaltante (Cass. SS.UU. 31 ottobre 2008 n. 26298), che deve effettuare un bilanciamento tra l'interesse dell'appaltatore alla revisione e l'interesse pubblico connesso al risparmio di spesa da un lato, ed alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato. I risultati del procedimento di revisione prezzi sono quindi espressione di facoltà discrezionale, che sfocia in un provvedimento autoritativo, il quale deve essere impugnato nel termine decadenziale di legge. La posizione dell'appaltatore assume carattere di diritto soggettivo solo dopo che l'Amministrazione, in base alle risultanze istruttorie, abbia riconosciuto la sua pretesa, vertendosi solo allora in tema di "quantum" del compenso revisionale. Sia l'abrogato art. 6, comma 4, della legge 23 dicembre 1993 n. 537 (come modificato dall'art. 44 della legge 24 dicembre 1994 n. 724), che il vigente art. 115 del d.lgs. n. 163/2006 prevedono per la revisione prezzi un’istruttoria da parte dei dirigenti responsabili della acquisizione di beni e servizi, sulla base in primo luogo dei dati forniti dalla sezione centrale dell'Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture e dall'ISTAT (art. 7, comma 4, lett. c), e comma 5, del d.lgs. n. 163/2006). In base alle suesposte considerazioni non è configurabile alcuna contraddizione nelle pronunce del giudice amministrativo, che sanciscono, sotto un primo profilo, la sussistenza dell'obbligo di inserzione della clausola e quindi del corrispondente diritto della parte contraente (problematica esulante però dalla vicenda di cui è causa, in quanto la revisione era contrattualmente prevista) e, sotto un distinto e cronologicamente successivo profilo, ritengono che la situazione soggettiva dell'appaltatore in relazione alle modalità ed ai risultati della revisione sia di interesse legittimo in ragione della discrezionalità dell'Amministrazione sull'an debeatur (Cons. Stato, Sez. V, 24 gennaio 2013, n. 465). Tali considerazioni - conclude il Collegio - portano a disattendere entrambe le censure prospettate dagli appellanti, in quanto la mancata impugnazione del provvedimento di rigetto dell’istanza di revisione rende l’appello inammissibile, non potendo la relativa azione essere azionata nel termine decennale di prescrizione con la richiesta della declaratoria del relativo diritto. Infatti parte appellante ha impugnato la nota dell’8 novembre 1999 dell’Ufficio Tecnico Ambiente, avente carattere di atto interno ed infraprocedimentale senza alcun valore dispositivo, contenente un semplice parere del funzionario in base ai risultati dell’indagine conoscitiva effettuata in ordine alla sussistenza dei presupposti richiesti dalla normativa per la concessione della revisione del canone originariamente previsto in sede contrattuale per l’espletamento del servizio di raccolta di rifiuti solidi urbani, ma non ha invece proceduto all’impugnazione del formale provvedimento di diniego del Dirigente del IV Settore n.25875 dell’11 novembre 1999, mai ritualmente impugnato.

 
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Avvalimento: l'inidoneità del contratto dal contenuto generico

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In relazione alla disciplina dell’avvalimento per la qualificazione alle gare (di cui all’art. 49, comma 2, lett. f), del D. Lgs. n. 163 del 2006 e all’art. 88 del d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207), il Consiglio di Stato Sez. V nella sentenza del 27.11.2015 n. 5385 ha richiamato la giurisprudenza cheha chiarito come la messa a disposizione del requisito mancante non deve risolversi nel prestito di un valore puramente cartolare e astratto, essendo invece necessario, anche alla luce del chiaro disposto dell’art. 88 del d.P.R. n. 207 del 2010, che dal contratto risulti chiaramente l’impegno dell’impresa ausiliaria di prestare le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l’attribuzione del requisito di qualità, come i mezzi, il personale, la prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti (Cons. Stato, V, 27 aprile 2015, n. 2063). E’ invece inidoneo un contratto di avvalimento a contenuto generico a svolgere la funzione negoziale propria (Cons. Stato, V, 28 settembre 2015, n. 4507).

 
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L'AGCM non è competente a disporre la restituzione delle sanzioni da essa irrogate: il giudizio di ottemperanza va proposto contro il MEF

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La giurisprudenza ha ormai da tempo chiarito che l'Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) non è competente a disporre la restituzione delle sanzioni da essa irrogate e successivamente annullate, in tutto o in parte, dal giudice amministrativo. Tale competenza spetta al solo Ministero dell’economia e delle finanze. Perciò è inammissibile un ricorso per l’ottemperanza proposto nei confronti dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (cfr. Cons. Stato, VI, 16 gennaio 2014, n. 156; 19 novembre 2003, n. 7469; 21 novembre 2003, n. 7602). Lo stesso Ministero dell'economia e delle finanze, del resto, ha individuato nel suo Dipartimento del tesoro la struttura competente ad effettuare i rimborsi (v. nota del 6 giugno 2003 del Ministero dell'economia - Dipartimento per le politiche fiscali e note del 3 giugno 2002 e del 31 gennaio 2003 del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato). Sulla base di quanto sopra esposto la Sesta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 24.11.2015 n. 5331 ha accolto il ricorso per ottemperanza proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanza rilevando come il ricorso per ottemperanza può essere esperito anche nei confronti di un soggetto pubblico che sia stato estraneo al giudizio di merito, quando tale soggetto venga chiamato a porre in essere un'attività vincolata o adempitiva in fase di esecuzione del giudicato, avuto riguardo al carattere peculiare del rimedio, che è quello di essere preordinato a garantire la completa attuazione del contenuto decisorio della sentenza (Cons. Stato, VI, 6 maggio 1997, n.690). D’altra parte - conclude il Collegio - la carenza di fondi di bilancio o, in genere, le difficoltà finanziarie dell'ente non costituiscono una legittima causa di impedimento dell'esecuzione del giudicato, dovendo l'amministrazione, comunque, porre in essere tutte le iniziative necessarie per procedere al tempestivo pagamento di quanto dovuto; pertanto, agli effetti del giudizio di ottemperanza è irrilevante la circostanza che l'amministrazione abbia compiuto solo gli adempimenti strumentali necessari per il pagamento del debito (Cons. Stato, V, 16 settembre 1993, n.904).

 
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La giurisprudenza ha ormai da tempo chiarito che l'Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) non è competente a disporre la restituzione delle sanzioni da essa irrogate e successivamente annullate, in tutto o in parte, dal giudice amministrativo. Tale competenza spetta al solo Ministe ... Continua a leggere

 

Lottizzazione abusiva: la nozione, i presupposti e le particolari cautele

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La Sesta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 24.11.2015 n. 5328 relativamente ai presupposti della lottizzazione abusiva, quali desumibili dall'art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha affermato che "In base alla citata norma "Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni stessi, in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione, nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti, che per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere diurbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio". Nei termini sopra descritti, è configurata una tipologia di abusivismo di particolare gravità, in base alla presenza di alcuni segnali indicatori: mero inizio di opere edilizie, o anche soltanto suddivisione di un’area più o meno estesa in lotti, con modalità tali da far supporre "la destinazione a scopo edificatorio", mediante opere concretamente idonee a stravolgere l’assetto territoriale preesistente: situazioni, quelle sopra descritte, corrispondenti rispettivamente a lottizzazione c.d. "materiale", o anche solo "negoziale" e tali da giustificare l’adozione di severe misure repressive (art. 30 cit, commi 7 e 8: nullità di eventuali atti di cessione, nonché sospensione dell’intervento con atto che, "ove non intervenga la revoca del provvedimento", comporta ex se l’acquisizione di diritto al patrimonio disponibile del Comune delle aree lottizzate). La nozione di lottizzazione abusiva – figura di formazione giurisprudenziale, la cui compiuta disciplina legislativa risale alla legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive) – non deve confondersi con l’effettuazione di qualsiasi pur ampio intervento edificatorio non autorizzato, o non compatibile con la disciplina urbanistica vigente (oggetto di sanzioni apposite nel medesimo T.U. n. 380 del 2001). Secondo una linea interpretativa, sorretta da ricca casistica giurisprudenziale, una lottizzazione abusiva può infatti individuarsi solo in presenza della preordinata trasformazione di una porzione di territorio, in modo tale da aggiungere una nuova e composita maglia al tessuto urbano, con conseguente necessità – per la consistenza innovativa dell’intervento – di costituzione o integrazione della necessaria rete di opere di urbanizzazione (caratteristica, al riguardo, la prefigurazione di interi quartieri residenziali – ovvero di complessi ad uso commerciale o direzionale – previa suddivisione del terreno in lotti edificabili). Il testo della norma si riferisce dunque non tanto alla materiale entità dell’intervento – programmato o in corso di realizzazione – ma alle finalità ed alle conseguenze dello stesso, in termini di "peso insediativo" sul territorio. Per tale ragione, potendo la sanzione intervenire in via addirittura preventiva, si richiede che l’intento sia evidenziato da elementi precisi ed univoci, ovvero da un quadro indiziario idoneo a prefigurare un perseguito assetto dell’area, globalmente incompatibile sia con quello esistente che con quello previsto dagli strumenti urbanistici (cfr. in senso sostanzialmente conforme, tra le tante, Cons. Stato, VI, 29 gennaio 2015, n. 410; 7 agosto 2015, n. 3911, 26 maggio 2015, n. 2649). La norma di riferimento, sopra riportata, per quanto incentrata sulla tutela dell’interesse urbanistico più che di quello edilizio, perché sanzionante la trasformazione urbanistica a scopo edificatorio di un’ampia porzione di territorio ("di terreni"), non esclude in sé che la lottizzazione possa avere luogo anche in presenza di taluni edifici regolarmente preesistenti: ma impone con evidenza particolari cautele in una situazione, che rende oggettivamente più difficile la configurazione della fattispecie di cui al citato art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001."

 
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La Sesta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 24.11.2015 n. 5328 relativamente ai presupposti della lottizzazione abusiva, quali desumibili dall'art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha affermato che "In base alla citata norma "Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio q ... Continua a leggere

 

Autorizzazione paesaggistica: la sindacabilità da parte del giudice amministrativo delle valutazione espresse nel parere

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Il Consiglio di Stato Sezione Terza nella sentenza del 24.11.2015 n. 5327 ha affermato che "L'autorizzazione paesaggistica costituisce "atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio" (art. 146, comma 4, del Codice per i beni culturali e paesaggistici): il parametro normativo di riferimento per la valutazione della Soprintendenza non va quindi individuato nella disciplina urbanistico-edilizia, ma nella specifica disciplina del vincolo paesistico, contenuta nel provvedimento impositivo o, come nella specie, nella normativa dettata con il piano paesistico". Relativamente alla sindacabilità - da parte del giudice amministrativo - delle valutazioni espresse con tale parere, il Collegio ha evidenziato come la giurisprudenza sia consolidata nell’affermare che il potere dell’Autorità competente alla tutela del vincolo paesistico di esprimere il giudizio in ordine alla compatibilità di un intervento rispetto al vincolo medesimo, è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari caratterizzati da ampi margini di opinabilità. Di conseguenza, ritiene la giurisprudenza, l’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela – da esercitarsi, come si sottolinea nella sentenza impugnata, in rapporto al principio fondamentale dell’art. 9 Cost. – "è sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile"(Cons. Stato, VI, 14 ottobre 2015, n. 4747; della medesima Sezione, ex plurimis, 2 marzo 2015, n. 1000; 3 luglio 2014, n. 3360; 22 aprile 2014, n. 2019; 1 aprile 2014, n. 1557).

 
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Il Consiglio di Stato Sezione Terza nella sentenza del 24.11.2015 n. 5327 ha affermato che "L'autorizzazione paesaggistica costituisce "atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio" (art. 146, comma 4, del Codice pe ... Continua a leggere

 

Abusi edilizi: l'ordine di demolizione impartito dal giudice penale non deve essere eseguito dal Comune

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La giurisprudenza penale della Corte di Cassazione (Cass., SS.UU., 24 luglio 1996, n. 15; III, 12 dicembre 2006; 8 settembre 2010, n. 32952; 21 novembre 2012, n. 3456) ha chiarito che l’ordine di demolizione delle opere abusive impartito dal giudice penale in sentenza di condanna per violazioni alla normativa urbanistico-edilizia non deve essere eseguito dalla pubblica amministrazione ma, al contrario, la caratterizzazione che tale provvedimento riceve dalla sede in cui viene adottato conferma la giurisdizione del giudice ordinario riguardo alla pratica esecuzione dello stesso. La giurisprudenza penale della Corte di Cassazione ha affermato la natura autonoma dell’ordine di demolizione contenuto nella sentenza penale di condanna, rilevando l’assenza di norme specifiche che riconducano all’autorità amministrativa l’esecuzione dell’ordine di demolizione emesso dal giudice penale e, dunque, l’assoggettamento della demolizione alla disciplina dell’esecuzione prevista dal Codice di procedura penale. Questi i principi sanciti dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza n. 5324 del 24.11.2015 con la quale conseguentemente ha affermato che, non essendo ipotizzabile che l'esecuzione d'un provvedimento adottato dal giudice venga affidata alla pubblica amministrazione, salvo che la legge non disponga altrimenti in modo espresso, l'organo promotore dell'esecuzione, secondo la citata giurisprudenza, va identificato nel Pubblico ministero, con connessa parallela funzione del giudice dell'esecuzione per quanto di specifica competenza. Aggiunge il Collegio che ordine di demolizione irrogato in sentenza, costituendo una misura amministrativa caratterizzata dalla natura giurisdizionale dell'organo istituzionale al quale ne è appunto attribuita l'applicazione, non passa in giudicato essendo sempre possibile la sua revoca quando risulti assolutamente incompatibile con atti amministrativi della competente autorità intervenuti anche successivamente. È però compito esclusivo del giudice penale (anche dell'esecuzione) verificare la sussistenza dei presupposti per un’eventuale revoca della sanzione . Nel caso oggetto del presente giudizio, peraltro, tali conclusioni sono avvalorate dalla circostanza che l’esecuzione in sede penale risulta, peraltro, già in corso. L’iniziativa assunta dall’Amministrazione con l’adozione delle ordinanze impugnate, pertanto, oltre a rappresentare di per sé un ipotesi di sconfinamento e di indebito esercizio di competenze riservate alla giurisdizione penale, rischia anche di sovrapporsi ed interferire sull’incidente di esecuzione pendente in sede penale. I provvedimenti amministrativi impugnati sono stati, quindi, adottati in carenza di potere da parte del Comune e vanno, pertanto, annullati.

 
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La giurisprudenza penale della Corte di Cassazione (Cass., SS.UU., 24 luglio 1996, n. 15; III, 12 dicembre 2006; 8 settembre 2010, n. 32952; 21 novembre 2012, n. 3456) ha chiarito che l’ordine di demolizione delle opere abusive impartito dal giudice penale in sentenza di condanna per violazioni all ... Continua a leggere

 
 
 
 
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