News 31 Marzo 2014 - Area Tecnica


NORMATIVA

AVCP: adottato il nuovo regolamento per l’irrogazione delle sanzioni amministrative, pecuniarie ed interdittive

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L'AVCP ha pubblicato Il nuovo Regolamento che disciplina il procedimento per l’esercizio del potere sanzionatorio dell’Autorità per l’irrogazione delle sanzioni amministrative, pecuniarie ed interdittive, ai sensi dell’articolo 6, comma 11, articolo 7, comma 8, articolo 38, comma 1-ter, articolo 40, comma 9-quater, articolo 48, commi 1 e 2 del Codice nonché ai sensi degli articoli 73 e 74 del Regolamento di esecuzione ed attuazione. Per scaricare il regolamento cliccare su "Accedi al Provvedimento".

 
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L'AVCP ha pubblicato Il nuovo Regolamento che disciplina il procedimento per l’esercizio del potere sanzionatorio dell’Autorità per l’irrogazione delle sanzioni amministrative, pecuniarie ed interdittive, ai sensi dell’articolo 6, comma 11, articolo 7, comma 8, articolo 38, comma 1-ter, articolo 40 ... Continua a leggere

 

Avvalimento: le nuove indicazioni dell'AVCP per armonizzare il quadro normativo con la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea

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L'AVCP ha ritenuto necessario diramare un intervento chiarificatore volto ad armonizzare le indicazioni della Sentenza della Corte di Giustizia Europea con il complessivo quadro normativo precisando che le stazioni appaltanti, nell’affidamento dei contratti relativi all’esecuzione di lavori o opere, sono richiamate ad osservare le seguenti indicazioni:1) Alla luce di quanto statuito dalla Corte di Giustizia Europea nella Sentenza 10 ottobre 2013 è incompatibile con gli artt. 47, paragrafo 2 e 48, paragrafo 3, della direttiva 2004/18/CE del 31/03/2004 una disposizione nazionale, come quella dell’art. 49, comma 6, del D. Lgs. n. 163/2006, che vieta in via generale agli operatori economici che partecipano ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori di avvalersi per la stessa categoria di qualificazione delle capacità di più imprese;2) In attuazione della sentenza della Corte di Giustizia Europea è ammessa, in sede di gara, la possibilità che il concorrente, mediante avvalimento, utilizzi cumulativamente, per il raggiungimento della classifica richiesta dal bando gara, più attestati di qualificazione per ciascuna categoria;3) Resta fermo il principio espresso dalla Corte nel caso di lavori che presentino peculiarità tali da richiedere una determinata capacità che non si ottiene associando capacità inferiori di più operatori; in un’ipotesi del genere l’amministrazione aggiudicatrice potrà legittimamente esigere che il livello minimo della capacità in questione sia raggiunto da un operatore economico unico o, eventualmente, facendo riferimento ad un numero limitato di operatori economici;4) La legittimazione riconosciuta all’amministrazione aggiudicatrice di esigere un livello minimo di capacità, di cui al punto 3), trova fondamento anche negli indeclinabili principi contenuti nell’art.2, comma 1 del Codice dei Contratti la cui applicazione si pone a garanzia, per la stazione appaltante, di ricevere la migliore prestazione. Tale esigenza della stazione appaltante deve risultare da adeguata motivazione espressa in seno alla delibera o determina a contrarre o, al più tardi, negli atti di gara.5) Nel caso di cui al punto 3) la stazione appaltante deve chiaramente specificare nel bando o nella lettera di invito qual è il livello minimo di capacità richieste in termini di classifica minima che deve essere posseduta dall’operatore o dagli operatori economici di cui si intenda cumulare le capacità per il raggiungimento della classifica richiesta nel bando di gara;6) Il punto 4 della determinazione 1° agosto 2012, n. 2, si intende modificato nella parte concernente la disciplina dettata dall’art. 49, comma 6, alla luce dei principi espressi dalla Corte di Giustizia Europea e secondo le indicazioni contenute nel presente Comunicato.

 
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Sicurezza nei luoghi di lavoro: finanziamento Inail alle imprese per migliorare i livelli di sicurezza

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C'e' tempo fino all'8 aprile per partecipare al Bando Isi 2013 con il quale l'Inail finanzia in conto capitale le spese sostenute per progetti di miglioramento dei livelli di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. I destinatari degli incentivi sono le imprese, anche individuali, iscritte alla Camera di Commercio Industria, Artigianato ed Agricoltura. Fondi a disposizione Sono resi disponibili 307,359 milioni di euro con il Bando Isi 2013. Il contributo, pari al 65% dell’investimento, per un massimo di 130.000 euro, viene erogato dopo la verifica tecnico-amministrativa e la realizzazione del progetto. I finanziamenti sono a fondo perduto e vengono assegnati fino a esaurimento, secondo l’ordine cronologico di arrivo. Sono cumulabili con benefici derivanti da interventi pubblici di garanzia sul credito (es. gestiti dal Fondo di garanzia delle PMI e da Ismea). Come accedere ai finanziamenti Le imprese, previa registrazione sul portale Inail, hanno a disposizione una procedura informatica per l’inserimento guidato della domanda di contributo con le modalità indicate negli Avvisi regionali, attraverso semplici passaggi operativi per i quali sono stati predisposti appositi tutorial e un manuale utente: inserimento della domanda nella sezione Servizi online e verifica delle condizioni minime di ammissibilità download del codice identificativo invio della domanda attraverso la procedura online nei tempi e nelle modalità previste dagli Avvisi pubblici regionali. Per scaricare il bando cliccare su "Accedi al provvedimento".

 
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Rilevazione prezzi sanità, tempo fino al 6 maggio per la trasmissione dei dati all'AVCP

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E’ stato predisposto dall’Avcp l’elenco delle amministrazioni oggetto della rilevazione per la elaborazione dei prezzi di riferimento in ambito sanitario di cui all’art. 17 della legge 111/2011. Tutte le amministrazioni oggetto della rilevazione (asl, aziende ospedaliere, centrali di committenza, ecc.) sono tenute a trasmettere i dati richiesti per via telematica entro il 6 maggio 2014 utilizzando il software dedicato disponibile all’interno del servizio ad accesso riservato ‘Rilevazione prezzi sanità’. Gli utenti troveranno a disposizione, oltre al Comunicato dell’Osservatorio dei contratti pubblici con allegato l’elenco, il manuale utente e le tre guide per lavanderia, pulizia e ristorazione. Per maggiori informazioni cliccare su "Accedi al Provvedimento".

 
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GIURISPRUDENZA

Procedura negoziata: in assenza di un esplicito divieto contenuto nella lex specialis e' possibile la riunione in A.t.i. di imprese prequalificatesi separatamente

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 31.3.2014

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1. Con ricorso proposto dinanzi al TAR per la Basilicata, l’odierna appellante agiva per ottenere l’annullamento della determinazione 20 ottobre 2010, n.81, con la quale il dirigente del settore affari legali e lavori pubblici del Comune di Pisticci aveva approvato il verbale di gara informale relativo alla procedura negoziata per l’affidamento del "servizio di conduzione, gestione e manutenzione degli impianti di pubblica illuminazione, elettrici, termici e di climatizzazione ed antincendio…" e aveva disposto l’aggiudicazione in favore dell’ A.T.I. ... . Con lo stesso ricorso avanzava richiesta di declaratoria di inefficacia del contratto e subentro nella posizione di aggiudicataria ed, in via subordinata, di risarcimento del danno. In particolare, il TAR riteneva infondata la prima censura, non ravvisando una violazione dell’art. 37, comma 12, del Codice dei contratti pubblici nel caso di riunione in A.t.i. di imprese prequalificatesi separatamente, in assenza di un divieto di tal fatta contenuto nel sopra indicato Codice o nella lex specialis. Il Giudice di prima cure, al riguardo, concludeva che l’immodificabilità soggettiva subentri dopo la presentazione dell’offerta, discostandosi dal parere dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato del 7 febbraio 2003, n. AS251, alla stregua di quanto già affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 588/09.La prima doglianza ha ad oggetto l’esegesi dell’art. 37, comma 12, d.lgs. 163/2006, secondo il quale: "In caso di procedure ristrette o negoziate, ovvero di dialogo competitivo, l'operatore economico invitato individualmente, o il candidato ammesso individualmente nella procedura di dialogo competitivo, ha la facoltà di presentare offerta o di trattare per sé o quale mandatario di operatori riuniti". La norma in questione non può essere interpretata nel senso indicato dall’appellante, perché in questo modo si darebbe spazio ad un’esegesi inutilmente restrittiva in ordine alla possibilità di utilizzare lo strumento dell’associazione temporanea di imprese, che, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, ha una ratio profondamente proconcorrenziale, consentendo un più ampio accesso al mercato dei contratti pubblici anche a soggetti che singolarmente non avrebbe i requisiti necessari per risultare aggiudicatari.Vero è che questo Consiglio con la sentenza 8 marzo 2006, n. 1267, ha ritenuto che due o più imprese concorrenti individualmente prequalificate non possono concorrere in associazione temporanea alla successiva competizione mediante la presentazione di un'offerta congiunta, salvo che il bando non preveda diversamente. Ma si tratta di un’impostazione che deve cedere il passo ad altro condivisibile orientamento illustrato nella sentenza di questo Consiglio n. 588 del 20 febbraio 2008 (in senso conforme, Cons. Stato, Sez. V, n. 6619 del 2002; n. 5309 del 2003), che ha chiarito come il principio di immodificabilità soggettiva viene in rilievo soltanto all’indomani della presentazione dell’offerta e non nelle fasi di gara a questa precedente. Del resto anche dal punto di vista letterale sia l’art. 37, comma 12, che l’art. 125, comma 11, d.lgs. n. 163/2006, fanno riferimento alla nozione di "operatore economico" e di "candidato", ossia di un soggetto che ancora deve presentare la propria offerta. Un’opposta interpretazione non potrebbe armonizzarsi con il testo del comma 9 dell’art. 37, d.lgs. n. 163/2006, che vieta la modificazione della composizione delle a.t.i. all’indomani dell’offerta.Sul punto va anche rammentato come un simile divieto sia stato analizzato dalla sentenza n. 8 del 2012 dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, secondo la quale: "In tema di appalti pubblici, ai sensi dell'art. 13 comma 5 bis L. 11 febbraio 1994 n. 109, il cui contenuto è stato trasfuso nell'art. 37 D.L.vo 12 aprile 2006 n. 163, il divieto di modificazione della compagine delle Associazioni temporanee di imprese nella fase procedurale corrente tra la presentazione delle offerte e la definizione della procedura di aggiudicazione è finalizzato a impedire l'aggiunta o la sostituzione di Imprese partecipanti all'a.t.i. e non anche a precludere il recesso di una o più di esse, a condizione che quelle che restano a farne parte risultino titolari, da sole, dei requisiti di partecipazione e di qualificazione e che ciò avvenga per esigenze organizzative proprie dell'a.t.i. o Consorzio, e non invece per eludere la legge di gara (in particolare, per evitare una sanzione di esclusione dalla gara per difetto dei requisiti in capo al componente dell'a.t.i. venuto meno per effetto dell'operazione riduttiva)". Pertanto, in assenza di un esplicito divieto contenuto nella lex specialis, stante la riconosciuta possibilità per gli operatori economici invitati di costituire associazioni temporanee di imprese, sarebbe irragionevole ritenere possibile una modificazione soggettiva delle a.t.i. costituende o costituite e non consentire che gli operatori economici invitati possano utilizzare lo stesso strumento.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 31.3.2014

 
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1. Con ricorso proposto dinanzi al TAR per la Basilicata, l’odierna appellante agiva per ottenere l’annullamento della determinazione 20 ottobre 2010, n.81, con la quale il dirigente del settore affari legali e lavori pubblici del Comune di Pisticci aveva approvato il verbale di gara informale rela ... Continua a leggere

 

Impianti per la distribuzione di carburante: non può configurarsi una tutela dell’affidamento del titolare dell’impianto alla sua conservazione in quanto l'interesse personale economico, cede di fronte al superiore interesse di permanenza della compatibilità

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

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La Quinta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha rigettato la censura formulata avverso la sentenza di primo grado, perché non avrebbe preso in considerazione la circostanza dell’esistenza dell’impianto da oltre cinquant’anni. Il D.Lgs 32/98 e l’art. 4 comma 4, lett. c della legge 15 marzo 1997, n. 59, stabiliscono che tutti gli impianti per la distribuzione di carburante sono assoggettati a verifica ogni quindici anni, verifica che ha per oggetto l’idoneità tecnica ai fini della sicurezza sanitaria, ambientale e la verifica della permanente compatibilità con la normativa urbanistica e con le disposizioni a tutela dell’ambiente, del traffico urbano ed extraurbano, della sicurezza stradale e dei beni di interesse storico e architettonico e, comunque, con le disposizioni emanate dalle regioni e dai comuni. E’ evidente che, nella fattispecie, non può configurarsi una tutela dell’affidamento del titolare dell’impianto alla sua conservazione, dal momento che il personale interesse di carattere meramente economico, cede di fronte al superiore interesse rappresentato dai parametri di valutazione posti a base della compatibilità dell’impianto, espressamente codificati dal legislatore.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

 
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Anomalia dell'offerta: l'esiguità dell'utile non e' indice di un'incongruità dell'offerta dovendosi avere riguardo alla serietà della proposta contrattuale, in quanto anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio importante

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

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Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato dapprima interviene a risolvere la questione afferente allo scostamento dalle tabelle ministeriali sui costi medi della manodopera, per poi analizzare anche la problematica dell'incidenza dell'esiguità dell'utile nella valutazione dell'anomalia dell'offerta. Con riferimento al primo aspetto dello scostamento dalle tabelle ministeriali, il Collegio rileva che il Consiglio di Stato ha già chiarito (da ultimo: Consiglio di Stato, sez. V, 14 giugno 2013, n. 3314 e sez. IV, 22 marzo 2013, n. 1633) "che i costi medi della manodopera, indicati nelle tabelle ministeriali, non assumono valore di parametro assoluto ed inderogabile, ma svolgono una funzione indicativa, suscettibile di scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali evidenzianti una particolare organizzazione in grado di giustificare la sostenibilità di costi inferiori, secondo quanto previsto dagli artt. 87, comma 2, lett. g), d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 e 2, D.M. 8 luglio 2009. Infatti, la previsione di inderogabilità riguarda il trattamento normativo e retributivo del lavoratore in base ai minimi previsti dalla contrattazione collettiva e non anche il costo globale sostenuto dall’impresa in ordine al medesimo costo." Quanto all’esiguità dell’utile, ai fini della valutazione di anomalia delle offerte presentate nelle gare di appalto, si deve ribadire che non è possibile fissare una quota rigida di utile al di sotto della quale l’offerta debba considerarsi per definizione incongrua, dovendosi invece avere riguardo alla serietà della proposta contrattuale, atteso che anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio importante (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 16 gennaio 2009, n. 215 e Sez. IV, 23 luglio 2012, n. 4206), tenuto anche conto che non sono emersi elementi che suggeriscono l’insufficienza dell’utile ad assicurare, per l’esiguità di ulteriori fonti di reddito, il mantenimento delle due società aggiudicatarie e che l’adeguatezza di un’offerta deve essere comunque valutata nella sua globalità, non potendo essere desunta da tale singolo elemento. Per continuare nella lettura della sentenza cliccare su "accedi al provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

 
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Appalti: la Commissione di gara deve escludere l'offerta tecnica che prevede il superamento del limite giornaliero di legge delle sei ore continuative di lavoro senza intervallo per pausa, se la società non ha stipulato antecedentemente alla presentazione dell’offerta ed allegato alla stessa l’accordo sindacale derogatorio in tema di orario di lavoro di cui all’art. 17 del d.lgs. n. 66/2003

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

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Rileva il Consiglio di Stato nella sentenza in esame che con il terzo motivo del ricorso incidentale di primo grado, la parte appellata aveva contestato l’operato della Commissione di gara sotto il profilo della violazione di legge per mancata e falsa applicazione degli artt. 8 e 17 del d.lgs. n. 66-2003, omettendo di escludere dalla gara l’odierna appellante pur dopo aver preso atto che quest’ultima, avendo previsto nella propria offerta tecnica il superamento del limite giornaliero di legge delle sei ore continuative di lavoro senza intervallo per pausa, aveva altrettanto mancato di comprovare tempestivamente, al momento della presentazione della propria offerta, di aver titolo per rientrare nell’apposita deroga prevista dall’art. 17 di detto Decreto Legislativo, mediante la produzione di un contratto collettivo derogatorio. Ritiene il Collegio che tale omissione sia qualificabile come illegittima e, per l’effetto, come correttamente ha stabilito il TAR, avrebbe dovuto comportare l’esclusione della parte appellante dalla gara. Infatti, la censura d’appello di ultrapetizione non può ritenersi accoglibile posto che, dal combinato disposto degli artt. 8 e 17, d.lgs. n. 66-03, l’accordo sindacale derogatorio in tema di orario di lavoro di cui all’art. 17 del medesimo d.lgs. avrebbe dovuto essere stipulato antecedentemente alla presentazione dell’offerta tecnica ed essere allegato alla stessa, scontando in difetto la violazione dell’art. 8 del medesimo d.lgs. La mancanza di un elemento imprescindibile della prestazione, oggetto dell’offerta, elemento dettato dalla legge a tutela della salute e della sicurezza nel lavoro, rende evidentemente l’offerta stessa priva di un elemento essenziale, anche ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, d. lgs. 163-06, a nulla rilevando che detta violazione assuma o non assuma rilevanza ai fini dell’esclusione della ricorrente di primo grado anche ai sensi dell’art. 8 del capitolato. In base a tale ultima clausola "l’appaltatore è sottoposto a tutti gli obblighi verso i propri dipendenti risultanti dalle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di lavoro e di assicurazioni sociali, nonché di sicurezza sul lavoro"; si tratta di un mero richiamo alle norme imperative che, comunque, si applicherebbero anche in difetto di una specifica previsione di capitolato e che confermano, in realtà, la necessità che il concorrente sia munito di quella specifica qualificazione che la legge gli richiede espressamente per poter esprimere validamente la propria offerta. Infatti, come ha già chiarito la giurisprudenza di questo Consiglio, è vero che il bando non ha richiesto espressamente l’accordo sindacale derogatorio per poter giustificare un orario di lavoro superiore, per espletare il servizio oggetto di appalto, rispetto a quello previsto dal cennato art. 8, ma il silenzio del bando al riguardo non può certo intendersi come volontà, da parte della stazione appaltante, di escludere l'applicazione di tale articolo e di ammettere alla gara, quindi, offerte che non presentano tale requisito essenziale ed inderogabile. Le regole del bando, occorre ricordarlo, devono essere interpretate, alla stregua dei generali criteri ermeneutici previsti in materia negoziale e applicabili, nei limiti della compatibilità, anche ai provvedimenti amministrativi, in modo tale da dare ad esse, ove possibile, un significato conforme a legge anziché un senso con questa contrastante, magis ut valeat quam ut pereat (art. 1367 c.c.), essendo tale canone interpretativo espressione del più generale principio di conservazione degli atti giuridici anche in relazione ai bandi e alle procedure concorsuali (cfr., sul punto, Consiglio di Stato, Sez. III, 10 dicembre 2013, n. 5917 e sez. III, 2 settembre 2013, n. 4364). Inoltre, la circostanza che la normativa richiamata non specifichi esattamente quando detto accordo debba essere stipulato (se prima o dopo la presentazione dell’offerta tecnica) è fisiologicamente legato al fatto che la norma de quo è dettata in tema di lavoro e non di contratti pubblici, ma ciò non esclude che nel caso di specie tale incombente dovesse essere espletato prima, anche per un principio di tutela della par condicio dei concorrenti, connesso al fatto che detto accordo, subordinato ad un assenso sindacale, non costituisce fatto certo ed ineludibile e, dunque, la presentazione di un’offerta come quella qui in contestazione, priva dell’accordo derogatorio implica la presentazione inammissibile di un’offerta condizionata. Pertanto, certamente doveva essere esclusa l’offerta tecnica che, prevedendo un orario di lavoro superiore a quello previsto dall’art. 8, norma imperativa e inderogabile se non in presenza di un accordo derogatorio sindacale ad hoc, nella specie non intervenuto al momento della presentazione dell’offerta, si poneva in chiaro contrasto con la normativa generale di settore. Per continuare la lettura della sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Rileva il Consiglio di Stato nella sentenza in esame che con il terzo motivo del ricorso incidentale di primo grado, la parte appellata aveva contestato l’operato della Commissione di gara sotto il profilo della violazione di legge per mancata e falsa applicazione degli artt. 8 e 17 del d.lgs. n. 6 ... Continua a leggere

 

Autorizzazione unica per la realizzazione di impianti di energia elettrica prodotta da da fonte eolica: il superamento del termine massimo di 180 giorni per la conclusione del procedimento non priva la Regione procedente del potere di adottare il provvedimento finale

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

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Come già chiarito dalla giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. St., Sez. VI, 22 febbraio 2010, n. 1020), in ossequio a impegni internazionali e comunitari, il legislatore statale ha emanato il d.lgs. n. 387/2003, ispirato a principi di semplificazione e accelerazione delle procedure finalizzatealla realizzazione e gestione degli impianti di energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili e, segnatamente, da fonte eolica. In particolare, l'art. 12, d.lgs. n. 387/2003, ha previsto un'autorizzazione unica, che sostituisce tutti i pareri e le autorizzazioni altrimenti necessari, e in cui confluiscono anche le valutazioni di carattere paesaggistico, nonché quelle relative alla esistenza di vincoli di carattere storico-artistico, tramite il meccanismo della conferenza di servizi. Inoltre, il termine massimo di conclusione del procedimento non può essere superiore a 180 giorni (Cons. St., Sez. V, 14 settembre 2010, n. 6684; Id., 26 febbraio 2010, n. 1139). Questo termine ha natura acceleratoria e non perentoria e, pertanto, il suo superamento, pur abilitando il soggetto richiedente a sollecitare, anche proponendo ricorso all'autorità giurisdizionale, la conclusione del procedimento, non priva la Regione procedente del potere di adottare il provvedimento finale (Cons. St., Sez. V, 11 maggio 2010, n. 2825). Pertanto, venendo all’esame del primo motivo di appello, occorre rilevare che le linee guida contenute nel D.M. 10 settembre 2010 dettano diposizioni di dettaglio per l'autorizzazione alla costruzione e all'esercizio di impianti di produzione di elettricità da fonti rinnovabili. Tra i principi generali inerenti l'attività di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, al punto 1.1. viene precisato che: "A tale attività si accede in condizioni di uguaglianza, senza discriminazioni nelle modalità, condizioni e termini per il suo esercizio.". Poiché si tratta di un’attività libera, le valutazioni delle amministrazioni coinvolte sono unicamente finalizzate alla tutela degli interessi pubblici della tutela del paesaggio, dell’ambiente, del patrimonio storico-artistico, dell’ordinario sviluppo del territorio, della sicurezza pubblica incisi dall’iniziativa privata. In particolare il punto 14.3. delle suddette linee guida stabilisce che: "Il procedimento viene avviato sulla base dell'ordine cronologico di presentazione delle istanze di autorizzazione, tenendo conto della data in cui queste sono considerate procedibili ai sensi delle leggi nazionali e regionali di riferimento". Tale specificazione ha il fine di ordinare l’esame delle istanze sulla scorta di un criterio cronologico, evitando che procedimenti più complessi possano essere conclusi con valutazioni che siano state la conseguenza deell’esame più rapido di procedimenti meno complessi. Né appare giustificata la specificazione contenuta nel D.D. Regione Campania, n. 50 del 18 febbraio 2011, che non ha, anche per la ragione sopra esposta, il potere di derogare al criterio cronologico, sulla scorta della differente potenza degli impianti. Del resto, non può imputarsi a chi presenti l’istanza la scelta dell’amministrazione regionale di delegare alla Provincia l’esame delle richieste progettuali di minor spessore. Del resto, ciò che rileva - e che può non essere colto in seno alla conferenza di servizi a maggior ragione, come nel caso in questione, quando la Regione abbia delegato alla Provincia la competenza al rilascio dell’autorizzazione per gli impianti di potenza inferiore a 1 MW - è che la presentazione di un’istanza di data successiva possa influire in modo determinante sul buon esito dell’istanza presentata precedentemente a causa di eventuali interferenze tra gli impianti. Al contrario, proprio il rigido uso del criterio cronologico consente di evitare che l’attività amministrativa si presenti, come invece accaduto nella fattispecie, foriera di irragionevole disparità di trattamento. Pertanto, il primo motivo va disatteso. 4. Quanto alla seconda doglianza non può convenirsi con la lettura dell’appellante. Infatti, il termine fissato dall’art. 12, d.lgs. n. 387/2003 non ha natura perentoria, nel senso che il suo decorso, senza che l’amministrazione abbia provveduto, non priva la stessa del potere di adottare un provvedimento espresso. La stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 364 del 9 novembre 2006, afferma che: "L’indicazione del termine, contenuto nell’art. 12, comma 4, deve qualificarsi quale principio fondamentale in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», in quanto tale disposizione risulta ispirata alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità garantendo, in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la conclusione entro un termine definito del procedimento autorizzativo", ma da ciò non fa discendere la diversa regola invocata dall’appellante secondo la quale all’amministrazione sarebbe inibito adempiere una volta che il termine in questione sia decorso. Al contrario, le conseguenze, alle quali va incontro l’amministrazione nel caso dell’inutile decorso del termine in questione, sono chiaramente ribadite dal punto 14.16 delle linee guida e sono quelle tipiche della regola generale fissata dall’articolo 2-bis della legge n. 241 del 1990, secondo la quale le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all'articolo 1, comma 1-ter, della medesima legge, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, salva la tutela spettante per la pretesa alla conclusione del procedimento. Per continuare la lettura della sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

 
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Come già chiarito dalla giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. St., Sez. VI, 22 febbraio 2010, n. 1020), in ossequio a impegni internazionali e comunitari, il legislatore statale ha emanato il d.lgs. n. 387/2003, ispirato a principi di semplificazione e accelerazione delle procedure finalizzate ... Continua a leggere

 

D.I.A.: si applica la giurisprudenza formatasi in tema di ricorso contro un permesso di costruire anche per il caso di terzo che intenda opporsi all’esecuzione di lavori eseguiti tramite d.i.a.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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Per l’evidente analogia della situazione sostanziale, la posizione del terzo che intenda opporsi all’esecuzione di lavori eseguiti tramite d.i.a. è del tutto assimilabile a quella di chi impugni un permesso di costruire, in quanto anch’egli ha l’onere di contestare, nei termini di legge, un’autorizzazione (generalmente implicita) di natura provvedimentale (secondo la ricostruzione della normativa fatta da Cons. Stato, sez. IV, 29 luglio 2008, n. 3742 e poi da ad. plen., n. 15 del 2011, cit.). Là dove non sussista una differenza specifica, vale dunque la giurisprudenza formatasi in tema di ricorso contro un permesso di costruire. A questo proposito, che la regola sancita dall’art. 31, nono comma, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (secondo cui "chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione") non abbia inteso introdurre una forma di azione popolare, è affermazione troppo consolidata da non richiedere il sostegno di specifici precedenti. Secondo una giurisprudenza costante, la norma riconosce una posizione qualificata e differenziata solo in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di "stabile collegamento" con la stessa. Tale situazione di fatto, nella specie, non è contestata, poiché - al di là delle questioni circa la proprietà, il possesso, la cessione e la retrocessione di specifiche particelle - è indubbio che entrambi i varchi in oggetto (quello preesistente e quello di nuova apertura) insistano sul medesimo tratto di strada. D’altronde, pure a voler seguire quell’orientamento più restrittivo che, anche al fine di evitare una proliferazione incontrollata di ricorsi non fondati effettivamente sulla tutela di un interesse qualificato, ritiene la vicinitas condizione necessaria ma da sola non sufficiente a fondare la legittimazione e l’interesse al ricorso (Cons. Stato, sez. IV, 17 settembre 2012, n. 4924, citata dagli appellanti), nella fattispecie non manca una simile posizione differenziata in capo agli appellati, i quali, certamente titolari del diritto di accesso carrabile, negano, sulla base dell’interpretazione che danno della disciplina comunale in materia, che analogo diritto possa essere attribuito ex novo ad altri soggetti, anche al fine di evitare – come scrive correttamente il T.A.R. – "l’utilizzo indiscriminato della strada" e di garantire "la pubblica incolumità in quanto posta a servizio del letto alluvionale".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

 
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Appalti pubblici: l'atto che costituisce la prestazione di garanzia non può presentare contraddizioni o ambiguità tali che il garante possa opporre alla stazione appaltante limitazioni alla garanzia prestata

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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Negli appalti pubblici, l'atto che costituisce la prestazione di garanzia non può presentare contraddizioni o ambiguità tali che il garante possa opporre alla stazione appaltante limitazioni alla garanzia prestata ovvero eccezioni tali da frustrare la finalità stessa della previsione normativa. Pertanto, quando la polizza non consenta con immediatezza di ritenere assolta la garanzia prevista dall'art. 75 del codice - cioè senza che si renda necessario un lavorio interpretativo in ordine all'individuazione dell'esatta portata soggettiva ed oggettiva del patto contrattuale - deve ritenersi violata la relativa prescrizione della legge di gara (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17 ottobre 2012, n. 5340; Id., sez. V, 13 febbraio 2013, n. 861). Per continuare nella lettura della sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Pianificazione urbanistica: i principi giurisprudenziali consolidati sull'onere di motivazione gravante sulla Pubblica Amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha ribadito i principi già espressi dalla giurisprudenza in relazione all’esercizio del potere di pianificazione urbanistica ed alla natura della motivazione delle scelte in tal modo effettuate Il potere di pianificazione urbanistica, a maggior ragionein considerazione della sua ampia portata in relazione agli interessi pubblici e privati coinvolti, così come ogni potere discrezionale, non è sottratto al sindacato giurisdizionale, dovendo la pubblica amministrazione dare conto, sia pure con motivazione di carattere generale, degli obiettivi che essa, attraverso lo strumento di pianificazione, intende perseguire e, quindi, della coerenza delle scelte in concreto effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti (Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2012 n. 2710). Il sindacato giurisdizionale, peraltro – a fronte di scelte espressive di ampia discrezionalità tecnica dell’amministrazione – oltre che alla verifica di eventuali vizi di incompetenza e di violazione di legge, deve intendersi esercitabile nei limiti del riscontro della assenza di figure sintomatiche di eccesso di potere afferenti alla logicità e ragionevolezza delle scelte complessivamente effettuate dall’amministrazione, onde evitare un non ammesso sindacato "di merito" in ordine alle determinazioni da questa assunte. Tanto affermato sul piano generale, occorre ricordare che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte predette, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata" (Cons. Stato, sez. IV, 3 novembre 2008 n. 5478), così come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione (Cons. Stato, n. 2710/2012 cit.). Come questa Sezione ha già avuto modo di affermare (Cons. Stato, sez. IV, 8 giugno 2011 n. 3497), con considerazioni che devono intendersi riconfermate nella presente sede: "le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorchè la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale. In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute". Occorre ancora osservare che la motivazione delle scelte urbanistiche è sufficientemente espressa in via generale ed è desumibile sia dai documenti di accompagnamento all’atto di pianificazione urbanistica, sia dalla coerenza complessiva delle scelte effettuate dall’amministrazione comunale. Inoltre, come accade nei casi in cui la decisione finale è rimessa dal legislatore ad un organo collegiale (a maggior ragione quando il collegio si presenta come "virtuale" e "imperfetto"), la motivazione di questa difficilmente può essere desunta da un unico "documento" sul quale si definisce e manifesta l’esercizio della potestà discrezionale dell’amministrazione (sia pure nelle forme previste per l’espressione di tale "volontà"), redatto dal medesimo organo collegiale. Al contrario, è del tutto ragionevole che tale volontà, oltre che desumersi dal dibattito in seno all’organo e da eventuali documenti (ordini del giorno, mozioni e simili, puntualmente messi in votazione ed approvati), si estrinsechi anche (e soprattutto) per il tramite di documenti tecnici redatti da organi ed uffici diversi, tuttavia sottoposti all’esame ed alla adozione del decidente, decisione a sua volta variamente integrata dall’avviso della Regione in sede di definitiva approvazione dello strumento urbanistico.. E ciò a maggior ragione laddove un organo come il consiglio comunale non si limiti a definire un generale indirizzo politico – amministrativo dell’ente cui è legato da rapporto di immedesimazione, ma debba effettuare concrete scelte di pianificazione urbanistica che, se esprimono in generale una "visione" dello sviluppo della comunità e del suo territorio, si sostanziano "a valle" in puntuali definizioni (zonizzazioni) del territorio e delle sue potenzialità, che abbisognano di una rappresentazione tecnico-giuridica e grafica, che certamente travalica le competenze dell’organo decidente. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Compiti del commissario ad acta: il Consiglio di Stato affronta i nodi irrisolti dell’ottemperanza alle sentenze restitutorie di aree occupate e utilizzate dalla pubblica amministrazione a seguito di procedure espropriative divenute illegittime

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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Il reclamo proposto offre il destro alla Quarta Sezione del Consiglio di Stato di affrontare alcuni nodi irrisolti sul tema dell’ottemperanza alle sentenze restitutorie in materia di aree occupate e utilizzate dalla pubblica amministrazione a seguito di procedure espropriative divenute illegittime.1. Il primo tema riguarda i compiti del commissario ad acta, messi a confronto con le ordinarie attribuzioni dell’amministrazione e con le residue attribuzioni a questa spettanti. La vicenda scaturisce dalla circostanza che il commissario, insediandosi, ha nominato un responsabile del procedimento per lo svolgimento degli atti necessari alla restituzione delle aree, richiamandosi espressamente alla disciplina generale del procedimento amministrativo e ritenendo, in tal modo, di essere rimasto nelle proprie competenze. Ritiene la Sezione che la questione debba essere scrutinata tenendo presente la struttura bifasica di tale vicenda, dove si assiste all’intersecarsi di due procedure, quella processuale dell’ottemperanza al giudicato e quella procedimentale di svolgimento dell’ordinaria funzione amministrativa, che si pongono su piani diversi, astrattamente non incompatibili, ma in concreto spesso contrastanti. Va immediatamente evidenziato come la disciplina del codice del processo amministrativo, chiarendo il ruolo del commissario ad acta, ha espressamente precisato che questi è un ausiliario del giudice, nominato al fine esplicito di sostituire l’amministrazione (art. 21 dove si legge che il giudice "se deve sostituirsi all'amministrazione, può nominare come proprio ausiliario un commissario ad acta"). Ne discende che la fattispecie dell’esecuzione tramite commissario risulta costruita in modo del tutto differenziato da quella dell’esecuzione tramite la riedizione del potere amministrativo, essendo diversi il potere esercitato (nel primo caso, discendente dalla sentenza e limitato temporalmente dall’actio iudicati; nel secondo, derivante dalle attribuzioni normative dell’ente e tendenzialmente immanente), il soggetto titolare (nel primo caso, l’ausiliario del giudice come regolato nel codice del processo amministrativo; nel secondo, il responsabile secondo la legge sul procedimento) e il regime degli atti adottati (nel primo caso, disciplinato dal codice anche nei suoi profili impugnatori; nel secondo, dalla normativa generale). Insomma, due ordini operativi e normativi del tutto distinti. In linea teorica è quindi del tutto concepibile che, in una fattispecie di esecuzione, si trovino ad agire sia il commissario ad acta sia il responsabile del procedimento, trattandosi di due figure che rilevano in ambiti ontologicamente differenti. Tuttavia, quando dall’astratta compatibilità, si ricada in situazioni in cui i provvedimenti assunti siano tra loro contrastanti, è evidente che dovrà prevalere l’azione del commissario che, come espressamente afferma il codice del processo amministrativo, sostituisce, e quindi esautora, l’amministrazione nell’adozione degli atti in concreto. Il chiarimento sulla diversa portata dei compiti dei soggetti agenti e sulle ipotetiche reciproche interferenze delle discipline processuale e procedimentale deve essere ora riversata nella fattispecie oggetto di esame. Venendo allora al primo tema, le osservazioni svolte portano a escludere che sia compito del commissario ad acta insediato quello di procedere a nominare un responsabile del procedimento amministrativo. Infatti, in quanto ausiliario del giudice, il commissario ha egli stesso il dovere di provvedere (come dice l’art. 21, è il commissario il sostituto dell’amministrazione, e non l’amministrazione il sostituto di se stessa) e quindi non ha il potere di ulteriormente subdelegare, se non autorizzato dal giudice stesso, visto che la fonte del potere esercitato deriva unicamente dalla sentenza o dall’atto di nomina, ossia dal complesso normativo del processo e non dal piano disciplinare della legge n. 241 del 1990. Tale inquadramento, oltre a rendere del tutto irrilevante la valutazione della censura proposta sulla mancata partecipazione al procedimento da parte dell’interessato, che non ha fondamento in relazione alla natura giurisdizionale dell’azione del commissario, rende palese come la nomina operata dal commissario ad acta di un responsabile del procedimento appaia illegittima in sé, perché data in assenza di una formale attribuzione. Delle possibili conseguenze di tale illegittimità ne vanno qui esaminate solo due. In ordine al regime degli atti del responsabile del procedimento, appare arduo far discendere automaticamente dall’illegittimità della nomina anche l’illegittimità derivata di tutti i provvedimenti assunti. Deve, infatti, ricordarsi che il responsabile del procedimento è figura generale dell’azione amministrativa, per cui il Comune avrebbe comunque dovuto nominarlo per procedere alla restituzione dell’area, originariamente disposta dalla sentenza di cognizione di questa Sezione. Pertanto, sebbene la detta nomina si sia avuta in assenza di un’effettiva autorizzazione, essa ha comunque trovato sede nell’ambito del canone ordinario di azione dell’amministrazione, così impedendo che gli atti compiuti dal responsabile del procedimento possano considerarsi ex se invalidi per il solo anomalo modus procedendi. Qualora la nomina non sia contestata sotto altri profili (e in specie sotto quelli che riguardano l’idoneità soggettiva del nominato responsabile), deve valorizzarsi il profilo d’imputazione diretta degli atti all’amministrazione, rendendo quindi recessivo il profilo delle modalità di scelta. L’eventuale invalidità degli atti compiuti dovrà pertanto fondarsi su una loro connotazione patologica oggettiva, e non sic et simpliciter dalla circostanza che la nomina sia stata fatta dal commissario. In ordine all’operato del commissario, deve evidenziarsi come la conseguenza giuridica di questa iniziativa si collochi su un piano diverso da quello dell’invalidità degli atti e attenga al riconoscimento del compenso spettante, poiché il commissario, essendosi avvalso senza autorizzazione di ausiliari, non potrà essere retribuito per mansioni effettivamente svolte da terzi. 1.2. - Il secondo tema da valutare attiene all’avvenuta interruzione del procedimento di cui all’art. 42 bis del testo unico sull’espropriazione, interruzione causata proprio dall’insediamento del commissario ad acta. Deve cioè valutarsi se nel caso in esame l’amministrazione avrebbe potuto legittimamente continuare o meno nella procedura di acquisizione. Osserva la Sezione, riprendendo le osservazioni in merito alla differenza del piano processuale rispetto a quello procedimentale, che la detta interruzione non avesse alcuna ragione d’essere, ben potendo il Comune continuare nel peculiare procedimento ivi disciplinato. A tal fine va osservato come si sia oramai consolidato l’insegnamento per cui l’ente pubblico possa procedere al recupero della legittimità violata secondo una serie di scansioni derivanti dall’ordinamento, ben note al Comune di Olbia, parte del procedimento da cui è scaturita la sentenza n. 4970 del 2 settembre 2011 di questa Sezione dove si legge: "l'amministrazione può legittimamente apprendere il bene facendo uso unicamente dei due strumenti tipici, ossia il contratto, tramite l'acquisizione del consenso della controparte, o il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie. L'illecita occupazione, e quindi il fatto lesivo, permangono quindi fino al momento della realizzazione di una delle due fattispecie legalmente idonee all'acquisto della proprietà, indifferentemente dal fatto che questo evento avvenga consensualmente o autoritativamente. A questi due strumenti va altresì aggiunto il possibile ricorso al procedimento espropriativo semplificato, già previsto dall'art. 43 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità" ed ora, successivamente alla sentenza della Corte costituzionale, 8 ottobre 2010, n. 293, che ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, nuovamente regolamentato all'art. 42 bis dello stesso testo, come introdotto dall'articolo 34, comma 1, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98 "Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria", convertito in legge 15 luglio 2011 n. 111". In questo ventaglio di opportunità, si collocano le diverse possibilità offerte al commissario ad acta e alla stessa amministrazione, le cui attribuzioni vanno qui esaminate, in particolare vagliando la possibilità che sia l’ausiliario del giudice, in sostituzione dell’ente pubblico, a poter provvedere a norma dell’art. 42 bis. La Sezione non ignora come sia rinvenibile in giurisprudenza un orientamento che addirittura impone al commissario ad acta di attivarsi in tal senso (Consiglio di Stato, sez. VI, 1 dicembre 2011, n. 6351), ma intende evidenziare le ragioni che fanno apparire impraticabile tale soluzione, sulla scorta di una ricostruzione istituzionale dei poteri del giudice in merito. Infatti, se è vero che, in sede di ottemperanza, il giudice amministrativo può sostituire l’amministrazione anche nelle scelte che toccano il merito dell’azione, è anche vero che il giudizio di ottemperanza altro non è che il portato esecutivo del giudizio di cognizione. Quindi, se è pacifico che il giudice dell’ottemperanza è vincolato dal contenuto della sentenza da eseguire, è del pari evidente che la sentenza di cognizione ottemperanda è a sua volta legata ai limiti dati dalla domanda proposta dalla parte in sede di ricorso introduttivo. Si tratta cioè di un rapporto di successiva delimitazione e progressiva messa a fuoco, dal quale non si può prescindere se non dimenticando le interconnessioni tra i vari momenti del processo. Trasponendo tali lineari considerazioni nel caso concreto dell’esecuzione di sentenza di annullamento di una procedura espropriativa, si è di fronte ad una vicenda così riassumibile: la domanda posta è una domanda demolitoria degli atti espropriativi; l’accoglimento della domanda, cui consegue l’annullamento della procedura e il contestuale riconoscimento della mancata acquisizione alla mano pubblica della proprietà, comporta l’obbligo della restituzione del bene illegittimamente sottratto; stante l’inerzia dell’amministrazione, il giudice dell’ottemperanza deve muoversi con i poteri di merito e nell’ambito dei limiti della domanda proposta e accolta. Appare quindi arduo immaginare che, di fronte alla domanda introdotta in giudizio e ivi considerata fondata, ossia alla domanda di declaratoria d’illegittimità della procedura espropriativa, il giudice dell’ottemperanza, chiamato dal ricorrente insoddisfatto a conseguire quanto ha diritto, decida nel senso di ordinare all’amministrazione di provvedere ex art. 42 bis. Si assisterebbe alla singolare situazione per cui lo stesso giudice, che in sede di cognizione ha ritenuto che il bene dovesse essere restituito al legittimo proprietario, in sede di ottemperanza ordinerà invece all’amministrazione di impossessarsi dello stesso bene, anzi addirittura la sostituirà, mandando un suo ausiliario a mettere in atto tale proposito. Un tale anomalo esito, della cui coerenza con l’art. 24 della Costituzione è lecito dubitare, può essere invece superato se si tiene presente che l’unico obbligo scaturente dalla sentenza è quello di restituzione del bene, mentre le altre opzioni (come esaurientemente indicate nella citata sentenza n. 4970 del 2 settembre 2011) sono rimesse alle scelte dell’amministrazione, visto che si pongono su un piano diverso da quello dell’esecuzione del giudicato (in questo senso, Consiglio di Stato, IV, 30 settembre 2013, n. 4868). La Sezione non ignora che, a seguito delle modifiche intervenute in tema di quantificazione delle indennità e dei risarcimenti spettanti a seguito di procedure espropriative illegittime, gli interessi economici delle parti possano seguire percorsi diversi da quelli immaginati originariamente dal legislatore, tanto da far ritenere vantaggioso per gli espropriati il ricorso alla procedura di cui all’art. 42 bis, ma proprio la maggiore incidenza economica di tale provvedimento impone che sia lasciata all’amministrazione la ponderazione comparativa delle alternative disponibili (e seppure non potendo non sottolineare come, nel caso in esame, la sproporzione tra la prima determinazione del valore venale considerato nella perizia depositata il 23 settembre 2005 – pari a €. 350 al mq - e quella proposta con l’atto di avvio del procedimento di acquisizione sanante – oscillante tra le somme di €. 156,94 e €. 104,63 al mq – non abbia certo favorito la soluzione della controversia). Pertanto, tirando le fila del discorso, il commissario ad acta ha il compito di restituire, nella sua materialità, il bene appreso, mentre spetta all’amministrazione valutare le ulteriori ipotesi di riconduzione a diritto della fattispecie illegittima, con lo strumento consensuale contrattuale come pure con lo strumento autoritativo, ambito in cui si colloca il procedimento accelerato di cui all’art. 42 bis. Appare pertanto del tutto non condivisibile l’operato del commissario ad acta e quello dell’amministrazione che hanno interrotto, basandosi sul mero fatto dell’insediamento dell’ausiliario del giudice, il diverso procedimento di acquisizione sanante, ossia di una tipologia di azione amministrativa non intaccata dal giudicato formatosi. Per continuare nella lettura della sentenza cliccare su "Accedi al provvedimento".

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Il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l’immobile è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti

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Il permesso di costruire ed il certificato di agibilità, sono collegati a presupposti diversi e danno vita a conseguenze disciplinari non sovrapponibili. Infatti, il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l’immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle normetecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti (come espressamente recita l’art. 24 del Testo unico dell’edilizia), mentre il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo edilizio. Il che comporta che i diversi piani ben possano convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell’edificio ad entrambe le tipologie normative, sia in quella patologica di una loro divergenza (per cui, correttamente il primo giudice ha ricordato episodi giurisprudenziali in cui si è affermata l’illegittimità del diniego della agibilità motivato unicamente con la difformità dell’immobile dal progetto approvato – Consiglio di Stato, sez. V, 6 luglio 1979 n. 479 – oppure, in senso opposto, l’irrilevanza del rilascio del certificato di agibilità come fatto ostativo al potere del sindaco di reprimere abusi edilizi – id., 3 febbraio 1992 n. 87 – o alla revoca di un eventuale precedente ordine di demolizione delle opere – id., 15 aprile 1977 n. 335). Dato questo inquadramento, va condivisa, nel suo valore generale, la fondatezza dell’eccezione preliminare proposta, atteso che il provvedimento ex art. 24 del TUED, strettamente vincolato nei sui presupposti, non potrebbe comunque non essere rilasciato, poiché qui non è stata posta in discussione la conformità dell’immobile realizzato con la disciplina in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti. Va però notato come, nel caso in esame, il detto certificato di agibilità contenga una clausola del tutto estranea al disposto del citato art. 24, atteso che il rilascio viene giustificato "per il tempo necessario e condizionatamente agli esiti definitivi (passaggio in giudicato), dei procedimenti avviati nelle sedi giurisdizionali competenti, connessi a contenzioso legale in essere. Tale contenzioso, come noto all’ufficio ed alla stessa ICAI s.r.l., ha ad oggetto l’accertamento del diritto di servitù sul tratto di viabilità, individuata nella pratica edilizia D.I.A. prot. 12780 del 09/03/2004, dalla S.P. 231 alla proprietà ICAI s.r.l. Ove mai l’esito definitivo dei surrichiamati contenziosi dovesse vedere soccombente la ICAI s.r.l., la presente attestazione di agibilità sarà annullata, rimanendo comunque valido il titolo abilitativo edilizio, essendo il lotto ICAI s.r.l., come da atti abilitativi edilizi rilasciati, servito dalla originaria viabilità di accesso". Si tratta di una condizione del tutto abnorme, atteso che, da un lato, costituisce una deviazione rispetto allo schema tipico del provvedimento come disegnato dalla normativa primaria, ossia dal citato art. 24, e quindi si pone come accessorio lesivo del principio di tipicità degli atti amministrativi e, dall’altro, da vita ad un accertamento di fatto e ad una statuizione amministrativa che è contemporaneamente e singolarmente lesiva di entrambe le parti in questioni: è lesiva per la C.M.C. s.r.l. in quanto di fatto trasferisce sul certificato di agibilità delle valutazioni che il Comune avrebbe dovuto compiere (ed in maniera più incisiva) in relazione alla decadenza del permesso di costruire; ed è lesiva anche per la I.C.A.I. s.r.l. perché introduce un fattore temporale su un’attestazione, quella di agibilità, alla quale poteva avere accesso in forma piana ed incondizionata.

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Appalti pubblici: la nomina della commissione giudicatrice dopo la scadenza del termine fissato per la presentazione delle offerte, è posta a presidio dell’imparzialità della procedura di gara

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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La nomina della commissione giudicatrice dopo la scadenza del termine fissato per la presentazione delle offerte, è posta a presidio dell’imparzialità della procedura di gara, onde evitare possibili collusioni tra commissari e concorrenti ed è espressione dei più generali principi di imparzialità edi trasparenza (cfr. Cons. St., Sez. V, 22/03/2011 n. 1784). Con riguardo alla funzione e agli obiettivi della disposizione di cui all’articolo 84 del Codice dei contratti, l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, con sentenza n. 13 del 7 maggio 2013, ha chiarito che la regola, attualmente codificata dall’articolo 84, comma 10, del d.lgs. n. 163/2006, della necessaria posteriorità della nomina dei componenti della commissione di gara rispetto alla scadenza del termine fissato per la presentazione delle offerte, deve ritenersi espressione di un principio di ordine generale, rispondendo ad esigenze di buona amministrazione e imparzialità dell’attività della p.a. In pratica, la posticipazione della nomina dovrebbe garantire parità di condizioni tra i concorrenti, evitando condizionamenti e collusioni di sorta. L’Adunanza Plenaria ha, pertanto, definitivamente chiarito che le regole contenute nell’articolo 84 sui "tempi" della formazione e sulla "regolare composizione" di un organo amministrativo, in quanto poste a tutela della correttezza del procedimento, della trasparenza e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, devono ritenersi espressione di un principio generale del codice. Nel caso di specie, invece, risulta dal verbale della riunione del 10 agosto 2012, data nella quale è stata disposta l’esclusione della ricorrente, che la commissione composta da tre membri fosse stata nominata con ordine di servizio n. 20 del 12 luglio 2012, cioè ben prima della scadenza del 27 luglio 2012 prevista dal bando per la presentazione delle offerte.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

 
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Subappalto necessario: il Consiglio di Stato risolve la vexata quaestio se l’art. 118, comma 2, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 imponga già in sede di presentazione delle offerte l’individuazione e l’indicazione nominativa dei subappaltatori

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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La controversia in esame concerne l’impugnazione della sentenza del T.A.R. Puglia, sede di Bari, n. 859 del 2013, che ha affrontato la vexata quaestio se l’art. 118, comma secondo, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 imponga già in sede di presentazione delle offerte l’individuazione e l’indicazione nominativa dei subappaltatori, per il caso in cui la concorrente risulti sfornita in proprio della qualificazione per le lavorazioni che dichiara di voler subappaltare, ovvero per il caso di subappalto c.d. "necessario". I primi giudici hanno ritenuto che l’art. 118 del Codice dei contratti pubblici e gli artt. 92, 108 e 109 del D.P.R. n. 207 del 2010, consentano ai concorrenti che siano sprovvisti della relativa qualificazione di subappaltare i lavori rientranti nelle categorie non prevalenti e scorporabili, fermo restando l’obbligo di riservarne l’esecuzione a soggetti in possesso della corrispondente attestazione SOA; in quest’ipotesi, afferma il giudice di primo grado, quando il subappalto è utilizzato come strumento d’integrazione della qualificazione, espressamente il legislatore ha preteso unicamente che l’importo delle categorie subappaltate debba essere compensato attraverso un corrispondente incremento della qualificazione nella categoria prevalente, senza richiedere anche l’indicazione del nominativo del subappaltatore in fase di gara, in quanto l’art. 118 del regolamento si limita a richiedere al concorrente l’indicazione della volontà di subappaltare, rimandando alla successiva fase di esecuzione dei lavori il deposito del contratto di subappalto e la certificazione dei requisiti di qualificazione e di quelli generali, di cui all’art. 38 del decreto legislativo n. 163/2006, in capo alle imprese subappaltatrici, a differenza di quanto accade nell’avvalimento con riguardo all’ausiliaria (che non rappresenta un soggetto terzo rispetto alla gara, dovendosi essa impegnare sia verso l’impresa concorrente sia - solidalmente - verso la stazione appaltante). Reputa, tuttavia il Collegio, in accoglimento delle tesi esposte dall’appellante, che l’art. 118, co. 2, del D.Lgs. n. 163/2006 sottopone l’affidamento in subappalto alla condizione, fra le altre, che i concorrenti all’atto dell’offerta abbiano indicato i lavori o le parti di opere ovvero i servizi e le forniture o parti di servizi e forniture che intendono subappaltare o concedere in cottimo. Secondo la giurisprudenza prevalente, la disposizione – che non richiede espressamente l’indicazione preventiva del nominativo del subappaltatore – va peraltro interpretata nel senso che la dichiarazione in questione deve contenere anche l’indicazione del subappaltatore unitamente alla dimostrazione del possesso, in capo a costui, dei requisiti di qualificazione, ogniqualvolta il ricorso al subappalto si renda necessario a cagione del mancato autonomo possesso, da parte del concorrente, dei necessari requisiti di qualificazione, potendo essere limitata alla mera indicazione della volontà di concludere un subappalto nelle sole ipotesi in cui il concorrente disponga autonomamente delle qualificazioni necessarie per l’esecuzione delle lavorazioni oggetto dell’appalto, ossia nelle sole ipotesi in cui il ricorso al subappalto rappresenti per lui una facoltà, non la via necessitata per partecipare alla gara (cfr. Cons. St., sez. V, 21 novembre 2012, n. 5900; id., sez VI, 2 maggio 2012, n. 2508; id., sez. V, 20 giugno 2011, n. 3698). L’affermazione appare pienamente coerente con lo speculare e consolidato indirizzo giurisprudenziale che circoscrive i casi di legittima esclusione del concorrente autore di una incompleta o erronea dichiarazione di subappalto alle sole ipotesi in cui il concorrente stesso risulti sfornito in proprio della qualificazione per le lavorazioni che ha dichiarato di voler subappaltare, mentre negli altri casi gli unici effetti negativi si avrebbero in fase esecutiva, sotto il profilo dell’impossibilità di ricorrere al subappalto come dichiarato (cfr., per tutte, Cons. St., sez. V, 26 marzo 2012, n. 1726; id., sez. IV, 30 ottobre 2009, n. 6708; id., sez. IV, 12 giugno 2009, n. 3696). La ratio di tale orientamento – che il Collegio ritiene di dover condividere, non ravvisando valide argomentazioni per discostarsene – risiede nell’esigenza, ricavabile in via sistematica, che la stazione appaltante sia posta in condizione di valutare sin dall’inizio l’idoneità di un’impresa, la quale dimostri di possedere in proprio, o attraverso l’apporto altrui, le qualificazioni necessarie per l’aggiudicazione del contratto, mentre non può ammettersi che l’aggiudicazione venga disposta "al buio" in favore di un soggetto pacificamente sprovvisto dei necessari requisiti di qualificazione, al quale dovrebbe accordarsi la possibilità non soltanto di dimostrare, ma addirittura di acquisire i requisiti medesimi a gara conclusa, in violazione del principio della par condicio e con il rischio per l’amministrazione procedente che l’appaltatore così designato non onori l’impegno assunto, rendendo necessaria la ripetizione della gara (cfr., in particolare, Cons. St., n. 5900/2012 e 2508/2012, citt.). Non convince, di contro, l’opposto orientamento, abbracciato dal giudice di prime cure ed invocato dalla difesa degli appellati, pure emerso in giurisprudenza, che, sulla scorta del dato testuale, non rinviene nell’art. 118 D.Lgs. n. 163/2006 alcun obbligo di indicare – tantomeno a pena di esclusione – il nominativo dell’impresa subappaltatrice, ancorché si tratti di lavorazioni per le quali la concorrente sia priva di qualificazione; e rifiuta, di conseguenza, la possibilità che la stessa legge di gara debba ritenersi di volta in volta eterointegrata dalla previsione di un siffatto, inesistente, obbligo (così Cons. St., sez. V, 16 gennaio 2012, n. 139). La lettera dell’art. 118 è, infatti, compatibile, come già osservato, con la sola ipotesi "fisiologica" in cui il partecipante alla gara, essendo autonomamente in possesso dei requisiti di aggiudicazione, può riservarsi per la fase esecutiva del contratto la facoltà di subappaltare una parte delle lavorazioni; nel caso in cui il subappalto rappresenti, invece, lo strumento per acquisire requisiti obbligatori mancanti, la riserva sul nome del subappaltatore finisce per collidere con la ragion d’essere e con il funzionamento del sistema di qualificazione delineato dal legislatore, tale apparente contraddizione dovendo allora essere superata facendo ricorso a criteri sistematici e teleologici che valorizzino, piuttosto, la funzione e i limiti connaturati all’istituto del subappalto, attraverso il quale non possono eludersi le norme tassative sul possesso dei requisiti di partecipazione alla gara. Non può dirsi d’altro canto, come, invece, erroneamente ritenuto dai primi giudici, che, aderendo all’opzione ermeneutica che distingue il subappalto "facoltativo" da quello "necessario", ne risulti violato il principio di tassatività delle cause di esclusione sancito dall’art. 46 co. 1-bis del D.Lgs. n. 163/2006. Nell’accezione sostanzialista fatta propria dall’Adunanza Plenaria con la sentenza 7 giugno 2012, n. 21, il principio di tassatività va inteso nel senso che l’esclusione dalle gare possa essere disposta non nei soli casi in cui disposizioni del codice o del regolamento la prevedano espressamente, ma anche nei casi in cui dette disposizioni impongano adempimenti doverosi ai concorrenti o candidati, pur senza prevedere una espressa sanzione di esclusione: e fra tali ipotesi rientra senz’altro quella del possesso dei titoli di qualificazione indispensabili per l’esecuzione dei lavori oggetto dell’appalto. Merita, tuttavia, una espressa confutazione l’obiezione con cui si lamenta che la tesi, sin qui seguita dal Collegio, erroneamente finirebbe per equiparare il subappalto all’avvalimento sotto il profilo della qualificazione. A riguardo, va richiamata quella consolidata giurisprudenza (Cons. St. Sez. IV, 30.10.2009, n. 6708; 12.6.2009, n. 3696; 22.9.2008, n. 4572) che, nel circoscrivere i casi di esclusione dell’impresa offerente che abbia dichiarato di volersi avvalere di un subappaltatore alle sole fattispecie in cui essa non disponga della qualificazione in relazione ai lavori interessati dal subappalto, implicitamente ammette che, legittimamente, l’offerente possa ricorrere al subappalto proprio allo scopo di integrare requisiti di qualificazione di cui non sia in possesso. Peraltro, senza negare le differenze strutturali che intercorrono tra l’avvalimento, istituto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, recepito dall’art. 47 della direttiva 2004/18/CE e trasfuso nell’art. 49 del decreto legislativo n. 163 del 2006, volto a consentire ad un imprenditore il possesso mediato ed indiretto dei requisiti di partecipazione ad una gara, ed il subappalto, contratto secondario o derivato, posto "a valle" del contratto di appalto ed attinente alla sua esecuzione, devono rilevarsi numerosi profili della disciplina di cui agli artt 37, comma 11 e 118 del codice sui contratti pubblici che, sotto il profilo funzionale, possono essere considerati indici di un sostanziale inserimento del subappalto tra gli strumenti idonei a garantire la maggiore concorrenza tra gli operatori economici e l’allargamento del mercato, nella prospettiva propria dell’art. 47 della direttiva 2004/18, al pari dell’avvalimento. Tra questi meritano rilievo: l’inserimento del subappalto tra gli strumenti che consentono la realizzazione di lavori ad elevato contenuto tecnologico da parte di soggetti affidatari non in grado di eseguirli nell’art. 37, disciplinante i raggruppamenti temporanei; l’obbligo a carico dei concorrenti, all’atto dell’offerta, di indicare i lavori o le parti di opere che intendono subappaltare, con la conseguenza, in caso di mancata indicazione, che l’autorizzazione al subappalto non potrà essere accordata; l’obbligo di deposito presso la stazione appaltante del contratto di appalto e della certificazione attestante il possesso da parte del subappaltatore dei requisiti di qualificazione prescritti in relazione alla prestazione subappaltata oltre alla dichiarazione relativa al possesso dei requisiti di ordine generale; l’insussistenza nei confronti del subappaltatore dei divieti previsti dall’art. 10 della legge n. 575/1965 e successive modificazioni; l’autorizzazione al subappalto da parte della stazione appaltante, previa verifica dei requisiti in capo al subappaltatore; la possibilità che la stazione appaltante stabilisca nel bando di gara di corrispondere direttamente al subappaltatore l’importo dovuto per le sue prestazioni; l’obbligo per il subappaltatore di praticare per le prestazioni affidate in subappalto gli stessi prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione; la responsabilità solidale dell’appaltatore degli adempimenti da parte del subappaltatore relativi agli obblighi di sicurezza. Si tratta di disposizioni e condizioni che, nell’intento di ridurre i margini di autonomia del rapporto appaltatore – subappaltatore, attraendolo sotto il controllo diretto della stazione appaltante ed imponendo il rispetto di regole di trasparenza volte a scongiurare i rischi di aggiramento della disciplina dell’evidenza pubblica tramite il subingresso di un soggetto diverso da quello scelto tramite la gara, tendono a stabilire una relazione diretta tra committente e subappaltatore. Nel contempo esse soddisfano la finalità dell’art. 47, p.2 della direttiva 2004/18/CE («Un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi. In tal caso deve dimostrare alla amministrazione aggiudicatrice che disporrà dei mezzi necessari, ad esempio mediante presentazione dell’impegno a tal fine di questi soggetti») , già sottolineata dalla giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia C.E. 2.12.1999, n. 176), di consentire all’autorità aggiudicatrice la verifica delle capacità dei terzi ai quali un prestatore, che non soddisfi da solo i requisiti minimi prescritti per partecipare alla procedura di aggiudicazione di un appalto, intenda ricorrere, con lo scopo di fornire garanzia che l’offerente avrà effettivamente a disposizione i mezzi di cui si avvarrà durante il periodo di durata dell’appalto "a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami" con l’ausiliario e, quindi, anche in virtù di un contratto di subappalto. Correttamente, quindi, va considerato il subappalto come strumento negoziale che, pur differenziandosi dall’avvalimento sotto il profilo strutturale, ha tuttavia in comune la funzione di allargare la possibilità di partecipazione alle gare da parte di soggetti sforniti dei requisiti di partecipazione..........L’art. 118, co. 2, D.Lgs. n. 163/2006, infatti, prescrive che "i concorrenti" debbano rendere la dichiarazione "all’atto dell’offerta". Riferendosi la norma rispettivamente al "concorrente" e all’ "offerta" la dichiarazione di subappalto non può che essere resa al momento della partecipazione alla gara vera e propria che, nelle procedure ristrette quale quella in questione si ha dopo l’invito a partecipare e, quindi, dopo la fase di prequalifica. In effetti, ove il legislatore avesse inteso anticipare la sede ed il tempo in cui rendere la dichiarazione di subappalto, avrebbe operato un riferimento non già ai "concorrenti", ma ai "candidati" (tali sono gli operatori che chiedono di poter partecipare ad una procedura ristretta) ed alla domanda di partecipazione (che precede l’invito a partecipare alla gara vera e propria e, quindi, la presentazione delle offerte).

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Edilizia: il potere di vigilanza del Comune ex art. 27 del testo unico può essere svolto senza limiti di tempo

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Confermata dal Consiglio di Stato la sentenza del giudice di prime cure laddove ha affermato che "il potere di vigilanza in materia edilizia che compete all’amministrazione comunale ex art. 27 del testo unico può essere svolto senza limiti di tempo"; coerente con questo principio è quindi la non previsione nel nostro ordinamento di " un obbligo generalizzato della autorità amministrativa di procedere a sopralluogo per accertare la reale esistenza dei luoghi in ogni pratica amministrativa sottoposta alla sua attenzione; i provvedimenti che sono rilasciati senza questa verifica diretta dei luoghi e sulla base della sola rappresentazione degli stessi fornita dalla parte si intendono pertanto rilasciati con una clausola implicita rebus sic stantibus, e possono senz’altro essere annullati o revocati nel momento in cui si verifica l’esistenza di una situazione diversa da quella descritta dalla parte". Per scaricare gratuitamente la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Espropriazione per pubblica utilità: al privato, proprietario di un'area sottoposta a procedimento espropriativo per la realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, con comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione sulla sua localizzazione prima dell'approvazione del progetto definitivo

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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Per costante ed incontroversa giurisprudenza (ex aliis Cons. Stato Sez. IV, 21-08-2013, n. 4229)"al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica , deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell' avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo."Contrariamente a quanto sostenutosi nell’appello, peraltro, una imponente produzione giurisprudenziale amministrativa ha sempre costantemente dato atto della circostanza che la necessità dell'avviso di avvio del procedimento amministrativo (nel caso di specie si trattava dell’adozione di provvedimenti di annullamento) costituisca affermazione pacifica e consolidata nella giurisprudenza amministrativa.Secondo tale corrente giurisprudenziale "la preventiva comunicazione di avvio del procedimento rappresenta un principio generale dell'agere amministrativo (T.A.R. Campania Salerno Sez. I, 12-07-2011, n. 1276).La materia relativa alle procedure di espropriazione per pubblica utilità non costituisce certo eccezione a detto approdo della giurisprudenza: ed anzi, come è noto, un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato (cfr. Ad. Plen. 20 dicembre 2002, n. 8; 24 gennaio 2000, n. 2; 15 settembre 1999, n. 14), dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, ha affermato il principio, generale ed inderogabile, per cui al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica, dev'essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo.Con più stringente riferimento alla fattispecie per cui è causa, poi, di recente la giurisprudenza di questa Sezione del Consiglio di Stato ha avuto modo di ribadire il detto principio, essendosi affermato che ( Cons. Stato Sez. IV, 09-12-2010, n. 8688) costituisce principio generale ed inderogabile dell'ordinamento vigente che al privato, proprietario di un'area sottoposta a procedimento espropriativo per la realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo, né sarebbe invocabile come esimente dal dovere in questione il disposto dell'art. 13, comma 1, l. 7 agosto 1990 n. 241, in quanto detta norma si riferisce ai soli atti a contenuto generale, mentre l'intesa tra lo Stato e la Regione sulla localizzazione di un'opera di interesse statale non consiste in un documento di pianificazione territoriale, ma produce l'effetto puntuale e specifico dell'individuazione dell'ubicazione dell'intervento (oltre a valere come dichiarazione di pubblica utilità) e si rivela, come tale, idonea ad incidere, in maniera immediata, sugli interessi dei soggetti proprietari del terreno interessato dalla sua realizzazione, con evidenti implicazioni sulla partecipazione di questi al relativo procedimento.Analoghe conclusioni si traggono dalle disposizioni specifiche contenute nel TU Espropriazioni.Sotto il profilo strettamente letterale, infatti, le espresse disposizioni di cui agli artt. 11 (". Al proprietario, del bene sul quale si intende apporre il vincolo preordinato all'esproprio, va inviato l'avviso dell'avvio del procedimento:a) nel caso di adozione di una variante al piano regolatore per la realizzazione di una singola opera pubblica, almeno venti giorni prima della delibera del consiglio comunale;b) nei casi previsti dall'articolo 10, comma 1, almeno venti giorni prima dell'emanazione dell'atto se ciò risulti compatibile con le esigenze di celerità del procedimento.L'avviso di avvio del procedimento è comunicato personalmente agli interessati alle singole opere previste dal piano o dal progetto. Allorché il numero dei destinatari sia superiore a 50, la comunicazione è effettuata mediante pubblico avviso, da affiggere all'albo pretorio dei Comuni nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo, nonché su uno o più quotidiani a diffusione nazionale e locale e, ove istituito, sul sito informatico della Regione o Provincia autonoma nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo. L'avviso deve precisare dove e con quali modalità può essere consultato il piano o il progetto. Gli interessati possono formulare entro i successivi trenta giorni osservazioni che vengono valutate dall'autorità espropriante ai fini delle definitive determinazioni.La disposizione di cui al comma 2 non si applica ai fini dell'approvazione del progetto preliminare delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi ricompresi nei programmi attuativi dell'articolo 1, comma 1, della legge 21 dicembre 2001, n. 443.Ai fini dell'avviso dell'avvio del procedimento delle conferenze di servizi in materia di lavori pubblici, si osservano le forme previste dal decreto del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, n. 554.Salvo quanto previsto dal comma 2, restano in vigore le disposizioni vigenti che regolano le modalità di partecipazione del proprietario dell'area e di altri interessati nelle fasi di adozione e di approvazione degli strumenti urbanistici.") e 16 comma 4 ("Al proprietario dell'area ove è prevista la realizzazione dell'opera è inviato l'avviso dell'avvio del procedimento e del deposito degli atti di cui al comma 1, con l'indicazione del nominativo del responsabile del procedimento") del D.P.R. 8-6-2001 n. 327 congiurano nel fare ritenere il detto obbligo assolutamente cogente ed inderogabile in armonia con i principi affermati dalla Cedu e ben recepiti a più riprese da questo Consiglio di Stato.Non appare il caso di immorare vieppiù sul punto, se non per rimarcare, a fini di coerenza sistematica, che (d.Lgs. 12-4-2006 n. 163, art. 166) il detto obbligo è prescritto anche nel caso di opere strategiche, (si veda sul punto Cons. Stato Sez. IV n. 4230/2013)per cui esso costituisce principio non dequotabile (comma 2 della in ultimo citata disposizione: " "l’avvio del procedimento di dichiarazione di pubblica utilità è comunicato dal soggetto aggiudicatore, o per esso dal concessionario o contraente generale, ai privati interessati alle attività espropriative ai sensi della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni; la comunicazione è effettuata con le stesse forme previste per la partecipazione alla procedura di valutazione di impatto ambientale dall'articolo 5 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 agosto 1988, n. 377. Nel termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione di avvio del procedimento, i privati interessati dalle attività espropriative possono presentare osservazioni al soggetto aggiudicatore, che dovrà valutarle per ogni conseguente determinazione. Le disposizioni del presente comma derogano alle disposizioni degli articoli 11 e 16 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327.".). Ovviamente – non è superfluo rammentarlo – perché possa produrre l’effetto di pubblicità cui l’incombente è ricollegato, il detto avviso dell’avvio del procedimento non può che essere inviato dall’autorità procedente, come espressamente affermato ex art. 16 del dPR n. 327/2001 laddove il combinato disposto dei commi 1 e quattro rende evidente che l’avviso dell’avvio che assume rilievo debba necessariamente promanare dall’ Autorità procedente, non altrimenti potendosi intendere l’inequivocabile riferimento ivi contenuto al soggetto "responsabile del procedimento" ("Il soggetto, anche privato, diverso da quello titolare del potere di approvazione del progetto di un'opera pubblica o di pubblica utilità, può promuovere l'adozione dell'atto che dichiara la pubblica utilità dell'opera. A tale fine, egli deposita pressa l'ufficio per le espropriazioni il progetto dell'opera, unitamente ai documenti ritenuti rilevanti e ad una relazione sommaria, la quale indichi la natura e lo scopo delle opere da eseguire, nonché agli eventuali nulla osta, alle autorizzazioni o agli altri atti di assenso, previsti dalla normativa vigente.In ogni caso, lo schema dell'atto di approvazione del progetto deve richiamare gli elaborati contenenti la descrizione dei terreni e degli edifici di cui è prevista l'espropriazione, con l'indicazione dell'estensione e dei confini, nonché, possibilmente, dei dati identificativi catastali e con il nome ed il cognome dei proprietari iscritti nei registri catastali.L'autorizzazione rilasciata ai sensi dell'articolo 15 consente anche l'effettuazione delle operazioni previste dal comma 2.Al proprietario dell'area ove è prevista la realizzazione dell'opera è inviato l'avviso dell'avvio del procedimento e del deposito degli atti di cui al comma 1, con l'indicazione del nominativo del responsabile del procedimento.").Ed in passato la disposizione predetta è stata interpretata esattamente in tal modo (T.A.R. Sicilia Catania Sez. III Sent., 27-03-2007, n. 540 "la norma dell'art. 16 del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 modificato dalla L. 1 agosto 2002 n. 185, ai commi 4 e seguenti prevede che al proprietario dell'area ove è prevista la realizzazione dell'opera va inviato l' avviso dell' avvio del procedimento e del deposito degli atti, con l'indicazione del nominativo del responsabile del procedimento e se la comunicazione prevista dal comma 4 non ha luogo per irreperibilità o assenza del proprietario risultante dai registri catastali, il progetto può essere ugualmente approvato. Infatti se risulta la morte del proprietario iscritto nei registri catastali e non risulta il proprietario attuale, la comunicazione di cui al comma 4 è sostituita da un avviso , affisso per venti giorni consecutivi all'albo pretorio dei comuni interessati e da un avviso pubblicato su uno o più quotidiani a diffusione nazionale e locale. Il comma 9 dispone espressamente che l' autorità espropriante non è tenuta a dare alcuna comunicazione a chi non risulti proprietario del bene. Conseguentemente l'indicazione del soggetto direttamente inciso dalla procedura ablatoria va individuato sulla scorta dei dati catastali, secondo un criterio già contenuto nell'art. 10 L. n. 865/1971, e tenuto fermo dagli artt. 11 e 16 del D.P.R. n. 327/2001; pertanto, vigendo un sistema di oggettiva conoscibilità da parte della p.a. del soggetto su cui grava il carico della procedura ablatoria, non è ipotizzabile che tale norma imponga al soggetto pubblico di accertare l'esistenza di altri proprietari al fine di estendere anche ad altri soggetti la partecipazione procedimentale").

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

 
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Per costante ed incontroversa giurisprudenza (ex aliis Cons. Stato Sez. IV, 21-08-2013, n. 4229)"al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione, siccome interessata dalla realizzazione di un'opera pubblica , deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell' avviso di a ... Continua a leggere

 

Non e' causa di esclusione dalla gara l'omessa espressione in lettere dei prezzi unitari se il concorrente ha correttamente espresso in cifre e in lettere gli importi totali e la percentuale di ribasso

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

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La Quinta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha confermato la statuizione del Giudice di prime cure a tenore della quale né il bando di gara né l'art. 90 D.P.R. n. 554/99 considerano quale causa di esclusione la mancata espressione in lettere dei prezzi unitari laddove il concorrente abbia, come nel caso di specie, correttamente espresso in cifre e in lettere, gli importi totali e la percentuale di ribasso. Ad avviso del Collegio, infatti, merita condivisione, al riguardo, l’orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato, Sez. V, 30 ottobre 2003, n. 6767) a tenore del quale "il dato decisivo di riferimento per la determinazione dei prezzi unitari è rappresentato dal ribasso percentuale, in base al quale non solo si identifica l'offerta (comma 6), ma si effettua la correzione delle eventuali discordanze tra i prezzi unitari, comunque indicati, e la detta percentuale, adeguandoli a quest'ultima" (Cons. St., Sez. V, 30 ottobre 2003, n. 6767). Merita rimarcare che l'art. 90, comma 7, del d.P.R. n. 554 del 1999, coerentemente con quanto prescritto nel comma 6, considera quale dato essenziale per la determinazione dei prezzi unitari il ribasso percentuale. In base a detto ribasso, infatti, non solo si identifica l'offerta (comma 6), ma si effettua la correzione delle eventuali discordanze tra i prezzi unitari, comunque indicati, e la detta percentuale, con correlativo adeguamento dei primi alla seconda (Cons. St., Sez. V, 30 ottobre 2003, n. 6767). Se, dunque, può convenirsi che la prescrizione regolamentare circa l’indicazione in cifre e lettere dei prezzi unitari è destinata a presidiare un interesse pubblico alla chiarezza dell'offerta, emerge con certezza dal dato testuale citato l’irrilevanza degli eventuali errori commessi nella redazione dell'offerta per quanto concerne i prezzi unitari, in quanto se ne prevede la correzione alla stregua della percentuale di ribasso nelle gare per l'affidamento di appalti di lavori pubblici. L’omessa indicazione in lettere dei prezzi unitari non può essere infatti considerata infrazione più grave dell'eventuale discordanza con il dato in cifre, posto che il dato mancante (o errato) può essere ricavato (o corretto), in entrambi i casi, con la semplice operazione matematica di applicazione della percentuale di ribasso. Si deve quindi fare applicazione, nel caso in esame, dei noti principi giurisprudenziali che, nella materia, impongono di valutare la portata di una clausola del bando che, come nella specie, commina l'esclusione in termini generali e onnicomprensivi, alla stregua dell'interesse che la norma violata è destinata a presidiare e, ove non sia ravvisabile la lesione di un interesse pubblico effettivo e rilevante, accordano la preferenza al favor partecipationis. Va inoltre ribadita l’opzione ermeneutica (abbracciata da Cons. Stato, sez. V, 22 aprile 2004, n. 2321) alla stregua della quale "si può tenere per valida un'offerta che presenti un contenuto, bensì rideterminabile in via legale, ma comunque esistente mentre non vi è invece alcuno spazio per l'operatività del medesimo principio qualora il meccanismo sostitutivo approntato dall'ordinamento postuli, per la sua attivazione, la preesistenza di un qualche oggetto giuridico, id est l'indicazione dei prezzi unitari", che invece nella presente fattispecie sono stati indicati. Per continuare nella lettura della sentenza cliccare su "Accedi al provvedimento".

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La Quinta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha confermato la statuizione del Giudice di prime cure a tenore della quale né il bando di gara né l'art. 90 D.P.R. n. 554/99 considerano quale causa di esclusione la mancata espressione in lettere dei prezzi unitari laddove il concor ... Continua a leggere

 

DURC: l'attestazione di regolarità contributiva della aggiudicataria vincola l’amministrazione appaltante che non può esimersi dal procedere all’aggiudicazione definitiva dell'appalto in suo favore

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza breve del Consiglio di Stato Sez. V

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Il documento unico di regolarità contributiva è una dichiarazione di scienza che si colloca fra gli atti di certificazione o di attestazione aventi carattere meramente dichiarativo di dati in possesso dell’ente, assistiti da pubblica fede ai sensi dell’articolo 2700 c.c. e facenti pertanto prova fino a querela di falso; le inesattezze o gli errori contenuti in detto contenuto, investendo posizioni di diritto soggettivo, possono essere corretti solo dal giudice ordinario o all’esito della proposizione della querela di falso o a seguito di un’ordinaria controversia in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria (Cons. St., sez. V, 17 maggio 2013, n. 2682). L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 8 del 4 maggio 2012 ha tra l’altro precisato quanto al contenuto del d.u.r.c. che "la valutazione compiuta dagli enti previdenziali sia vincolante per le stazioni appaltanti e preclusa, ad esse, una valutazione autonoma" e che "…la mancanza di d.u.r.c. comporta una presunzione legale iuris et de iure di gravità delle violazioni previdenziali", enunciando poi il principio di diritto secondo cui "ai sensi e per gli effetti dell’art. 38, comma 1, lett. i), d. lgs. n. 163 del 2006, anche nel testo vigente anteriormente al d.l. n. 70 del 2011, secondo cui costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e assistenziale, la nozione di "violazione grave" non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina del documento unico di regolarità contributiva; ne consegue che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni (d.u.r.c.) si impongono alle stazioni appaltanti che non possono sindacarne il contenuto". Ciò posto, stante la (più volte) attestata regolarità contributiva della aggiudicataria l’amministrazione appaltante non avrebbe potuto esimersi dal procedere all’aggiudicazione definitiva in sua favore dell’appalto di cui trattasi, non avendo alcun potere di valutazione di fatti o circostanze, quali quelli evidenziati dalla società appellante, che il documento unico di regolarità contributiva non ha ritenuto rilevanti; ad analoghe conclusioni deve giungersi anche con riguardo ai poteri del giudice amministrativo che, in virtù della natura certificatoria e del valore fidefaciente del contenuto del predetto documento unico di regolarità contributiva non può liberamente apprezzare fatti e circostanze asseritamente indici di irregolarità contributiva, fermo restando ovviamente la facoltà della parte interessata di far eventualmente valere nelle competenti sedi giudiziarie la falsità materiale o ideologica del contenuto del predetto documento. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Certificazione SOA: non può essere invocato Il potere di soccorso per sostituire con una nuova certificazione in corso di validità quella scaduta presentata all’atto di presentazione della domanda di partecipazione alla gara

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza breve del Consiglio di Stato Sez. V

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La Quinta Sezione del Consiglio di Stato, nella controversia in esame, ha ritenuto priva di fondamento la doglianza concernente la asserita violazione da parte dell’amministrazione del c.d. dovere di soccorso, atteso che, secondo un consolidato e condivisibile indirizzo giurisprudenziale, quest’ultimo è invocabile solo per rimediare ad irregolarità ed incompletezza parziali delle dichiarazioni, che siano state comunque ritualmente presentate in sede di gara, e non già per sostituire con una nuova certificazione in corso di validità quella scaduta presentata all’atto di presentazione della domanda di partecipazione alla gara, come vorrebbe l’appellante, ciò costituendo un’inammissibile violazione del principio della par condicio dei concorrenti, tanto più che la clausola del bando di gara in questione (art. XI) non presenta alcuna macroscopica ambiguità, in equivocità od incertezza sull’obbligo di presentazione della certificazione SOA "…del soggetto che partecipa come consorzio stabile". Per continuare nella lettura della sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Paesaggio: l'incidenza delle opere di rilevante impatto ambientale non e' limitata dalla sua semplice perimetrazione fisica consentita dalle indicazioni contenute nel decreto di vincolo

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI

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Quando vengono in rilievo opere infrastrutturali di grande impatto visivo ( cfr., sia pure in relazione alla procedura di v.i.a. la sentenza di questa sezione 26 marzo 2013 n. 1674) il paesaggio, quale bene potenzialmente pregiudicato dalla realizzazione di opere di rilevante impatto ambientale, simanifesta in una proiezione spaziale più ampia di quella riveniente dalla sua semplice perimetrazione fisica consentita dalle indicazioni contenute nel decreto di vincolo. In altri termini, il paesaggio si manifesta in tali casi quale componente qualificata ed essenziale dell’ambiente, nella lata accezione che di tale bene giuridico ha fornito l’evoluzione giurisprudenziale, anche di matrice costituzionale (tra le tante, Corte Cost. 14 novembre 2007, n. 378).

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Appalti: le tabelle ministeriali recanti il costo della manodopera sono un parametro di riferimento dal quale è possibile discostarsi in sede di giustificazione dell’anomalia dell'offerta

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

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Relativamente ai costi di manodopera, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato, ribadisce nella sentenza in esame l’orientamento (Cons. Stato Sez. IV, 23-07-2012, n. 4206 ) per cui, se è vero che le tabelle ministeriali recanti il costo della manodopera espongono dati non inderogabili, esse assolvono tuttavia una funzione di parametro di riferimento dal quale è possibile discostarsi, in sede di giustificazione dell’anomalia, solo sulla scorta di una dimostrazione puntuale e rigorosa. Per scaricare gratuitamente la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Anomalia dell'offerta: e' inammissibile la richiesta di consulenza tecnica d’ufficio tendente ad una nuova valutazione sull’anomalia in sostituzione di quella operata dall’amministrazione

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

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Per consolidato orientamento l’attività di giudizio in cui si estrinsecano le valutazioni della commissione in sede di valutazione dell’anomalia dell’offerta ha carattere essenzialmente tecnico ed è finalizzata non già alla ricerca di singole inesattezze dell’offerta, ma ad accertare la sua attendibilità o inattendibilità nel suo complesso, affinchè offra sufficienti garanzie di affidabilità ai fini della corretta esecuzione dell’appalto. A fronte di tale tipo di discrezionalità, il sindacato giurisdizionale attiene principalmente ad un controllo di tipo estrinseco, ossia limitato alla valutazione di figure sintomatiche di eccesso di potere per travisamento dei fatti, arbitrarietà, carenza o illogicità della motivazione ed è volto ad accertare che questa sia congrua e dettagliata e dia conto di tutti gli elementi dell’offerta e delle ragioni per le quali essa venga considerata inattendibile, mentre può essere esteso a profili intrinseci solo quando venga in rilievo un vizio che attiene alla palese scorrettezza dell’operazione tecnica o del procedimento applicativo eseguiti (ex multis, Cons. Stato Sez. IV, 30.5.2013, n. 2956 Sez. V, 18-4-2012, n. 2257; 22-2-2011, n. 1090; Sez. IV, 22-03-2005, n. 1231). Non può, quindi, aderirsi alla tesi dell’appellante per cui il giudice di primo grado avrebbe interpretato riduttivamente il proprio ruolo, negando effettività di tutela alla posizione del ricorrente. Vero è, al contrario, che il tribunale ha esaminato le doglianze in relazione al giudizio espresso dalla Commissione sulle sei articolazioni dell’offerta ed alla valutazione complessiva di inattendibilità seguendo le coordinate sopra indicate ed applicando il solo limite costituito dal divieto di sostituzione nella valutazione tecnica compiuta dalla Commissione, del tutto pacifico. Tale considerazione vale a respingere anche la richiesta di consulenza tecnica d’ufficio in quanto tendente inammissibilmente a provocare una nuova valutazione sull’anomalia dell’offerta in sostituzione di quella operata dall’amministrazione (Cons. Stato Sez. IV; 21-05-2008, n. 2404; Sez. VI, 3-05-2002, n. 2334). Per continuare nella lettura della sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Per consolidato orientamento l’attività di giudizio in cui si estrinsecano le valutazioni della commissione in sede di valutazione dell’anomalia dell’offerta ha carattere essenzialmente tecnico ed è finalizzata non già alla ricerca di singole inesattezze dell’offerta, ma ad accertare la sua attendi ... Continua a leggere

 

Gare di appalto: il giudizio con punteggio numerico della commissione sulla completezza degli elaborati progettuali riguardanti l'offerta e' attività riservata all'amministrazione sindacabile solo per macroscopici vizi logici e di irragionevolezza

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

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La Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza in esame rileva in generale che nelle gare di appalto il giudizio espresso dalla commissione sulla completezza degli elaborati progettuali riguardanti l'offerta, che si traduca nell'attribuzione di un punteggio numerico, costituisce attività riservata all'amministrazione in quanto altamente discrezionale e sindacabile in sede giurisdizionale esclusivamente in presenza di macroscopici errori di fatto ovvero di illogicità ed irragionevolezza manifesta. Con l’effetto che il ricorrente che impugni tale giudizio deve indicare specifiche circostanze ed elementi di fatto non opinabili da cui sia possibile desumere che la commissione sia effettivamente incorsa in macroscopici vizi logici e di irragionevolezza, dovendosi escludere, da parte giudice, valutazioni riservate all'amministrazione finalizzate ad una diversa valutazione del progetto presentato.

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La Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza in esame rileva in generale che nelle gare di appalto il giudizio espresso dalla commissione sulla completezza degli elaborati progettuali riguardanti l'offerta, che si traduca nell'attribuzione di un punteggio numerico, costituisce attività ri ... Continua a leggere

 

Gare pubbliche: niente caccia all'errore, l’inosservanza di una regola formale può assumere valenza escludente solo quando incida sui contenuti della dichiarazione

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

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L’art. 46, comma 1, del d.lgs. n. 163 del d.lgs. n. 163 del 2006 reca una norma di principio in base alla quale le "stazioni appaltanti invitano, se necessario, i concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti o dichiarazioni presentati". Si tratta di previsione che, nel settore delle pubbliche gare, è volta a soddisfare il principio di più ampia partecipazione delle imprese alla selezione e che, al contempo, orienta le stazioni appaltanti, a fronte di una pluralità di adempimenti ed oneri di carattere formale posti a carico di chi aspira all’affidamento della commessa pubblica, verso la verifica su un piano di concretezza ed effettività dei requisiti di partecipazione e della capacità dei concorrenti. L’art 46, primo comma, innanzi richiamato è, a sua volta, una specificazione dell’istituto di carattere generale che si rinviene all’art. 6, comma 1, della legge n. 241 del 1990, in base al quale responsabile del procedimento, nello svolgimento dell’attività istruttoria e di accertamento d’ufficio dei fatti e dei presupposti del provvedere, "in particolare può chiedere il rilascio e la rettifica di dichiarazioni o istanze ritenute erronee e incomplete". Quanto precede in un logica recessiva della c.d. caccia all’errore che si risolva in preclusione del favorevole esito del concorso; con la conseguenza che l’inosservanza di una regola formale può assumere valenza escludente solo quando incida sui contenuti della dichiarazione, impedendo il risultato utile cui è indirizzata l’azione amministrativa, piuttosto che sulle regole formali della sua esternazione. Nel caso di specie l’attestazione di conformità all’originale delle copie prodotte era già contenuta ob relationem nella nota di trasmissione del 18 dicembre 2012. Con essa fa sistema la dichiarazione resa ai sensi degli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000 allegata a detta nota, che reca il riferimento soggettivo al rappresentante dell’impresa a l’assunzione di responsabilità. In tale contesto ricorre la ratio delle disposizioni normative prima richiamate, tese a consentire l’integrazione e rettifica di certificazioni documenti che, se incompleti negli aspetti formali, recano in sé tutti gli elementi contenutistici in ordine ai quali deve attestarsi il potere di verifica e controllo della stazione appaltante. Il c.d. soccorso istruttorio dà, quindi, prevalenza all’interesse primario all’affidamento dell’appalto al miglior offerente e valorizza il principio di conservazione della fasi procedimentali pregresse.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

 
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L’art. 46, comma 1, del d.lgs. n. 163 del d.lgs. n. 163 del 2006 reca una norma di principio in base alla quale le "stazioni appaltanti invitano, se necessario, i concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti o dichiarazioni presentati". Si trat ... Continua a leggere

 

Espropriazione in assenza di titolo: il Consiglio di Stato esamina i rapporti tra il potere acquisitivo postumo, attribuito all’amministrazione dall’art. 43 T.U. espropri prima, e dall’art. 42 bis dopo, rispetto ad un giudicato che ordini la restituzione dell’immobile

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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La vicenda devoluta al Consiglio di Stato solleva una serie di questioni giuridiche attinenti al rapporto tra il giudicato ed il potere residuo dell’amministrazione, agli effetti delle statuizioni caducatorie della Corte Costituzionale sugli atti amministrativi emanati in forza di legge incostituzionale, ed ancora, ai modi di introduzione delle stesse in ambito processuale ove l’atto sia impugnato in ragione di vizi diversi da quello dell’incostituzionalità della norma attributiva del potere, questioni che si estendono, infine, sul versante della giurisdizione, alla reale portata della diversa formulazione normativa dell’art. 42 bis rispetto a quanto previsto dalla norma previgente. In particolare il Consiglio di Stato nella sentenza in esame al fine della risoluzione della controversia in esame esamina preliminarmente i rapporti tra il potere acquisitivo postumo, attribuito all’amministrazione dall’art. 43 prima, e dall’art. 42 bis dopo, rispetto ad un giudicato che ordini la restituzione dell’immobile in quanto espropriato in assenza di titolo. La tesi dell’appellante è che, avendo l’amministrazione esercitato il potere di cui all’art. 43 cit. espressamente menzionato dal giudice, sia pur in termini di salvezza, nel contesto della condanna alla restituzione, il provvedimento di acquisizione costituirebbe una modalità di esecuzione del giudicato, della cui legittimità e correttezza avrebbe dovuto conoscere il giudice dell’ottemperanza (ossia il Consiglio di Stato) e non il giudice di primo grado in sede di legittimità. La tesi non può essere condivisa, e questo qualunque sia la fonte attributiva del potere che venga in rilievo: sia cioè essa rinvenibile nell’art. 43, se in quanto validamente applicabile ratione temporis, ovvero, sia essa costituita dall’art. 42 bis in quanto applicabile alle fattispecie pregresse, ivi comprese quelle conseguenti alla (per ora solo ipotizzata) sopravvenuta invalidità dei provvedimenti di cui all’art. 43 per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2010. Entrambe le norme fondano infatti un potere amministrativo che trova le sue ragioni nell’illecita occupazione di un immobile da parte dell’ amministrazione, in presenza di ragioni di pubblico interesse che ne sconsigliano la restituzione al legittimo proprietario. L’art. 42 bis, invero, non si cura di regolare i rapporti tra azione restitutoria e ragioni di pubblico interesse che si frappongano al suo accoglimento, a differenza di quanto invece faceva l’art. 43, il quale riconosceva all’amministrazione la possibilità di paralizzare l’azione in favore di una tutela esclusivamente risarcitoria (così garantendo proiezione processuale a quell’interesse che in sede amministrativa avrebbe comunque giustificato l’acquisizione postuma). Tuttavia, sia l’una che l’altra norma attribuiscono all’amministrazione un potere che affonda le sue radici nella situazione di illiceità sopra citata, in vista di un equo e peculiare contemperamento degli interessi idoneo a preservare il pregnante interesse pubblico all’utilizzo del bene, elidendo, al contempo, qualsivoglia pregiudizio per ciò prodottosi nella sfera giuridica del proprietario. La parentesi giudiziaria, in quanto utile ad accertare l’inesistenza o l’invalidità del titolo, è dunque parte della fattispecie complessa che determina il sorgere dell’autonomo potere amministrativo di acquisizione, e non già vincolo al suo esercizio. Il giudice può pertanto essere adito in sede di ottemperanza solo nell’ipotesi in cui l’amministrazione non restituisca il bene immobile, né provveda all’emanazione del provvedimento di acquisizione, ma non quando la stessa, all’esito di una rinnovata ed autonoma valutazione degli interessi in conflitto, decida di acquisire al suo patrimonio indisponibile il bene in forza dei poteri espressamente riconosciutigli dall’ordinamento. L’emanazione del provvedimento di acquisizione non è cioè un tentativo di sottrarsi agli obblighi di restituzione derivanti dal giudicato, quanto piuttosto l’esercizio di un potere che trova proprio nel decisum le ragioni della sua esistenza. Ne consegue che delle contestazioni in ordine alla sua legittimità conosce il giudice della cognizione e non quello dell’ottemperanza, salva, ovviamente, l’ipotesi in cui l’atto promani dal commissario ad acta già nominato per l’ottemperanza (in tal caso, infatti, il disposto dell’art. 114 sembra operare una concentrazione della tutela nella sede dell’ottemperanza). Più complesso è il secondo aspetto che invece concerne le determinazioni amministrative adottate sulla base di legge successivamente dichiarata incostituzionale. E’ il tema della cd invalidità sopravvenuta. Invero una tale definizione contiene suggestioni che è bene escludere sin da subito dal campo di indagine: i provvedimenti amministrativi, in ragione delle evidenti esigenze di certezza dell’ordinamento, sono assistiti da una presunzione di validità, superabile solo ove la contestazione intervenga nei ristretti termini decadenziali previsti dalla legge, ed il giudice, in accoglimento della domanda pronunci sentenza demolitoria (l’illegittimità, invero, può essere accertata a fini risarcitori a prescindere dai termini di decadenza, ma tale accertamento non refluisce sulla validità del provvedimento). In tal senso, il provvedimento amministrativo non impugnato ben può considerarsi atto di autoritativa ed esauriente regolazione del rapporto, non più controvertibile, finanche in ipotesi di sopravvenuta invalidità della legge che ne abbia fondato o disciplinato l’emanazione. La sopravvenuta caducazione della legge non vale dunque ad invalidare anche i provvedimenti amministrativi che ne abbiano fatto incontestata applicazione. Probabilmente l’affermazione necessiterebbe di precisazioni e distinguo in ordine ai quei provvedimenti che hanno efficacia prolungata, poiché in tal caso il rapporto, caratterizzato da comportamenti dilazionati nel tempo, è sorretto da una regolazione che presuppone continuità ed attualità della validità, secondo uno schema che è poco compatibile con i concetto di "rapporti esauriti". Il caso di specie tuttavia concerne un atto ad efficacia istantanea, quale sicuramente è l’acquisizione coattiva di un bene immobile al patrimonio indisponibile dell’amministrazione, id est, un atto al quale non sopravvive un rapporto, per essere la situazione giuridica del privato definitivamente ed esaurientemente modificata (le facoltà del nuovo proprietario "pubblico" non sono infatti giustificate dal continuum della regolazione autoritativa, ma dal titolo che è irretrattabilmente sorto dalla pregressa regolazione). Diverso è il caso in cui il provvedimento amministrativo sia stato tempestivamente impugnato, e proprio in ragione dell’incostituzionalità derivata che lo vizia, atteso che il giudice non fa altro che esaminare un vizio ritualmente stigmatizzato dal ricorrente, decidendo sulla base del quadro normativo come risultante dall’intervento della Corte Costituzionale ab initio evocato. 2.4 Se quanto appena detto appare sufficientemente piano, dubbi invece si addensano ove il provvedimento sia tempestivamente impugnato per motivi diversi dalla sua presunta incostituzionalità derivata. In via generale, se è pur vero che l’atto sub iudice non può considerarsi regolazione di un rapporto esaurito, è del pari innegabile che il processo amministrativo da luogo ad un giudizio a critica vincolata, e che fra le critiche astrattamente prospettabili vi sono anche quelle che censurano profili di compatibilità costituzionale delle norme che disciplinano o attribuiscono il potere, non potendo il giudice sostituirsi alla parti nell’individuazione di motivi di illegittimità. Né può dirsi che il potere del giudice di dubitare ex officio della legittimità costituzionale di una norma rilevante ai fini del decidere, sia elemento di per sé sufficiente ad individuare censure virtuali immanenti al processo, sempre giustificanti l’applicazione retroattiva degli effetti caducatori della pronuncia di incostituzionalità. Può tuttavia ammettersi che i vizi di incostituzionalità vengano dedotti dal ricorrente nel corso del giudizio amministrativo, a seguito ed in ragione del sopravvenire dell’intervento caducatorio del Giudice delle leggi. Dal punto di vista dogmatico questo non dovrebbe porre problemi poiché se la retroattività degli effetti demolitori è consentita dall’ordinamento nel giudizio amministrativo a quo (ossia nel giudizio in cui è sollevata questione di legittimità costituzionale) ciò significa che le esigenze di effettività della tutela giurisdizionale (tempestivamente invocata) prevalgono rispetto al principio tempus regit actum ed alla generale efficacia pro futuro delle pronunce della Corte, tutte le volte in cui la legge si pone in contrasto con i valori e le disposizioni costituzionali. Se quanto appena detto è vero, allora, la prevalenza delle esigenze di effettività della tutela giurisdizionale non può essere esclusa negli altri giudizi in cui il vizio di costituzionalità possa essere ancora ritualmente introdotto. ....Com’è noto la nullità inficia radicalmente l’atto, e per questo, accanto ad un azione di accertamento sottoposta a regime decadenziale dilatato, il codice del processo ha previsto che la nullità dell’atto possa "sempre essere rilevata d’ufficio dal giudice". La previsione normativa non può avere altro significato che l’attribuzione al giudice, analogamente a quanto previsto per le nullità civilistiche, di un potere di rilievo ufficioso a presidio di un interesse generale all’eliminazione dall’ordinamento di fattispecie pubblicistiche radicalmente in contrasto con lo stesso. E nel giudizio amministrativo di legittimità, a differenza che in quello civile, il potere di rilievo è utilmente esercitabile nell’interesse (anche del ricorrente), proprio, se non esclusivamente, nelle ipotesi di sopravvenienza del vizio, atteso che, in via generale, il carattere meramente giuridico della modificazione autoritativa della posizione giuridica del privato, il termine di decadenza, e l’identità di effetti della declaratoria di nullità rispetto alla sentenza di annullamento, finiscono per svuotare di contenuto la previsione, rendendo di fatto impraticabile il potere ufficioso di rilievo della nullità. Ben poteva, dunque, il giudice di primo grado considerare - come ha fatto - la memoria prodotta dal ricorrente, quale mera sollecitazione all’esercizio di un potere ufficioso legittimamente esercitabile. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

 
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La vicenda devoluta al Consiglio di Stato solleva una serie di questioni giuridiche attinenti al rapporto tra il giudicato ed il potere residuo dell’amministrazione, agli effetti delle statuizioni caducatorie della Corte Costituzionale sugli atti amministrativi emanati in forza di legge incostituzi ... Continua a leggere

 

Il bando di gara o di concorso, o la lettera di invito vanno immediatamente impugnati se contengono clausole impeditive dell’ammissione dell’interessato alla selezione

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

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Nella sentenza il Consiglio di Stato ha ribadito che "..cio’ che appare decisivo ai fini della affermazione dell’onere di immediata impugnazione delle clausole che prescrivono requisiti di partecipazione, è non soltanto il fatto che esse manifestano immediatamente la loro attitudine lesiva, ma il rilievo che le stesse…risultino non condizionate dal suo svolgimento e perciò in condizioni di ledere immediatamente e direttamente l’interesse sostanziale del soggetto che ha chiesto di partecipare alla gara e alla procedura concorsuale" (Cons. Stato, III 24 maggio 2013 n.2841) configurandosi il successivo atto di esclusione come meramente dichiarativo e ricognitivo di una lesione già prodotta (Cons. Stato, III, 16 ottobre 2013 n.5035). Per la recente Adunanza Plenaria inoltre "..i bandi di gara e di concorso e le lettere di invito vanno di regola impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione dal momento che sono questi ultimi ad identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento ed a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell’interessato; a fronte, infatti, della clausola illegittima del bando di gara o del concorso, il partecipante alla procedura concorsuale non è ancora titolare di un interesse attuale all’impugnazione, dal momento che egli non sa ancora se l’astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito negativo della sua partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in una effettiva lesione della situazione soggettiva che solo da tale esito può derivare. Il bando di gara o di concorso, o la lettera di invito, normalmente impugnabili con l’atto applicativo, conclusivo del procedimento concorsuale, devono tuttavia essere considerati immediatamente impugnabili allorché contengono clausole impeditive dell’ammissione dell’interessato alla selezione" (A.P., 29 gennaio 2013 n.1). Per approfondire scaricare la sentenza cliccando su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

 
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