News 5 Agosto 2014 - Area Tecnica


NORMATIVA

Codice Identificativo di Gara (CIG): l'Autorità Anticorruzione rilascerà il CIG ai comuni non capoluogo di provincia

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Nelle more della conversione in legge del decreto legge n. 90/2014, che prevede il rinvio dei termini dell’entrata in vigore delle disposizioni introdotte dall’art. 9 comma 4, del decreto legge 24 aprile 2014, convertito con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, si comunica che l’Autorità Nazionale Anticorruzione, rilascerà il Codice Identificativo di Gara (CIG) ai comuni non capoluogo di provincia.

 
Note Legali
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Nelle more della conversione in legge del decreto legge n. 90/2014, che prevede il rinvio dei termini dell’entrata in vigore delle disposizioni introdotte dall’art. 9 comma 4, del decreto legge 24 aprile 2014, convertito con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, si comunica che l’Autorit ... Continua a leggere

 

Punti di accesso alla rete postale: l'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni modifica i criteri di distribuzione degli uffici di Poste Italiane

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La problematica della chiusura degli Uffici Postali e' stata più volte attenzionata da ultimo anche dal Consiglio di Stato che a maggio aveva esortato l'Agcom a dettare dei criteri aggiornati di individuazione dei punti di accesso, nell’esercizio dei suoi poteri regolatori (cui si aggiungono quellidi controllo, di vigilanza e sanzionatori), cui "Poste dovrà attenersi, stabilendone la congruità anche in ragione della natura delle aree geografiche interessate e della disponibilità di servizi alternativi validamente fruibili dalla popolazione, specie da quella più anziana e con minori possibilità di movimento".(http://www.gazzettaamministrativa.it/opencms/opencms/_gazzetta_amministrativa/_permalink_news.html?resId=2d4e9f8c-ed5f-11e3-bc49-5b005dcc639c). (http://www.ilquotidianodellapa.it/_contents/news/2014/giugno/1402392396357.html) L'Agcom non si è fatta attendere ed a distanza di due mesi ha adottato la delibera n. 342/14/CONS con la quale sono stati modificati i criteri di distribuzione degli uffici di Poste Italiane. All'Articolo 2 rubricato "Comuni rurali e montani" viene introdotto il divieto di chiusura di uffici postali situati in Comuni rurali che rientrano anche nella categoria dei Comuni montani. Sono esclusi dall'ambito di applicazione del divieto i Comuni nei quali siano presenti più di due uffici postali ed il rapporto abitanti per ufficio postale sia inferiore a 800. Il comma 3 precisa altresì che sono "Comuni rurali", i Comuni con densità abitativa inferiore a 150 ab/km2, secondo i più recenti dati demografici ISTAT, mentre vengono definiti "Comuni montani" i Comuni contrassegnati come totalmente montani nel più recente elenco di Comuni Italiani pubblicato dall'ISTAT. Anche per le "Isole minori" l'art. 3 introduce il divieto di chiusura di uffici postali che sono presidio unico nelle isole minori. Per "isole minori" si intendono le isole, escluse Sicilia e Sardegna, in cui risiedono in maniera permanente almeno 50 abitanti, secondo i più recenti dati demografici ISTAT. Inoltre l'Articolo 4 "Uffici presidio unico di Comune" stabilisce che gli uffici postali presidio unico di Comuni con popolazione residente inferiore a 500 abitanti, ove sia presente entro 3 km un ufficio limitrofo aperto almeno tre giorni a settimana, osservano un'apertura al pubblico non inferiore a due giorni e dodici ore settimanali, garantendo un coordinamento con gli orari di apertura del suddetto ufficio limitrofo, in modo da assicurare la più ampia accessibilità del servizio. L'Articolo 5 poi disciplina la Comunicazione nei confronti degli Enti locali precisando che "gli interventi di chiusura e di rimodulazione oraria degli uffici postali devono essere comunicati da Poste Italiane ai Sindaci dei Comuni interessati, ovvero alla competente articolazione decentrata dell'Amministrazione comunale, con congruo anticipo, almeno 60 giorni prima della data prevista di attuazione dell'intervento" Con cadenza annuale poi Poste Italiane dovrà trasmette all'Autorità un'informativa sugli interventi di chiusura e rimodulazione oraria di uffici postali, pianificati ai sensi dell'art. 2, comma 6 del Contratto di programma, effettivamente attuati nell'anno di riferimento, dando evidenza del contenimento dei costi risultante dall'attuazione degli interventi e specificando le tempistiche di preavviso seguite nei confronti delle Autorità locali nonché gli esiti del confronto con le stesse. Tempo 60 giorni a Poste dalla notificazione della delibera per trasmettere all'Autorità il piano di razionalizzazione degli uffici postali che non garantiscono condizioni di equilibrio economico relativo all'anno in corso. Ai sensi della normativa vigente, il mancato rispetto da parte di Poste Italiane delle disposizioni contenute nella delibera comporta l'applicazione delle sanzioni previste dall'art. 21, comma 1, del d. lgs. n. 261/1999 ovvero "con pena pecuniaria amministrativa da lire dieci milioni a lire cento milioni". Per scaricare la delibera cliccare su " Accedi al Provvedimento".

 
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La problematica della chiusura degli Uffici Postali e' stata più volte attenzionata da ultimo anche dal Consiglio di Stato che a maggio aveva esortato l'Agcom a dettare dei criteri aggiornati di individuazione dei punti di accesso, nell’esercizio dei suoi poteri regolatori (cui si aggiungono quelli ... Continua a leggere

 
GIURISPRUDENZA

Edilizia: e' in palese contrasto con la legge ogni tesi che voglia sottoporre all’esame dell’amministrazione o del giudice amministrativo la verifica della situazione dei luoghi, al fine di escludere la necessità del piano attuativo

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 4.8.2014

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Più volte, sin dagli anni Novanta, il Consiglio di Stato ha affermato che – quando uno strumento urbanistico subordina il rilascio di un titolo edilizio alla previa approvazione di uno strumento attuativo – né in sede amministrativa né in sede giurisdizionale possono essere effettuate indagini sulla situazione dei luoghi per verificare se l’area sia urbanizzata. Una tale regola – già desumibile dalla legge n. 1150 del 1942 – è stata espressamente prevista dall’art. 9 del testo unico sull’edilizia. E’ dunque in palese contrasto con la legge ogni tesi che voglia sottoporre all’esame dell’amministrazione o del giudice amministrativo la verifica della situazione dei luoghi, al fine di escludere la necessità del piano attuativo, previsto dallo strumento urbanistico e che l’art. 9 del testo unico sull’edilizia ha espressamente qualificato come presupposto legale per l’edifiicazione. Neppure risulta fondata la tesi dell’appellante, secondo cui rileverebbe nella specie una ‘pressoché completa edificazione della zona’ addirittura incompatibile con un piano attuativo. In primo luogo, per definizione la previsione della necessità di un piano di recupero mira proprio a far sì che tutte le modifiche della zona in questione si ispirino a criteri omogenei e a una ordinata modifica dei luoghi, per migliorare la vivibilità degli abitanti e per evitare che ognuno faccia ciò che voglia, senza attenersi alle regole volte al miglioramento dell’area. Come ha già rilevato questo Consiglio, l’esistenza di una ‘edificazione disomogenea’ non solo giustifica la previsione urbanistica che subordina la modifica dei luoghi alla emanazione del piano di recupero, ma impone che questo piano vi sia e sia concretamente attuato, per restituire ordine all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di completamento della zona (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 27 aprile 2012, n. 2470). In secondo luogo, questo Consiglio di Stato non può che ribadire quanto già chiarito più volte: è consentito derogare all'obbligo della previa emanazione dello strumento attuativo soltanto nell'ipotesi – per lo più di scuola – in cui per un’area complessivamente edificabile sia satura e si tratti "dell’ultimo lotto" integralmente inserito nel tessuto urbano, vale a dire di un’area di dimensioni limitate e totalmente inserita tra altri edifici. L'esonero dal piano attuativo o da quello di lottizzazione, previsto dal P.R.G. e dalle relative N.T.A., non può avvenire, pertanto, in un caso come quello di specie, esposto al rischio della compromissione di valori urbanistici e in cui la pianificazione urbanistica può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 15 maggio 2002, n. 2592).

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 4.8.2014

 
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Attività di estetista: la messa a disposizione della clientela di lampade UVA è riconducibile all'attività di estetista, che consiste in una qualsiasi prestazione o trattamento eseguito sulla superficie del corpo umano, non solo con tecniche manuali, ma anche con apparecchi elettromeccanici per uso estetico per le quali è necessaria un'autorizzazione comunale rilasciata previa verifica della qualifica professionale degli addetti alle apparecchiature

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 4.8.2014

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Ai sensi dell'art. 1, l. 4 gennaio 1990, n. 1, tuttora in vigore, la messa a disposizione della clientela di un lettino abbronzante è riconducibile all'attività di estetista, in quanto consiste in una prestazione o trattamento eseguito sulla superficie del corpo umano con apparecchi elettromeccanici per uso estetico e richiede l'ottenimento di un'autorizzazione comunale, rilasciata previa verifica della qualifica professionale degli addetti alle apparecchiature al fine di tutelare la salute e la sicurezza di coloro che si sottopongono al trattamento abbronzante. La stessa legge prevede, all'art. 10, comma 1, l'emanazione da parte del Ministro dell'Industria di un decreto recante norme dirette a determinare le caratteristiche tecnico-dinamiche ed i meccanismi di regolazione, nonché le modalità di esercizio e di applicazione e le cautele d'uso degli apparecchi elettromeccanici di cui all'elenco allegato alla legge; ebbene, il previsto decreto di attuazione ha incluso le lampade abbronzanti UVA, senza operare distinzioni di sorta fra macchinari di maggiore o minore semplicità di utilizzo. Come peraltro ha specificato anche di recente la Cassazione civile (sez. III, 2 marzo 2012, n. 3244), la messa a disposizione della clientela di lampade UVA è riconducibile all'attività di estetista, in quanto questa consiste in una qualsiasi prestazione o trattamento eseguito sulla superficie del corpo umano, non solo con tecniche manuali, ma anche con apparecchi elettromeccanici per uso estetico, e richiede l'ottenimento di un'autorizzazione comunale rilasciata previa verifica della qualifica professionale degli addetti alle apparecchiature al fine di tutelare la salute e la sicurezza di coloro che si sottopongono al trattamento abbronzante. Lo svolgimento dell’attività in carenza di tale autorizzazione costituisce illecito amministrativo ed espone chi lo commette all'ordine di sospensione dell'attività nell'attività di estetista, come definita dall'art. 1 l. 4 gennaio 1990, n. 1, che non può essere svolta in assenza del titolo abilitativo previsto dalla legge. Infatti, la messa a disposizione della clientela di lampade UVA richiede il possesso di tale qualifica anche se, nella specie, il cliente le utilizzi direttamente ed autonomamente: chi decide di servirsi di dette apparecchiature ripone infatti un legittimo affidamento sull'esistenza della relativa specializzazione professionale in capo al personale che gestisce l'esercizio. Tra l'altro, la possibilità del cliente di accendere, applicarsi e spegnere il macchinario, non significa che tale macchinario sia a disposizione dell'utenza in una sorta di "fai da te". Anche a voler ammettere che i macchinari di bellezza potrebbero essere acquistati direttamente da qualsiasi cliente ed utilizzati a domicilio, ciò non toglie che allorquando il cliente stesso decida di servirsi di quei medesimi macchinari all'interno di un centro che comunque si rivolga alla cura della persona, egli è autorizzato a presumere una specializzazione professionale in capo al personale che gestisce i locali (altrimenti correndo il rischio, per la propria inesperienza, di arrecare danno a se stesso per il non adeguato uso del macchinario). Ciò comporta che, al contrario dell'uso domestico, ove prevale la necessaria e consapevole autoresponsabilità dell'utente (fermi restando gli obblighi di informativa da allegare al prodotto), nell'ipotesi di fruizione presso strutture dedicate, il cliente può riporre un affidamento di altrui vigilanza tecnica sulle modalità d'uso del macchinario, a prescindere dal fatto che gli sia consentita la personale "gestione" dei comandi base del macchinario stesso; sussiste dunque in tal caso una ragionevole presunzione di consapevolezza che errori, abusi ovvero anche semplici inesattezze di utilizzo, possano essere subito corretti o prevenuti con l'assistenza degli addetti qualificati, pronti ad intervenire in un contesto di doverosa sorveglianza sulla clientela impegnata nelle applicazioni (si pensi al caso di esposizione prolungata ai raggi attraverso imprudenti ripetizioni delle applicazioni stesse). E tali interventi - per la legislazione vigente - vanno effettuati da personale dotato di qualifica di estetista. Peraltro, il fatto che quei macchinari insistano all'interno di un circolo privato non incide sulle considerazioni di cui sopra, atteso che, nella sostanza, offrendo ai soci un trattamento estetico a tutti gli effetti, si pone in essere un’attività che è assimilabile all’esercizio al pubblico di un attività protetta per ragioni di salute e di sicurezza il cui esercizio resta subordinato, per legge, alla sussistenza delle condizioni dell’esistenza di un soggetto munito del titolo professionale di estetista e dell’ottenimento di specifica autorizzazione amministrativa. Del resto, la qualificazione professionale di estetista si intende acquisita mediante il superamento di un esame, preceduto dallo svolgimento di un apposito corso, nell'ambito del quale una delle materie fondamentali di insegnamento tecnico-pratico riguarda, per l'appunto, gli apparecchi elettromeccanici (cfr. art. 6, comma 3, lett. f), l. n. 1-1990) Situazione diversa – che però non potrebbe consentire l’elusione delle disposizioni pubblicistiche - potrebbe prospettarsi nell’ipotesi in cui ciascun socio si porti da casa la propria lampada abbronzante. Nel caso di specie, l’offerta indistinta di lampade UVA concreta nella sostanza un’attività estetica, a prescindere dalla forma giuridica con la quale viene posta in essere, attività che incorre in concreto nelle disposizioni stabilite dalla legge e sopra indicate. Il fatto che l'attività – per quanto espone l’appellante - venisse svolta in modo minoritario e marginale rispetto all'attività principale, peraltro, in nulla svilisce l'antigiuridicità di quelle applicazioni abbronzanti, a prescindere dalla percentuale di rilevanza all'interno del circolo: l'art. 1 della cit. l. n. 1 del 1990 non pone infatti alcun limite minimo sotto il quale legittimare aliunde un'attività svolta in difetto dei dovuti requisiti.

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Revocazione della sentenza: l’errata percezione del giudice deve non solo essere la conseguenza di una falsa percezione dei fatti rilevanti della causa, ma anche essere decisiva, nel senso di costituire il motivo essenziale e determinante della pronunzia impugnata per revocazione

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 4.8.2014

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L'errore di fatto che può dar luogo alla revocazione si sostanzia in una falsa percezione, da parte del giudice, della realtà risultante dagli atti di causa, consistente in una svista materiale che lo abbia indotto ad affermare l'esistenza di un fatto incontestatamente inesistente, oppure a considerare inesistente un fatto la cui verità risulti, al contrario, positivamente accertata. In ambo i casi ciò vale, però, solo se il fatto (erroneo) sia stato un elemento decisivo della pronuncia revocanda: l’errata percezione deve, cioè, aver rivestito un ruolo determinante rispetto alla decisione, nel senso che occorre un rapporto di necessaria causalità tra l'erronea supposizione e la pronuncia stessa (cfr. C.d.S., V, 20/10/2005, n. 5896; 31/7/2008, n. 3816; IV, 19/6/2009, n. 3296). L'errore di fatto idoneo a legittimare la revocazione di una sentenza ai sensi dell'art. 395 c.p.c., n. 4, dunque, deve non soltanto essere la conseguenza di una falsa percezione dei fatti rilevanti della causa, bensì essere anche decisivo, nel senso di costituire il motivo essenziale e determinante della pronunzia impugnata per revocazione, sì che tra la percezione asseritamente erronea da parte del giudice e la decisione emessa deve esistere un nesso causale tale che senza l'errore la pronunzia sarebbe stata diversa (in termini Cass. civ, sez. III, 20/07/2011, n. 15882; nello stesso senso v. anche C.d.S., VI, 22/05/2012, n. 2937; IV, 17/12/2012, n. 6455; cfr., inoltre, Cass. civ., sez. II, 18/02/2009, n. 3935, per la puntualizzazione che non si tratta di stabilire tanto se il giudice del provvedimento da revocare si sarebbe determinato, in concreto, in maniera diversa ove non avesse commesso l'errore, quanto se la decisione della causa avrebbe potuto essere diversa, in mancanza di quell'errore, per ragioni di necessità logico-giuridica).

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 4.8.2014

 
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L'errore di fatto che può dar luogo alla revocazione si sostanzia in una falsa percezione, da parte del giudice, della realtà risultante dagli atti di causa, consistente in una svista materiale che lo abbia indotto ad affermare l'esistenza di un fatto incontestatamente inesistente, oppure a conside ... Continua a leggere

 

Sanatoria edilizia: la fattispecie delle opere non ultimate per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali e la nozione di completamento "funzionale"

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV del 1.8.2014

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In caso di mancata convalida tempestiva del sequestro probatorio, la giurisprudenza (da ultimo, Cassazione penale, sez. VI, 14 maggio 2010 n. 22283) sia concorde che sussista l’obbligo del pubblico ministero di disporre la restituzione dei beni. Qualora egli non provveda in tal senso, l'interessato, avvalendosi del procedimento di cui all'art. 263 cod. proc. pen., può avanzare domanda di restituzione e successivamente, in caso di diniego, proporre opposizione al GIP. Qualora invece, nell'ipotesi in cui il P.M., nonostante il decorso del termine, convalidi tardivamente il sequestro, l'interessato, a norma dell'art. 355 cod. proc. pen., comma 3 può presentare istanza di riesame, sulla quale il Tribunale deve provvedere, adempiendo all'obbligo imposto dal comma secondo dello stesso articolo, e cioè ordinando la restituzione della cosa sequestrata. Il sequestro non convalidato entro il termine previsto dall'art. 355 c.p.p., comma 2 è inefficace (come espressamente qualificato dalla citata Cassazione penale, sez. VI, 14 maggio 2010 n. 22283). Nel caso in esame, se da un lato è chiaramente evincibile la mancata coltivazione dell’istanza di restituzione della parte stessa, dall’altro sono parimenti non identificabili i presupposti di applicazione dell’art. 48 della legge n. 47 del 1985, che prevede che "possono ottenere la sanatoria le opere non ultimate per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori che siano strettamente necessari alla loro funzionalità". Infatti, nel caso in esame si assiste unicamente ad una situazione di fatto, ossia la mancata restituzione del bene alla parte, mentre non è individuabile alcun provvedimento idoneo a impedire l’azione della parte qui appellata, né amministrativo (atteso che il verbale della polizia municipale aveva perso efficacia per mancata convalida) né giurisdizionale (in quanto il pubblico ministero non aveva sequestrato l’immobile stesso)..... Infatti, il richiamato art. 43 comma 5 della legge n. 47 del 1985 consente il completamento delle sole opere già funzionalmente definite. Si tratta quindi di una situazione già vagliata dalla giurisprudenza (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 8 novembre 2013 n. 5336) che si realizza quando si è in presenza di "uno stato di avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione. "In altri termini l'organismo edilizio non soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza planovolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d. ultimazione "al rustico", ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno) sebbene una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale, che ne connoti con assoluta chiarezza la destinazione d'uso. "La nozione di "completamento funzionale" è ormai acquisita nella giurisprudenza amministrativa, che ha evidenziato come è necessario che siano state realizzate le "...opere indispensabili a renderne effettivamente possibile un uso diverso da quello a suo tempo assentito, come nel caso in cui un sottotetto, trasformato in abitazione, venga dotato di luci e vedute e degli impianti di servizio (gas, luce, acqua, telefono, impianti fognari, ecc.), cioè di opere del tutto incompatibili con l'originaria destinazione d'uso" (Cons. Stato, Sez. V, 14 luglio 1995, n. 1071), ossia quelle opere che qualifichino in modo inequivoco la nuova e diversa destinazione (Cons. Stato, Sez. V, 4 luglio 2002, n. 3679, che ha considerato inverato il completamento funzionale nel caso in cui era stata effettuata "...la divisione dei locali, gli impianti elettrici ed idraulici...")." Come è evidente, la pochezza strutturale del manufatto sopra descritto impedisce l’individuazione degli elementi costituenti la fattispecie qui esaminata, atteso che l’immobile è in condizioni tali da dubitare persino dell’esistenza di un rustico completato e certamente di escludere quella completezza funzionale voluta dalla norma.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV del 1.8.2014

 
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In caso di mancata convalida tempestiva del sequestro probatorio, la giurisprudenza (da ultimo, Cassazione penale, sez. VI, 14 maggio 2010 n. 22283) sia concorde che sussista l’obbligo del pubblico ministero di disporre la restituzione dei beni. Qualora egli non provveda in tal senso, l'interessato ... Continua a leggere

 

Acquisizione al patrimonio comunale di abusi edilizi: la scelta di alienare gli immobili entrati nel patrimonio comunale impinge in valutazioni di merito degli enti locali, sindacabili in sede giurisdizionale solo per profili di abnormità, manifesta illogicità, irragionevolezza o palese travisamento

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV del 1.8.2014

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Nel processo amministrativo l'interesse a ricorrere è caratterizzato dalla presenza degli stessi requisiti che qualificano l'interesse ad agire di cui all'art. 100 c.p.c., vale a dire dalla prospettazione di una lesione concreta e attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall'effettiva utilità che potrebbe derivare a quest'ultimo dall'eventuale annullamento dell'atto impugnato, così che il ricorso deve essere considerato inammissibile per carenza di interesse in tutte le ipotesi in cui l'annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo non sia in grado di arrecare alcun vantaggio all'interesse sostanziale del ricorrente (Consiglio di Stato, sez. VI, 4 giugno 2009 n. 3440; id., sez. VI, 3 settembre 2009 n. 5191). Orbene, correttamente il giudice di prime cure ha evidenziato che "la ricorrente non vanta, invero, alcun interesse a contestare le attività con cui l’amministrazione comunale ha alienato le unità immobiliari essendosi, ormai, verificata l’acquisizione gratuita di tali beni al patrimonio del Comune ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001. Né a sorreggere il ricorso può valere l’affermazione della sussistenza di un generico interesse della società ricorrente in relazione alle sette unità immobiliari". Invero, l’evanescente interesse che sembra lambire il gravame afferisce ad una diversa vicenda. L’iter logico-motivazionale posto a fondamento della sentenza gravata muove correttamente proprio dalla separazione delle due distinte vicende: da un lato quella demolitoria, dall’altro quella ope legis acquisitiva al patrimonio comunale ed i successivi atti di alienazione posti in essere dal Comune. L’interesse della ricorrente si radicava con tutta evidenza sulla prima vicenda e sugli atti che di questa costituivano esplicazione (gli ordini di demolizione). Tale vicenda si è però ormai esaurita. L’inerzia della ricorrente e il fattore tempo hanno consolidato e reso intangibili gli ordini di demolizioni, la cui legittimità è stata altresì giudizialmente accertata (sentenze del T.a.r. Lombardia, Milano sez. II, del 28 aprile 2010 n. 1841, e del 16 giugno 2010 n. 1842, non sospese a seguito delle ordinanze cautelari di questo Consiglio n. 2245 del 25 maggio 2011 e n. 2248 del 25 maggio 2011). Esaurita tale vicenda, rispetto agli atti di disposizione gravati la ricorrente non vanta più alcun interesse. Come affermato dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. V, 13 agosto 2007 n. 4441) "prive di pregio sono le censure che investono in radice gli atti di disposizione, sia per il profilo principale, stante la perdurante validità del provvedimento di acquisizione, sia per la mancanza di un interesse qualificato dell’originaria proprietaria a far valere una censura (quella relativa alla decisione di mettere in vendita i beni acquisiti), che la vede, rispetto alla generalità degli amministrati, in posizione non differenziata, a seguito della inoppugnabilità dell’ordinanza trascritta, che vede definitivamente e non più contestabilmente acquisiti al patrimonio dell’ente gli appartamenti in questione". D’altronde ravvisare nella fattispecie de qua un qualsivoglia interesse a ricorrere condurrebbe ad una palmare violazione del ne bis in idem processuale e costituirebbe il grimaldello per aprire una breccia in questioni esaurite con sentenza. Anche a prescindere da questo rilievo, la carenza di interesse della ricorrente emerge plasticamente se solo si considera che gli atti gravati sono espressione di scelte di mera opportunità e di convenienza dell’amministrazione comunale. A differenza delle ordinanze di demolizione e di successiva automatica acquisizione al patrimonio comunale, che si configurano quali atti vincolati, privi di discrezionalità conseguenti all’accertamento alla natura abusiva delle opere edilizie e che pongono in essere un modus agendi tracciato in modo analitico dal legislatore (Consiglio di Stato, sez. VI, 4 marzo 2013 n. 1268; id., sez. VI, 28 gennaio 2013 n. 496; id., sez. IV, 23 gennaio 2012 n. 282; id., sez. IV, 28 dicembre 2012 n. 6702), gli atti di alienazione impugnati involgono la sfera interna del Comune, che ben può alienare beni entrati nel suo patrimonio. La scelta di alienare gli immobili entrati nel patrimonio comunale impinge in valutazioni di merito degli enti locali interessati, sindacabili in sede giurisdizionale solo per profili di abnormità, manifesta illogicità, irragionevolezza o palese travisamento. Nella fattispecie de qua il Collegio non ravvisa tali macroscopici vizi e l’attività comunale censurata dalla ricorrente esula dunque dai limiti del sindacato giurisdizionale. La società ricorrente, poi, ricordando il consolidato orientamento giurisprudenziale alla stregua del quale la presentazione di una domanda di concessione in sanatoria per abusi edilizi determina la sopravvenuta carenza d’interesse all’annullamento dell’atto sanzionatorio in relazione al quale tale domanda è stata presentata, afferma che gli ordini di demolizione avrebbero perso la propria efficacia lesiva (di qui l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse). L’amministrazione comunale avrebbe dovuto, secondo la prospettazione della ricorrente, assumere e notificare altre nuove ordinanze di demolizione a seguito dei dinieghi opposti il 27 ottobre 2006 alle istanze di sanatoria del 1 luglio 2006. Orbene, priva di pregio è la doglianza prospettata, dal momento che l’interesse a ricorrere è ab origine assente. Non può venir meno in via sopravvenuta un quid (l’interesse a ricorrere) che non c’è mai stato, dal primo grado, come opportunamente ha rilevato il giudicante. Anche a prescindere da ciò, senz’altro la presentazione di una domanda di concessione in sanatoria per abusi edilizi determina la sopravvenuta carenza d’interesse all’annullamento dell’atto sanzionatorio in relazione al quale tale domanda è stata presentata, ma l’affermazione non è da intendersi come assoluta. Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio (Consiglio di Stato, sez. V, 31 marzo 2014 n. 1546; id., sez. V, 31 marzo 2010 n. 1875; id., sez. II, 12 maggio 2004, n. 1056), la richiesta di concessione in sanatoria di un'opera edilizia non inficia la legittimità dell'ordine di demolizione impartito in precedenza, quando la domanda di sanatoria sia stata poi respinta. La domanda presentata dalla società ricorrente è stata respinta il 27 ottobre 2006. L’ordine di demolizione risulta illegittimo soltanto se viene adottato all’indomani della domanda di sanatoria, ciò in ragione del fatto che l’istanza di sanatoria impedisce che l’amministrazione prima del suo esame si attivi per eliminare un abuso che potrebbe essere sanato. L’ordine di demolizione è, infatti, un atto vincolato che poggia sull’atto presupposto che accerta la presenza di un abuso edilizio, conseguentemente l’efficacia dell’ordine di demolizione resta sospesa all’indomani della presentazione della domanda di sanatoria, ma al momento in cui la stessa venga respinta, l’ordine di demolizione torna a spiegare i suoi effetti, né appare necessario che l’amministrazione adotti un ulteriore ordine di demolizione, poiché la domanda di sanatoria non caduca l’ordine di demolizione, ma ne sospende gli effetti, che ricominciano a decorrere a far data dall’adozione del diniego di sanatoria. Le considerazioni sin qui esposte conducono al rigetto del proposto appello, essendo del tutto corretta la ricostruzione operata dal primo giudice e rendendo altresì infondata se non improponibile la pretesa risarcitoria pure avanzata, non potendosi configurare a carico della P.A. procedente una condotta antigiuridica causativa di danno risarcibile. L’inammissibilità ab imis del ricorso in primo grado e del gravame solleva il Consiglio di Stato dall'esame delle altre ragioni proposte nell’appello.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV del 1.8.2014

 
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Nel processo amministrativo l'interesse a ricorrere è caratterizzato dalla presenza degli stessi requisiti che qualificano l'interesse ad agire di cui all'art. 100 c.p.c., vale a dire dalla prospettazione di una lesione concreta e attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall'effettiva utilit ... Continua a leggere

 

Detenzione e porto d'armi: la licenza di porto d'armi può essere negata anche in assenza di sentenza di condanna per reati connessi al corretto uso delle armi, ma reati diversi anche non attinenti alla materia delle armi, da cui si possa desumere la non completa "affidabilità" all’uso delle stesse

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 1.8.2014

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L'autorizzazione alla detenzione ed al porto d’armi postulano che il beneficiario osservi una condotta di vita improntata alla piena osservanza delle norme penali e di quelle poste a tutela dell’ordine pubblico, nonché delle regole di comune buona convivenza, tale da non destare il sospetto di un possibile uso improprio delle armi, la sentenza contraddittoriamente, poi, ha ritenuto che i fatti allegati dall’amministrazione non fossero sintomatici di indole incline alla violenza ed idonei a supportare un giudizio di "pericolosità sociale" dell’interessato. Invero, nessun giudizio di pericolosità sociale del richiedente deve precedere il rilascio dell’autorizzazione al porto d’armi, ma solamente un giudizio prognostico sull’affidabilità del soggetto e sull’assenza di rischio che egli possa abusare delle armi (Consiglio di Stato, sez. III, 12/06/2014, n. 2987). La valutazione dell'Autorità di pubblica sicurezza è caratterizzata da ampia discrezionalità, perseguendo in tale materia lo scopo di prevenire, per quanto possibile, i delitti (ma anche i sinistri involontari), che potrebbero avere occasione per il fatto che vi sia la disponibilità di armi da parte di soggetti non pienamente affidabili; tanto che il giudizio di "non affidabilità" è per certi versi più stringente rispetto a quello di "pericolosità sociale", giustificando per esempio il diniego anche in situazioni che non hanno dato luogo a condanne penali o misure di pubblica sicurezza, ma a situazioni genericamente non ascrivibili a "buona condotta" (si è ritenuto, ad es., legittimo il diniego in situazioni di inusuale conflittualità fisica e verbale nei rapporti familiari, o di convivenza, o di vicinato: Consiglio di Stato, sez. III, 19/09/2013, n. 4666). Secondo la giurisprudenza di questa Sezione, da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi, la licenza di porto d' armi può essere negata anche in assenza di sentenza di condanna per specifici reati connessi proprio al corretto uso delle armi, potendo l'Autorità amministrativa valorizzare nella loro oggettività sia fatti di reato diversi, sia vicende e situazioni personali del soggetto che non assumano rilevanza penale, concretamente avvenuti, anche non attinenti alla materia delle armi, da cui si possa desumere la non completa "affidabilità" all’uso delle stesse (Consiglio di Stato, sez. III, 29/07/2013, n. 3979). Le norme di cui agli artt. 11 e 43 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, difatti, oltre ad ipotesi tipiche di diniego vincolato, collegato alla riportata condanna per alcuni reati, consentono di negare le autorizzazioni di polizia, in generale, a chi ha riportato condanna per delitti contro la personalità dello Stato o contro l'ordine pubblico, ovvero per delitti contro le persone commessi con violenza, o per furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, o per violenza o resistenza all'autorità, e a chi non ha tenuto una buona condotta. In particolare, l’art. 43 cit., per quanto riguarda la licenza di portare armi, prevede il divieto di autorizzazione a chi ha riportato condanna alla reclusione per i medesimi delitti di cui sopra, non colposi, ovvero a chi ha riportato condanna a pena restrittiva della libertà personale per violenza o resistenza all'autorità o per delitti contro la personalità dello Stato o contro l'ordine pubblico; oppure, da ultimo, a chi ha riportato condanna per diserzione in tempo di guerra, anche se amnistiato, o per porto abusivo di armi. Con norma di chiusura, inoltre, l’ultimo capoverso dello stesso articolo dispone che "la licenza può essere ricusata ai condannati per delitto diverso da quelli sopra menzionati e a chi non può provare la sua buona condotta o non dà affidamento di non abusare delle armi" (la prova della buona condotta, a seguito della sentenza della Corte Cost. 16 dicembre 1993, n. 440, grava sull’Amministrazione). Quest’ultimo inciso trova applicazione nella fattispecie. Non sembra, invero, illogico, alla luce della disposizione normativa, che il -OMISSIS- abbia attribuito rilevanza a fatti e precedenti penali sia relativi alla illegale detenzione di armi e munizioni (condanna della -OMISSIS-con sentenza del -OMISSIS-, confermata dalla Corte di Cassazione, alla pena di mesi 8 di reclusione e alla multa di lire 140.000); sia non concernenti il buon uso delle armi, ma comunque denotanti senza dubbio una condotta non perfettamente specchiata. Ci si riferisce ai fatti di reato in materia previdenziale e di contributi previdenziali e assistenziali di cui all’art. 2, comma 1, della legge n. 638/83, oggetto del decreto penale del GIP della -OMISSIS-del 23.3.1992; alle sentenze del 30 gennaio 1995, del 24 gennaio 1996 e del 26.2.1996, emesse a -OMISSIS-, per omissione di ritenute previdenziali ex art. 2, comma 1°, della legge n. 638/83; alla sentenza della -OMISSIS-del -OMISSIS-, per omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali ex art. 2, comma 1, del D. Lgs. n. 463/1983 ed alla sentenza della Corte di Cassazione del -OMISSIS-, per la medesima fattispecie; anche se si tratta di sentenze tutte che hanno dichiarato estinti i reati a seguito di intervenuto versamento tardivo delle somme dovute. Appare pertinente anche il richiamo alle violazioni in materia edilizia (ancorché ottenuta la riabilitazione, come osserva il ricorrente nel ricorso introduttivo, pag. 9), nonché alla misura degli arresti domiciliari per il delitto di corruzione, nell’ambito del procedimento penale pendente presso il -OMISSIS-ed alla sospensione della patente di guida per omissione di soccorso a seguito di incidente stradale, in quanto si tratta di circostanze tutte insieme valorizzate al fine di valutare la sussistenza del requisito di "affidabilità" necessario al rilascio dell’autorizzazione. In definitiva, il provvedimento impugnato indica fatti e circostanze in modo dettagliato e preciso, e, sebbene in modo scarno, ne ricava congruamente un giudizio di non sussistenza del requisito soggettivo dell’ "affidabilità", in modo sufficiente a rendere comprensibile l’iter logico seguito e non manifestamente illogiche le conclusioni adottate; trattasi, infatti, di elementi tutti ben idonei, nel loro complesso, a fondare la valutazione fatta dal Prefetto, della quale non si evidenzia alcuna irragionevolezza o difetto di istruttoria, alla luce della chiara propensione dell’interessato ad una non episodica violazione delle regole. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 1.8.2014

 
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