Gazzetta Informa News 10 Maggio 2013 - Area Tecnica


NORMATIVA

Appalti puliti, nelle prefetture istituite le 'White list'

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Il Consiglio dei ministri ha pubblicato il DPCM che istituisce le "White List" degli operatori economici non soggetti a rischio di infiltrazione mafiosa presso tutte le prefetture. Per accedere al testo completo del decreto cliccare sul titolo sopra linkato. (Presidente del Consiglio dei Ministri,decreto 18.4.2013)

 
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Trasmissione dati contratti pubblici: aggiornata a 40.000 euro la soglia minima per le comunicazioni obbligatorie

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Il 9 maggio 2013 verrà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Comunicato del Presidente dell’Autorità del 29 aprile 2013 con il quale per gli appalti pubblicati dal 1 gennaio 2013, la soglia dei 150.000 euro prevista dal Codice dei contratti pubblici (art. 7, co. 8, DLgs 163/2006), è aggiornata alvalore di 40.000 euro. Precisa l'AVCP che tale novita entrerà in vigore dalla pubblicazione in G.U. ed avrà validità retroattiva dal 1 gennaio 2013, riguarda le attività del Responsabile Unico del Procedimento (RUP) il quale se in precedenza, per appalti compresi tra i 40 e i 150.000 euro, inviava all’Autorità solo una scheda di aggiudicazione semplificata, ora dovrà inviare tutti i dati sul ciclo di vita dell’appalto fino alla sua conclusione. Per tutte le fattispecie di importo inferiore o uguale a 40.000 euro, sarà necessaria la sola acquisizione dello SmartCIG. (AVCP, comunicato del 5.5.2013)

 
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Il 9 maggio 2013 verrà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Comunicato del Presidente dell’Autorità del 29 aprile 2013 con il quale per gli appalti pubblicati dal 1 gennaio 2013, la soglia dei 150.000 euro prevista dal Codice dei contratti pubblici (art. 7, co. 8, DLgs 163/2006), è aggiornata al ... Continua a leggere

 
GIURISPRUDENZA

Vincolo idrogeologico: e' legittimo il divieto di rimozione di alberi per finalità idrogeologiche ai sensi dell'art. 7 r.d. n. 3267/1923 qualora la conservazione di colture boschive attiene alla stabilità dei terreni e al regime delle acque

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Il regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3267 ("Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani"), dopo aver previsto all’art. 1 che "Sono sottoposti a vincolo per scopi idrogeologici i terreni di qualsiasi natura e destinazione che, per effetto di forme di utilizzazione contrastanti con le norme di cui agli artt. 7, 8 e 9 possono con danno pubblico subire denudazioni, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque", dispone all’art. 7 che "Per i terreni vincolati la trasformazione dei boschi in altre qualità di coltura e la trasformazione di terreni saldi in terreni soggetti a periodica lavorazione sono subordinate ad autorizzazione del Comitato forestale e alle modalità da esso prescritte, caso per caso, allo scopo di prevenire i danni di cui all’art. 1". Occupandosi delle disposizioni dei ricordati artt. 1 e 7 del r.d. n. 3267 del 1923 la giurisprudenza ha già avuto modo di sottolineare che, a causa della sua ratio ed in virtù della stessa genericità della sua formulazione, la autorizzazione in questione riguarda ogni attività sottoposta a vincolo idrogeologico ed immutazione totale o parziale dei luoghi della zona sottoposta a vincolo idrogeologico, ivi compresa in particolare l’attività edificatoria (C.d.S., sez. VI, 31 dicembre 1988, n. 1347; 29 marzo 1983, n. 161; 25 maggio 1979, n. 395), con la precisazione che detta normativa non esclude che i terreni interessati da vincoli idrogeologici siano interessati dall’attività edificatoria, essendo invece consentito ai proprietari dei terreni vincolati di richiedere la rimozione del vincolo (o anche solo l’autorizzazione al taglio di alcuni alberi) nella misura necessaria a consentire la realizzazione della costruzione (C.d.S., sez. V, 14 aprile 1993, n. 480). Il regime autorizzatorio de qua implica in sostanza un controllo dal punto di vista della stabilità del suolo e dell’equilibrio geologico o idraulico per evitare che eventuali iniziative dei privati nelle zone vincolate siano suscettibili di arrecare nocumento alla conservazione dell’ambiente, pregiudicandone l’equilibrio idrogeologico (C.d.S., sez. V, 3 gennaio 1992, n. 4; sez. VI, 2 marzo 1987, n. 94): è stato così ritenuto legittimo il divieto di rimozione di alberi per finalità idrogeologiche (ai sensi del ricordato art. 7) qualora la conservazione di colture boschive attiene alla stabilità dei terreni e al regime delle acque (C.d.S., sez. VI, 30 ottobre 1985, n. 571). (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 2.5.2013, n. 2389)

 
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Il regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3267 ("Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani"), dopo aver previsto all’art. 1 che "Sono sottoposti a vincolo per scopi idrogeologici i terreni di qualsiasi natura e destinazione che, per effetto di forme di utilizz ... Continua a leggere

 

Gli indici che la giurisprudenza richiede per qualificare un’attività come servizio pubblico: la rilevanza della qualificazione anche ai fini della possibilità di ricorrere all’avvalimento ex art. 49 d.lgs. n. 163/2006, istituto non consentito in una procedura di affidamento in concessione di servizi pubblici

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Nel giudizio in esame si controverte della pretesa illegittimità della determinazione di annullamento in autotutela dell'aggiudicazione avente ad oggetto l’affidamento in concessione dell’uso e della gestione dell’impianto sportivo comunale avvenuta sul rilievo che la procedura di affidamento dovesse qualificarsi come concessione di bene pubblico, nella quale non è consentito l’avvalimento. Questa essendo la ragione fondante tale atto, ad avviso del Consiglio di Stato è condivisibile la critica che ad essa viene rivolta nel secondo motivo d’appello, dovendo il contratto posto a base della gara in contestazione essere invece qualificato come concessione di pubblico servizio. Ciò sulla base delle seguenti considerazioni: - il bene affidato in uso rientra, e su ciò non vi è contestazione, nella previsione dell’ultimo capoverso dell’art. 826 cod. civ., ossia in quella relativa ai beni di proprietà dei comuni destinati ad un pubblico servizio e perciò assoggettati al regime dei beni patrimoniali indisponibili, i quali, giusto il disposto dell’art. 828, non possono essere sottratti alla loro destinazione (decidendo una questione di giurisdizione, questa Sezione si è espressa negli stessi termini proprio con riguardo ad una fattispecie di concessione di impianti sportivi comunali: sentenza 6 febbraio 2013 n. 698); - su tali beni insiste dunque un vincolo funzionale, coerente con la loro vocazione naturale ad essere impiegati in favore della collettività, per attività di interesse generale; - non vi è dubbio che la conduzione di impianti sportivi sottenda a tale tipologia di attività, essendo sufficiente ricordare che l’ordinamento sportivo è connotato da un’organizzazione di stampo pubblicistico, con al vertice il CONI, ente pubblico, e quindi le federazioni sportive, qualificate dalla legge istitutiva di detto ente come organi dello stesso, soggetti incaricate di funzioni di interesse generale, consistenti nella promozione ed organizzazione dello sport (artt. 2, 3 e 5 legge n. 426/1942, istitutiva del CONI); - ed infatti, come giustamente osserva l’appellante, oggetto di concessione non è solo il loro uso, ma anche la relativa gestione, trattandosi, per quanto poc’anzi detto, di attività rivolta a finalità di pubblico interesse, consistenti nel caso di specie nella fruizione di campi sportivi; - plurime previsioni della legge di gara, ancora una volta debitamente evidenziate dall’appellante, si pongono in questa prospettiva, assoggettando il privato concessionario a vincoli gestionali puntuali, esorbitanti rispetto alla conduzione di un’attività di impresa; - si allude agli artt. 2, 3 e 6 del foglio condizioni posto a gara, variamente concernenti attività di valorizzazione degli impianti in relazione alle esigenze della collettività sportiva; di organizzazione di eventi a rilevanza sociale; e di predisposizione di un programma di promozione della pratica sportiva presso i giovani e le scuole), nonché ad obblighi di rendicontazione ed a poteri di controllo ed ispezione dell’amministrazione concedente (artt. 3 e 12 del citato foglio condizioni, nonché art. 2 del bando di gara); - contrariamente a quanto assume parte appellata, e quanto ritenuto dal TAR, è irrilevante il riconoscimento in favore del concessionario di autonomia tariffaria per l’accesso agli impianti; - detta autonomia si pone in relazione allo sfruttamento in termini economico-imprenditoriali del bene oggetto di concessione, in relazione all’attività strettamente privata che lo stesso consente e che coesiste con gli obblighi di servizio pubblico sopra detti, al fine di consentire l’equilibrio complessivo della gestione e consentire al concessionario di ricavare dalla stessa un utile. Alla stregua di quanto finora osservato, non vi è dubbio quindi che ricorrano tutti gli indici che la giurisprudenza richiede per qualificare un’attività come servizio pubblico, e cioè: a) l’imputabilità e la titolarità in capo all’ente pubblico; b) la sua destinazione a soddisfare interesse di carattere generale della collettività; c) la predisposizione di un programma di gestione, vincolante per il privato incaricato della gestione, con la previsione obblighi di condotta e l’imposizione di standards qualitativi; d) il mantenimento in capo all’amministrazione concedente di poteri di indirizzo, vigilanza ed intervento, affinché il programma sia rispettato (in questi termini, Cass., sez. un., 27 maggio 2009, n. 12252). (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 2.5.2013, n. 2385)

 
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Annullamento dell'autorizzazione paesaggistica già rilasciata: il vaglio ai fini paesaggistici rimesso all’organo statale assume una funzione di spiccata ‘tutela estrema’ del vincolo e, in via mediata, dei valori tutelati, aventi rango costituzionale

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Il giudizio di compatibilità paesaggistica in ordine agli interventi esecutivi (come, nel caso di specie, quelli relativi alla realizzazione delle opere di urbanizzazione) può essere svolto in modo più incisivo e con strumenti di vaglio più penetranti laddove l’autorizzazione relativa al piano ‘a monte’ si caratterizzi per i caratteri di assoluta genericità dei relativi progetti (come nel caso di specie). Si tratta, del resto, di un corollario del principio secondo cui il vaglio ai fini paesaggistici rimesso all’organo statale – ivi compreso quello concretantesi nell’eventuale annullamento dell’autorizzazione a tal fine già rilasciata – assume una funzione di spiccata ‘tutela estrema’ del vincolo e, in via mediata, dei valori tutelati, aventi rango costituzionale (in tal senso: Corte cost., 27 giugno 1986, n. 151; id., 18 ottobre 1996, n. 341; id., 25 ottobre 2000, n. 437). (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.4.2013, n. 2359)

 
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Rispetto all’esercizio del potere sanzionatorio e' irrilevante che l'abuso edilizio sia stato realizzato dal precedente proprietario dell’immobile: l'ignaro acquirente può agire contro il venditore, l'autore dell'abuso e il notaio

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Il complesso di norme introdotte ai fini della sanatoria degli abusi edilizi assumono a riferimento le opere in base al loro dato oggettivo (tipologia, consistenza, momento di esecuzione, disciplina della zona interessata dall’abuso) indipendentemente dall’elemento soggettivo (consapevolezza o menodella condotta "contra legem") che abbia accompagnato la realizzazione delle opere stesse» (Cons. Stato, sez. VI, 9 luglio 2012, n. 4013; 2 febbraio 2009, n. 537 ). Del resto, "l’abuso edilizio costituisce – sotto il profilo amministrativo – un illecito a carattere permanente e pertanto non rileva che l’addizione abusiva sia stata realizzata dal precedente proprietario dell’immobile" (Cons. Stato, sez. VI, 5 aprile 2013, n. 1886). Rispetto all’esercizio del potere sanzionatorio (e salva la normativa sulla nullità del contratto in presenza dei relativi presupposti), sono infatti irrilevanti le alienazioni del manufatto (in tutto o in parte abusivo) sotto il profilo privatistico. L’acquirente, infatti, subentra nella situazione giuridica del dante causa che – consapevolmente o meno - ha violato la normativa urbanistica ed edilizia e poiché, se ignaro dell’abuso al momento della alienazione, può agire nei confronti del dante causa anche prima dell’esercizio dei poteri repressivi da parte del Comune, a maggior ragione quando riceva (come nella specie, pur nel contesto di un provvedimento favorevole) un pregiudizio in conseguenza dei doverosi atti amministrativi repressivi, può agire sia nei confronti del notaio che in ipotesi non abbia rilevato l’assenza del titolo edilizio, sia nei confronti del dante causa e dell’autore dell’abuso (secondo un principio, ab antiquo affermato dalla giurisprudenza amministrativa e da quella civile). (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.4.2013, n. 2363)

 
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Libera circolazione dell'energia elettrica: l’Amministrazione si deve prendere carico di verificare se, tenuto conto del ciclo produttivo delle imprese consorziate, sia giustificato l’uso "interno" dell’energia elettrica prodotta da fonte rinnovabile, con consequenziale sottrazione (sotto forma di mancata immissione in rete) della stessa energia alla rete elettrica nazionale

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L’art. 23 della legge 9 gennaio 1991, n. 9 (Circolazione dell'energia elettrica prodotta da impianti di produzione di energia elettrica a mezzo di fonti rinnovabili) dispone testualmente che "per l'energia elettrica prodotta dagli impianti di cui all'art. 22, oltre agli usi previsti dal terzo capoverso del n. 6) dell'art. 4 della L. 6 dicembre 1962, n. 1643 , come sostituito dal comma 1 dell'art. 20, è consentita la libera circolazione all'interno di consorzi e società consortili fra imprese e fra dette imprese, consorzi per le aree e i nuclei di sviluppo industriale di cui al testo unico delle leggi sugli interventi nel Mezzogiorno, approvato con D.P.R. 6 marzo 1978, n. 218 , aziende speciali degli enti locali e società concessionarie di pubblici servizi dagli stessi assunti, limitatamente ad esigenze di autoproduzione, ovvero aziende di cui al regio decreto 15 ottobre 1925, n. 2578 , recante: «Approvazione del testo unico della legge sull'assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni e delle province», previa autorizzazione del Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato rilasciabile sulla base di criteri di economicità e di valutazione delle esigenze produttive". La disposizione non è incompatibile con il principio della libera produzione dell’energia elettrica da fonte rinnovabile contenuto nell’art. 22 della stessa legge e del consequenziale venir meno della riserva di produzione in capo ad Enel, di cui all'articolo 1 della legge 6 dicembre 1962, n. 1643. Come si desume anche dalla lettera della disposizione, l’autorizzazione ministeriale alla libera circolazione dell’energia prodotta da fonte rinnovabile all’interno di un consorzio, nel regime della legge 9 gennaio 1991, n. 9, è rilasciata all’esito di una valutazione discrezionale (per alcuni tratti di ordine tecnico-discrezionale) tesa al soddisfacimento di criteri di economicità in rapporto alle esigenze produttive dell’istante. In altri termini, l’Amministrazione si deve prendere carico di verificare se, tenuto conto del ciclo produttivo delle imprese consorziate, sia giustificato l’uso "interno" dell’energia elettrica prodotta da fonte rinnovabile, con consequenziale sottrazione (sotto forma di mancata immissione in rete) della stessa energia alla rete elettrica nazionale. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.4.2013, n. 2335)

 
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L’art. 23 della legge 9 gennaio 1991, n. 9 (Circolazione dell'energia elettrica prodotta da impianti di produzione di energia elettrica a mezzo di fonti rinnovabili) dispone testualmente che "per l'energia elettrica prodotta dagli impianti di cui all'art. 22, oltre agli usi previsti dal terzo capov ... Continua a leggere

 

Condono edilizio: Il quadro normativo riconducibile alle disposizioni dei primi due condoni (di cui alle leggi n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994) va inteso nel senso che, se nel corso del procedimento di esame della domanda di condono entra in vigore una normativa o è emesso un provvedimento, che determina la sopravvenienza di un vincolo di protezione dell’area in questione, l’autorità competente ad esaminare l’istanza di condono deve acquisire il parere della autorità preposta alla tutela del "vincolo sopravvenuto"

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Come ha rilevato la pacifica giurisprudenza di questo Consiglio (consolidatasi a seguito della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 20 del 1999), il quadro normativo riconducibile alle disposizioni dei primi due condoni (di cui alle leggi n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994) va inteso nel senso che, senel corso del procedimento di esame della domanda di condono entra in vigore una normativa o è emesso un provvedimento, che determina la sopravvenienza di un vincolo di protezione dell’area in questione, l’autorità competente ad esaminare l’istanza di condono deve acquisire il parere della autorità preposta alla tutela del "vincolo sopravvenuto", che deve pronunciarsi tenendo conto del quadro normativo vigente al momento in cui esercita i propri poteri consultivi. Tale regola, ad avviso del Collegio, risulta del tutto condivisibile, poiché - con la disposizione o con l’atto amministrativo sopravvenuto - l’area è specificamente sottoposta ad un regime giuridico di protezione, rispetto al quale va valutata l’incidenza dell’abuso commesso. Contrariamente a quanto rilevato nella sentenza impugnata, il sopra richiamato comma 43 bis va interpretato tenendo conto della complessiva normativa introdotta col c.d. terzo condono edilizio, di cui al d.l. n. 269 del 2003, come convertito nella legge n. 326 del 2003. Come è noto, la normativa sul "terzo condono" ha previsto più rigorosi limiti - sotto vari profili - per l’accoglibilità delle domande, rispetto alle previsioni di cui alle leggi che hanno consentito i due "primi condoni". In assenza dell’art. 32, comma 43 bis, del d.l. n. 259 del 2003, come convertito nella legge n. 326 del 2003, in sede interpretativa si sarebbe dovuto ritenere che - a seguito dell’entrata in vigore della normativa "più restrittiva" sul ‘terzo condono’ e della abrogazione delle disposizioni "più favorevoli" agli autori degli abusi, contenute nelle leggi sui primi due condoni - le disposizioni sostanziali sopravvenute più restrittive si sarebbero dovute applicare anche in sede di valutazione delle domande di condono proposte in base alle leggi n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994, in applicazione del principio tempus regit actum (per il quale una domanda di sanatoria, tranne i casi in cui la legge esiga la c.d. doppia conformità, va esaminata tenendo conto della situazione di fatto e di quella di diritto sussistente alla data in cui è definito il procedimento). Per evitare tale conseguenza, e cioè per consentire la perdurante applicabilità della normativa sostanziale più favorevole prevista dalle leggi sui primi due condoni (malgrado la "stretta" decisa dal legislatore del 2003, sulla base della sua discrezionalità, in considerazione delle esigenze di salvaguardia del territorio), il sopra richiamato art. 32, comma 43 bis, ha dunque disposto che le istanze di condono - presentate in base alle prime due leggi del 1985 e del 1994 - continuassero a dover essere esaminate sulla base della normativa sostanziale anteriore a quella (più restrittiva) contenuta nella legge n. 326 del 2003: in tal modo, l’art. 32, comma 43 bis, nulla ha innovato sul quadro normativo riconducibile alle leggi sui due primi condoni, come interpretato dalla Adunanza Plenaria di questo Consiglio n. 10 del 1999. D’altra parte, sarebbe stata palesemente incostituzionale (per contrasto con gli artt. 3, 9 e 117, secondo comma, Cost.) una disposizione statale che avesse inteso porre nel nulla i poteri consultivi delle autorità preposte alla tutela del vincolo, il cui esercizio era stato a lungo impedito dalla inerzia degli enti locali. Pertanto, il medesimo comma 43 bis non ha affatto inciso sui poteri delle autorità preposte alla tutela dei vincoli, imposti con legge o con atto amministrativo in un’area sulla quale è stato in precedenza commesso un abuso edilizio, né ha inciso sul loro dovere di constatare la presenza del vincolo di inedificabilità assoluta (con cui la disposizione di legge o l’atto amministrativo hanno imposto l’immodificabilità dei luoghi e dunque la insanabilità degli abusi ancora esistenti). Da quanto precede deriva anche che è da considerarsi infondata la censura contenuta nella memoria presentata dall’appellato in data 6 aprile 2013, relativa al fatto che in base alla legislazione vigente il parere dell’Ente Parco non era dovuto. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.4.2013, n. 2367)

 
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Come ha rilevato la pacifica giurisprudenza di questo Consiglio (consolidatasi a seguito della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 20 del 1999), il quadro normativo riconducibile alle disposizioni dei primi due condoni (di cui alle leggi n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994) va inteso nel senso che, se ... Continua a leggere

 

Occupazione appropriativa ed usurpativa: individuazione dell'elemento di differenziazione

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La distinzione tra occupazione appropriativa ed usurpativa (quella realizzata in assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità), ha perso di significato sia con riferimento alla giurisdizione (nel senso che residuano al giudice ordinario le sole ipotesi in cui ab origine manchi del tuttouna dichiarazione di pubblica utilità dell'opera) che alla decorrenza del termine di prescrizione trattandosi nei due casi di un illecito permanente come affermato dalla più recente giurisprudenza amministrativa, aderendo alle argomentazioni svolte in più occasioni dalla Corte europea dei diritti umani e, di recente, dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 2 novembre 2011, n. 5844). L'unico elemento di differenziazione ancora esistente riguarda invero l'individuazione del dies a quo di commissione dell'illecito posto che, in caso di occupazione usurpativa, esso va fatto decorrere dal momento dell'immissione in possesso da parte dell'Amministrazione mentre, in caso di occupazione appropriativa, come nella specie, dalla scadenza del termine di occupazione legittima del terreno e ciò rileva al fine di individuare il momento in cui misurare il valore venale ai fini della quantificazione del risarcimento del danno. Pertanto, alla luce dei precisi parametri normativi stabiliti dal predetto art. 42-bis del T.U. Espropriazione n. 327-2001, introdotto dall'art. 34 della cd. "Manovra economica 2011" (D.L. 6 luglio 2011, n. 98), il quale, reintroducendo l'istituto dell'acquisizione sanante, prevede anche che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, anche con riferimento ai fatti antecedenti (comma 8 del predetto art. 42 bis), è possibile condannare il Comune convenuto al pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno per occupazione appropriativa, parametrata al valore venale del bene dalla data di cessazione dell’occupazione legittima come appena sopra precisato, maggiorato del danno morale nella misura che si ritiene equo determinare nel 10% del danno patrimoniale. Trattandosi di obbligazione derivante da illecito extracontrattuale, e quindi di debito di valore, tali somme, determinate con riferimento alla data della trasformazione irreversibile del bene, devono essere rivalutate equitativamente all'attualità sulla base degli indici Istat; si impone, inoltre, il riconoscimento del danno da lucro cessante, costituito dalla perdita della possibilità di far fruttare la somma stessa; tale danno, avuto riguardo al tempo trascorso ed al graduale mutamento del potere di acquisto della moneta, può liquidarsi in via equitativa nella misura degli interessi legali sulle somme rivalutate anno per anno a decorrere dalla data dell'illecito, in applicazione della sentenza 17 febbraio 1995, n. 1712 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui deve escludersi che la base del calcolo dei suddetti interessi possa essere quella della somma rivalutata al momento della liquidazione se gli interessi vengono fatti decorrere dal momento del fatto illecito, perché con tali modalità si attribuirebbe al creditore un valore cui egli non ha diritto (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 2 novembre 2011, n. 5844 cit.). (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.4.2013, n. 2279)

 
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Gare pubbliche: il divieto di commistione fra i criteri soggettivi di qualificazione e quelli oggettivi di valutazione delle offerte

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Nel giudizio in esame il Consiglio di Stato dopo aver premesso che non può dubitarsi dell’esistenza di un generale principio regolatore delle gare pubbliche che vieta la commistione fra i criteri soggettivi di qualificazione e quelli oggettivi di valutazione delle offerte, principio la cui ratio deve essere rintracciata nell’esigenza di assicurare la più ampia possibilità di partecipazione delle imprese alle gare attraverso la rigida separazione tra requisiti di partecipazione e requisiti dell’offerta e dell’aggiudicazione (ex multis, C.d.S., sez. III, 18 giugno 2012, n. 3550; sez. VI, 4 ottobre 2011, n. 5434; sez. V, 8 settembre 2010, n. 6490), ha altresì precisato che tale principio non può tuttavia ritenersi eluso o violato allorché gli aspetti organizzativi non sono destinati ad essere apprezzati in quanto tali, in modo avulso dall’offerta, come dato relativo alla mera affidabilità soggettiva, ma piuttosto quale garanzia della prestazione del servizio secondo le modalità prospettate nell’offerta, come elemento cioè incidente sulle modalità esecutive dello specifico servizio e quindi come parametro afferente alle caratteristiche oggettive dell’offerta (C.d.S., sez. V, 23 gennaio 2012, n. 266). (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.4.2013, n. 2282)

 
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Accesso alle proprie impronte digitali: la conoscenza della scheda decadattiloscopica contenete il rilievo delle impronte delle dieci dita delle mani, effettuato a scopo di identificazione di soggetto straniero senza documenti è insuscettibile di arrecare nocumento agli interessi generali in materia di ordine pubblico e sicurezza e, pertanto, e' accessibile

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Nel giudizio in esame l’interessato ha proposto alla Questura di Brindisi domanda di accesso agli atti amministrativi al fine di ottenere, in particolare, copia della propria "scheda decadattiloscopica" (ossia della scheda contenete il rilievo delle impronte delle dieci dita delle mani, effettuatoa scopo di identificazione trattandosi di soggetto straniero senza documenti, trattenuto in un centro di identificazione ed espulsione); domanda giustificata con l’intenzione di utilizzare detto documento nell’ambito di un procedimento giudiziario. La Questura ha risposto negativamente, con la laconica motivazione che il documento in questione rientrerebbe fra quelli sottratti all’accesso, senza dare ulteriori spiegazioni o motivazioni circa tale presunta sottrazione. Il TAR respingeva il ricorso mentre il Consiglio di Stato ha accolto l'appello rilevando che, con sentenza n. 610/2013, su controversia analoga, ha accolto l’appello della parte allora ricorrente affermando fra l’altro che « i rilievi dattiloscopici, avendo un’esclusiva funzione identificativa, non potevano essere ricondotti alla categoria di cui all'art. 3 del D.M. 10 maggio 1994, n. 415, recante il "Regolamento per la disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi", che elenca una serie di categorie di documenti sottratti all'accesso per motivi di ordine e sicurezza pubblica, ovvero a fini di prevenzione e repressione della criminalità. Tra tali atti non è espressamente contemplata la scheda dattiloscopica, né potrebbe farsi rientrare per via interpretativa in alcuna delle altre categorie espressamente elencate (es. "relazioni di servizio", "informazioni fornite da fonti confidenziali"; documenti concernenti il "funzionamento dei servizi di polizia"; atti concernenti "la sicurezza delle infrastrutture") che riguardano tutte notizie rilevanti al fine di garantire la sicurezza pubblica, la prevenzione e la repressione della criminalità. I rilievi dattiloscopici (cioè le impronte digitali) eseguiti nei confronti dell'interessato sono diretti, invece, ad accertare le esatte generalità dell'extracomunitario in quanto il suo ingresso e la sua permanenza in Italia sono subordinati ai rilievi dattiloscopici raccolti nel sistema automatizzato in uso alle forze di polizia al solo fine di identificare, pur in presenza di diverse generalità, il soggetto al quale esattamente riferire precedenti penali ovvero elementi ritenuti ostativi al rilascio od al rinnovo del permesso di soggiorno. Tali rilievi riguardano, dunque, direttamente la persona dell'interessato, la cui conoscenza è insuscettibile di arrecare nocumento agli interessi generali in materia di ordine pubblico e sicurezza e, pertanto, non possono costituire una documentazione al medesimo inaccessibile (T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 03 novembre 2010, n. 33121)». (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 24.4.203, n. 2320)

 
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Le sedute della commissione di gara: le deroghe all'indirizzo giurisprudenziale che prevede una sola seduta, senza soluzione di continuità, per la valutazione delle offerte tecniche ed economiche

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Nella sentenza attenzionata il Consiglio di Stato osserva che sebbene, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo di discostarsi, le garanzie di imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza dell’azione amministrativa, postulano che le sedute di una commissione di gara debbano ispirarsi al principio di concentrazione e continuità e che, conseguentemente, la valutazione delle offerte tecniche ed economiche deve avvenire in una sola seduta, senza soluzione di continuità, al fine di scongiurare possibili influenze esterne ed assicurare l’assoluta indipendenza di giudizio dell’organo incaricato della valutazione stessa, è stato tuttavia anche sottolineato che tale principio è soltanto tendenziale (C.d.S., sez. V, 25 luglio 2006, n. 4657; sez. IV, 5 ottobre 2005, n. 5360) ed è suscettibile di deroga, potendo verificarsi situazioni particolari che obiettivamente impediscono l’espletamento di tutte le operazioni in una sola seduta (C.d.S., sez. V, 23 novembre 2010, n. 8155; 3 gennaio 2002, n. 5; 16 novembre 2000, n. 6388), dovendo in questo caso essere minimo l’intervallo tra una seduta e predisporre adeguate garanzie di conservazione dei plichi (C.d.S., sez. III, 31 dicembre 2012, n. 6714). Nel caso in esame l’attività di valutazione delle offerte tecniche presentate dalle imprese partecipanti alla gara è durata meno di due mesi, in particolare dal 30 novembre 2011 (verbale n. 1) al 27 gennaio 2012 (verbale n. 13, laddove nella seduta del 24 febbraio 2012, verbale n. 14, si è proceduto all’apertura delle buste contenente l’offerta economica), periodo che, anche con riferimento alla complessità delle operazioni svolte (di cui i singoli verbali delle sedute danno ampiamente atto), non può essere considerato eccessivo, arbitrario o illogico (anche in ragione dell’intervenuta necessità di sostituire due componenti della commissione), a nulla rilevando che i singoli verbali non contengano alcuna menzione circa la necessità di aggiornare di volta in volta l’attività della commissione, fissando una nuova riunione; né d’altra parte è logico e ragionevole ritenere che le complesse e articolate operazioni di valutazione delle offerte (indicate nei verbali della commissione) potessero effettivamente esaurirsi in un’unica riunione. Non sussiste pertanto la dedotta violazione del principio di concentrazione e continuità delle operazioni di valutazione, tanto più che, come è già stato evidenziato, dal solo numero delle sedute della commissione di gara non possono farsi discendere sospetti circa la regolarità delle operazioni di valutazione (C.d.S., sez. III, 26 settembre 2012, n. 5105). (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.4.2013, n. 2282)

 
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Conservazione e custodia delle buste contenenti le offerta: il Consiglio di Stato indica le regole da seguire nella redazione dei verbali di gara

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Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame traccia l'evoluzione giurisprudenziale susseguitasi in ordine alle modalità di conservazione e di custodia delle buste contenenti le offerte precisando che circa la consistenza del relativo onere di verbalizzazione si sono manifestati due contrapposti orientamenti giurisprudenziali; un primo, più rigoroso (di cui la sentenza impugnata ha fatto applicazione), secondo cui l’omessa menzione nei verbali di gara delle specifiche cautele adottate a tutela dell’integrità e della conservazione delle buste contenenti le offerte determinerebbe di per sé l’illegittimità delle operazioni di gara, indipendentemente dalla dimostrazione dell’effettiva manomissione delle buste e del loro contenuto (cfr., ad es., C.d.S., Sez. V, 28 marzo 2012, n. 1862), ed un secondo, secondo cui sarebbe invece necessario addurre elementi concreti e specifici tali da far ritenere probabile, o quanto meno possibile, la sostituzione delle buste, la manomissione delle offerte o eventuali altri fatti rilevanti ai fini della regolarità della procedura (ex multis, C.d.S., Sez. V, 18 ottobre 2011, n. 5579 e, più di recente, Sez. III, 14 gennaio 2013, n. 145). Tale contrasto giurisprudenziale, pur macroscopicamente e suggestivamente apprezzabile in modo diretto sul piano della ricognizione dei principi risultanti dalle massime delle relative pronunce, si presenta tuttavia più attenuato allorquando si procede ad un esame accurato delle concrete situazioni che ne hanno costituito il substrato materiale, emergendo aspetti peculiari tali da destare quanto meno un ragionevole sospetto circa un’avvenuta effettiva manomissione dei documenti di gara o anche il solo rischio concreto che tale manomissione potesse verificarsi. Peraltro, com’è stato recentemente osservato (C.d.S., sez. III, 5 febbraio 2013, n. 688), nella questione in esame non può prescindersi dal considerare che nelle gare di appalto l’amministrazione ha la piena disponibilità e l’integrale responsabilità della conservazione degli atti di gara, cui in corso del procedimento l’interessato non può subito accedere, giusto quanto stabilito dall’art. 13, comma 2, del D.lgs. n. 163 del 2006, e che spetta quindi alla stessa, ma solo a fronte di una seria e non emulativa allegazione presuntiva dell’interessato circa l’effetto di non genuinità degli atti stessi e fermo il diritto d’accesso, di dar idonea contezza dell’efficacia dei metodi di custodia in concreto adoperati, a tal fine dimostrandola non solo con il verbale (che di per sé ha fede privilegiata), ma pure con ogni idoneo mezzo di prova. Le anomalie che devono quindi essere quantomeno allegate per dimostrare un interesse non emulativo alla custodia dei plichi possono ragionevolmente ricondursi all’eccessiva durata delle operazioni di gara, all’inversione dell’ordine di valutazione tra offerta tecnica ed economica (Consiglio di Stato, Sez. V, 28 marzo 2012, n. 1862), alla sottrazione di un documento di gara ad opera di ignoti ovvero alla presenza di effettivi, puntuali e circostanziati elementi di fatto, idonei a poter essere apprezzati come ragionevoli o non illogici e arbitrari indizi o sintomi di una possibile manomissione dei documenti di gara (Consiglio di Stato, Sez. VI, 27 luglio 2011, n. 4487). In definitiva, in presenza del generale obbligo di custodia dei documenti di una gara pubblica da parte della stazione appaltante è da presumere che lo stesso sia stato assolto con l’adozione delle ordinarie garanzie di conservazione degli atti amministrativi, tali da assicurare la genuinità ed integrità dei relativi plichi, così che la generica doglianza, secondo cui le buste contenenti le offerte non sarebbero state adeguatamente custodite, è irrilevante allorché non sia stato addotto alcun elemento concreto, quali anomalie nell’andamento della gara ovvero specifiche circostanze atte a far ritenere che si possa esser verificata la sottrazione o la sostituzione dei medesimi plichi, la manomissione delle offerte o un altro fatto rilevante al fine della regolarità della procedura. A tale ragionevole e condivisibile impostazione si è attenuta questa stessa Sezione anche con la recentissima sentenza n. 978 del 18 febbraio 2013, dalla quale non vi è motivo di discostarsi, con la quale è stato significativamente ribadito che: "a) la mancata dettagliata indicazione nei verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituisce di per sé motivo di illegittimità del verbale e della complessiva attività posta in essere dalla commissione di gara, dovendo invece aversi riguardo al fatto che, in concreto, non si sia verificata l’alterazione della documentazione; b) la mancanza delle citate cautele assume solo un ruolo indiziario rispetto alla dimostrazione di concreti elementi che facciano dubitare della corretta conservazione, occorrendo comunque provare che vi sia stata una violazione dell’integrità e segretezza dei plichi; c) se il verbale indica che i plichi sono conservati in luogo chiuso, senza ulteriori specificazioni, e se in ciascun verbale si dichiara che i plichi pervenuti risultano tutti integri e debitamente sigillati e firmati sui lembi di chiusura, facendo il verbale prova fino a querela di falso, si deve escludere sia avvenuta una manomissione e che le operazioni di gara siano illegittime; d) una esegesi integrativa dell’art. 78 del Codice dei contratti pubblici consente di definire una più precisa distribuzione dell’onere della prova tra i due soggetti del rapporto procedimentale, tanto affinché tale integrazione non si risolva nella distorsione dei canoni di logicità e di buon andamento dell’attività amministrativa anche nei casi di evidenza pubblica, se non addirittura, in un controllo meramente formale della verbalizzazione, più che del riscontro oggettivo dei fatti…". (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.4.2013, n. 2282)

 
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La presentazione della domanda di sanatoria di abusi edilizi comporta l'improcedibilità dei ricorsi proposti contro i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizioni, inibitorie, ordine di sospensione dei lavori)

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Quando viene presentata domanda di sanatoria di abusi edilizi, diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizioni, inibitorie, ordine di sospensione dei lavori), nel presupposto, così come affermato da ricorrente giurisprudenza, che "sul piano procedimentale, il Comune è tenuto innanzi tutto a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione mentre, dal punto di vista processuale, la documentata presentazione di istanza di condono comporta l’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso i pregressi provvedimenti repressivi" (Consiglio di Stato, Sez. V, 31.10.2012, n. 5553). (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.4.2013, n. 2280)

 
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La destinazione a verde pubblico attrezzato richiede la verifica caso per caso se questa comporti la preclusione pressoché totale di ogni attività edilizia

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La più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato è nel senso che la destinazione a verde pubblico attrezzato abbia di regola natura conformativa, dovendo però verificarsi caso per caso, alla stregua della concreta disciplina urbanistica posta dallo strumento generale, se questa comporti la preclusione pressoché totale di ogni attività edilizia, con conseguente svuotamento sostanziale del diritto di proprietà: solo in tale ultima ipotesi potendosene ritenere il carattere espropriativo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29 novembre 2012, nr. 6094; id., 11 settembre 2012, nr. 4815; id., 16 settembre 2011, nr. 5216). (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.4.2013, n. 2254)

 
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Servizi di trasporto pubblico: la Regione, nell'attività di coordinamento della finanza locale, può rideterminare la quota di finanziamento agli enti locali e può modificare il regime tariffario in ragione di una riduzione dei costi corrispondente ad una riduzione e razionalizzazione degli obbligo del gestore del servizio

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Nel giudizio in esame le società impugnano la delibera giuntale n. 1204 del 29.12.2010, pubblicata sul Bollettino ufficiale in data 24.1.2011, la Regione Lombardia con la quale in attuazione dell'art. 10 della L.r. n. 19 del 2010, si e' previsto: a) una riduzione del finanziamento destinato agli enti locali, ai fini del servizio di trasporto pubblico, per l'anno 2011; b) l'introduzione di nuovi titoli di viaggio integrati e agevolati per il pubblico; c) la concessione di aumenti tariffari dal 10 al 20 per cento, a favore dei gestori, ma alla condizione che questi ultimi aderiscano ai profili tariffari di cui sopra e conseguano obiettivi in termini di qualità e razionalizzazione dei servizi. Si deve osservare, in primo luogo, che la rideterminazione della quota di finanziamento spettante all’ente locale che ha affidato il servizio di trasporto spiega la propria efficacia sul solo piano delle esigenze di coordinamento della finanza pubblica, senza incidere in modo diretto sulle pretese della ricorrente, fondate sul contratto di servizio in forza del quale spettano al gestore sia le tariffe, sia il corrispettivo stabilito a compensazione di obblighi di servizio. Nella specie si rivela carente, in assenza di una puntuale dimostrazione della relativa capacità lesiva, l’interesse a contestare le misure amministrative con le quali, congiuntamente alla decurtazione del finanziamento, si è prevista l’adozione di misure di razionalizzazione del servizio, volte alla riduzione dei costi, in una con il varo di una manovra tariffaria straordinaria che, coniugando aumenti delle tariffe ed introduzione di biglietti integrati a prezzo calmierato, si propone di equilibrare un decremento del corrispettivo cui ha titolo l’affidatario del servizio. Va osservato che, in linea di principio, l’Amministrazione può incidere in via unilaterale sul regime tariffario seguendo la via della rideterminazione degli obblighi di servizio pubblico in correlazione con le tariffe massime per mezzo di un atto amministrativo generale (art. 3, comma 3. del reg. CE n. 1370 del 2007); ovvero quella dell’utilizzazione dello ius variandi attribuitole dal contratto di servizio (art. 19 del D.lgl. n. 422 del 1997). (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.4.2013, n. 2268)

 
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La sussistenza di competenze statali e regionali in materia di bellezze naturali non esclude che la tutela di questi stessi beni sia perseguita in sede di adozione e approvazione di un piano regolatore generale

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L' art. 1 l. 19 novembre 1968 n. 1187, che ha esteso il contenuto del piano regolatore generale anche all'indicazione dei "vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico", legittima l'autorità titolare del potere di pianificazione urbanistica a valutare autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già esistenti posti dalle amministrazioni competenti, ad imporre nuove e ulteriori limitazioni. Ne consegue che la sussistenza di competenze statali e regionali in materia di bellezze naturali non esclude che la tutela di questi stessi beni sia perseguita in sede di adozione e approvazione di un piano regolatore generale." (Cons. Stato, sez. IV, 5 ottobre 1995, n. 781). Si è del pari ritenuto che "il piano regolatore generale, nell'indicare i limiti da osservare per l'edificazione nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico, può disporre che determinate aree siano sottoposte a vincoli conservativi, indipendentemente da quelli disposti dalle commissioni competenti nel perseguimento della salvaguardia delle cose di interesse storico, artistico o ambientale" (Cons. Stato, sez. IV, 14 febbraio 1990, n. 78). Dall’esame congiunto delle coordinate normative e giurisprudenziali passate in rassegna si ricava che la distinzione tra le forme di tutela previste dalla legislazione di settore e le scelte pianificatorie volte alla valorizzazione di complessi edilizi di interesse culturale, storico ed ambientale non risiede nel dato quantitativo relativo all’ambito, puntuale o meno, degli oggetti interessati dalle determinazioni limitative quanto nel dato teleologico relativo alla diversa finalità che permea le rispettive statuizioni amministrative. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.4.2013, n. 2265)

 
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L’individuazione dell’area ove ubicare un’opera pubblica costituisce una scelta tecnico-discrezionale dell’amministrazione, che resta naturalmente sottratta al sindacato di legittimità, salvo evidenti profili di illogicità o abnormità

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Questo il principio affermato nella sentenza in esame con la quale il Consiglio di Stato ha richiamato i precedenti giurisprudenziali consolidati in materia (Cons. Stato, sez. IV, 15 maggio 2008, n. 2247; id., 31 luglio 2007, n. 4051). Su tale premessa in diritto il Consiglio di Stato ha poi rilevato che nel caso di specie risulta che l’Amministrazione ha puntualmente replicato, nella relazione tecnica allegata al progetto definitivo dell’intervento, alle osservazioni che gli interessati avevano proposto a valle della fase della progettazione preliminare: di modo che, come correttamente ritenuto dal primo giudice, a tale relazione può farsi riferimento per l’individuazione delle ragioni sottese alle scelte comunali in ordine agli interventi da realizzare ed alla loro localizzazione, nei limiti in cui l’ente espropriante tali ragioni è tenuto a esplicitare. A fronte di ciò, le parti espropriate sono ovviamente libere di non condividere l’opzione individuata dall’Amministrazione, ed anche di individuarne e proporne altre astrattamente possibili, ma ciò non determina ex se l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione, salvo che in esso non siano ravvisabili quei macroscopici profili di illogicità o di travisamento di cui si è detto. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.4.2013, n. 2257)

 
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Questo il principio affermato nella sentenza in esame con la quale il Consiglio di Stato ha richiamato i precedenti giurisprudenziali consolidati in materia (Cons. Stato, sez. IV, 15 maggio 2008, n. 2247; id., 31 luglio 2007, n. 4051). Su tale premessa in diritto il Consiglio di Stato ha poi rileva ... Continua a leggere

 

Perimetrazione dei parchi: l'evoluzione giurisprudenziale sulla insindacabilità delle scelte della P.A.

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In punto di diritto il Consiglio di Stato nella sentenza in esame premette alcune considerazioni in merito alla sindacabilità delle scelte della p.a. in tema di perimetrazione dei parchi. La insindacabilità nel merito di apprezzamenti discrezionali, come quelli sottesi alla perimetrazione di un Parco naturale, ha conosciuto nel corso del tempo una significativa evoluzione, in linea con i principi costituzionali e comunitari del "giusto processo" – inscindibile dalla effettività della tutela – e del "giusto procedimento amministrativo", che vede la pubblica autorità chiamata a rendere conto in modo sempre più incisivo – e con accresciute modalità di partecipazione e di verifica dei diretti interessati – della razionalità delle proprie determinazioni. Le vecchie formule, che limitavano il sindacato giurisdizionale di legittimità sugli atti discrezionali all’esatta rappresentazione dei fatti ed alla congruità dell’iter logico, seguito dall’Autorità emanante il provvedimento, debbono ormai ritenersi superate dai parametri di attendibilità della valutazione, che sia frutto di discrezionalità tecnica, e di non arbitrarietà della scelta, ove sia stata esercitata una discrezionalità amministrativa. Sotto il primo profilo, infatti, è, ormai, pacificamente censurabile la valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di esattezza o attendibilità, quando non appaiano rispettati parametri tecnici di univoca lettura ovvero orientamenti già oggetto di giurisprudenza consolidata o di dottrina dominante in materia (cfr. in tal senso, per il principio, Cons. St., sez IV, 13.10.2003, n. 6201; Cons. St., sez. VI, 6.2.2009, n. 694; Cons. St., sez. VI; 27.10.2009, n. 6559; Corte europea dei diritti dell’uomo, Albert et Le Compte c. Belgio, par. 29, 10 febbraio 1983 e Obermeier c. Austria, par 70, 28 giugno 1990). Un’evoluzione analoga non può non investire la discrezionalità cosiddetta amministrativa, sotto il profilo non tanto dell’an e del quid, ma del quomodo, soprattutto ove le scelte si proiettino su complessi bilanciamenti di interessi, legati ai parametri costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione. Un criterio di scelta, formulato come discrezionale e pertanto insindacabile nel merito, può, infatti, ritenersi funzionalmente deviato – ed essere sindacabile sul piano della legittimità – "quando non renda esplicita e verificabile la logica interna che lo ispira, non consentendo di appurare l’effettivo perseguimento della scelta ottimale fra più soluzioni possibili, nell’interesse pubblico ed in comparazione con ogni altro possibile interesse – anche privato – coinvolto" (Cons. St., sez. V, 8.3.2012, n. 1330). (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.4.2013, n. 2253)

 
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Il piano quadro è uno strumento parallelo al piano particolareggiato ed è prevista, in alternativa all’uno e all’altro, la possibilità per i privati di presentare un piano di lottizzazione

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Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato ribadisce il principio già precedente affermato a tenore del quale il piano quadro è uno strumento parallelo, nella sostanza, al piano particolareggiato ed è prevista, in alternativa all’uno e all’altro, la possibilità per i privati di presentare un piano di lottizzazione (Cons. St., sez. IV, 19.3.2003, n. 1456). L’alternatività del piano quadro rispetto al piano di lottizzazione si desume chiaramente dall’elaborato grafico (TAV. 3) del PdF nel quale si legge, in modo che non lascia spazio a dubbio alcuno, che "il rilascio delle licenze edilizie è subordinato alla redazione di un piano di lottizzazione convenzionata o di un piano quadro con l’obbligo dell’assunzione degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria". Nel caso di specie poi l’alternatività del piano quadro rispetto al piano di lottizzazione è stata anche riconosciuta, expressis verbis, dalla stessa amministrazione che nel rilasciare alla parte un certificato di destinazione urbanistica ivi precisava che l’edificazione sarebbe stata subordinata alla preventiva approvazione "di un piano di lottizzazione o alternativamente di un piano quadro". (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.4.2013, n. 2252)

 
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Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato ribadisce il principio già precedente affermato a tenore del quale il piano quadro è uno strumento parallelo, nella sostanza, al piano particolareggiato ed è prevista, in alternativa all’uno e all’altro, la possibilità per i privati di presentare un pia ... Continua a leggere

 

Dalla mera adozione di un PRG non discendono in capo agli interessati aspettative edificatorie qualificate rispetto alle successive scelte pianificatorie operate in via definitiva dal Comune con il concorso della Regione

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Nel giudizio in esame il ricorrente impugna la sentenza con la quale il TAR per la Puglia ha rigettato il suo ricorso proposto avverso gli atti relativi alla adozione ed approvazione del Piano Regolatore del Comune di San Cesario di Puglia, per la parte in cui lo stesso ha inserito un immobile di sua proprietà in zona A 1.3 "tessuti edilizi di interesse ambientale e risanamento", ove sono ammessi solo interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, risanamento e restauro conservativo. E ciò a fronte di una precedente inclusione, in sede di adozione del PRG, dell’immobile in zona A.2. Il Consiglio di Stato ha rigettato l'appello innanzi tutto osservato che le scelte di pianificazione effettuate dall’Ente locale in sede di adozione dello strumento urbanistico, afferendo ad una prima fase del più ampio e complesso procedimento di pianificazione generale, culminante nell’approvazione del Piano regolatore, non possono ex se far sorgere aspettative in ordine ad una definitiva zonizzazione di immobili. Dalla mera adozione di un PRG "non possono discendere in capo agli interessati aspettative edificatorie qualificate rispetto alle successive scelte pianificatorie operate in via definitiva dal Comune con il concorso della Regione". Inoltre, in sede di adozione dello strumento urbanistico generale, il Comune non risulta "vincolato" dalle precedenti indicazioni urbanistiche, a maggior ragione laddove le stesse discendano da un mero programma di fabbricazione. Ed infatti, in caso contrario, ogni nuova scelta pianificatoria dell’Ente locale risulterebbe necessariamente "condizionata" (e quindi "depotenziata") dalle scelte effettuate in passato, pervenendosi ad una cristallizzazione (come tale immodificabile) delle destinazioni (e potenzialità edificatorie) dei suoli. A tali fini, appare sufficiente che, in sede di nuova pianificazione generale, l’Ente locale dia conto delle ragioni che sorreggono le scelte di pianificazione effettuate, senza necessità di dover specificamente motivare in ordine ad ogni singola variazione intervenuta. Inoltre, proprio perché il procedimento di approvazione di un Piano regolatore generale si presenta particolarmente complesso e vede l’intervento, oltre che dei cittadini che intendano presentare osservazioni ed opposizioni, anche, con poteri differenti, della Regione, le indicazioni urbanistiche definitive ben possono risultare dalle indicazioni grafiche risultanti dalle planimetrie, purché le stesse si presentino coerenti (e siano dunque sorrette) dalle motivazioni generali che hanno determinato le scelte urbanistiche dell’Ente locale, ovvero l’intervento correttivo della Regione, in sede di approvazione. Ed infine, ben può l’Ente locale, alla luce delle osservazioni, prescrizioni e/o condizioni espresse dalla Regione in sede di approvazione del Piano regolatore, riparametrare talune sue scelte, senza necessità – perché si possa intervenire su singole zonizzazioni – di una indicazione puntuale, cioè riferita specificamente ad una specifica area od immobile, della Regione medesima. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.4.2013, n. 2250)

 
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AVCP, in Gazzetta Ufficiale il regolamento che modifica la disciplina sul procedimento per la soluzione delle controversie ai sensi dell'art. 6, comma 7, lettera n), del D.lgs n. 163/2013

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Entra in vigore oggi 9.5.2013 il nuovo procedimento demandato all'Autorità per la vigilanza sui Contratti Pubblici, servizi e forniture che ha inizio su istanza di parte e si conclude con un Parere dell'Autorità, salvo il caso di istanze inammissibili o improcedibile per le quali si procede con l'archiviazione. Possono presentare istanza di parere secondo il modello allegato al Regolamento i seguenti soggetti: 1) la stazione appaltante, in persona del soggetto legittimato ad esprimere all'esterno la volonta' del richiedente; 2) l'operatore economico, in persona del soggetto legittimato ad esprimere all'esterno la volonta' del richiedente. L'istanza puo' essere presentata congiuntamente dalla stazione appaltante e da una o piu' parti interessate oppure singolarmente da ognuno dei soggetti anzidetti. L'istruttoria prevede la pissibile audizione delle parti interessate presso l'Autorita, entro dieci giorni dall'avvio del procedimento, con registrazione vocale verbalizzazione vocale dell'audizione che fa fede di verbale. Per accedere al sito della Gazzetta Ufficiale e acquisire il testo per esteso del provvedimento cliccare sul titolo sopra linkato. (AVCP, provvedimento 24.4.2013, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 8.5.2013, n. 106)

 
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Entra in vigore oggi 9.5.2013 il nuovo procedimento demandato all'Autorità per la vigilanza sui Contratti Pubblici, servizi e forniture che ha inizio su istanza di parte e si conclude con un Parere dell'Autorità, salvo il caso di istanze inammissibili o improcedibile per le quali si procede con l'a ... Continua a leggere

 
 
 
 
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