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Appalti Pubblici: la prova necessaria per il riconoscimento del danno da perdita di chance per la mancata indizione di una nuova gara
Il giudizio in esame concerne l'impugnazione da parte del Comune dell'Aquila della sentenza del TAR con la quale veniva condannato al risarcimento, in favore della Ditta ricorrente, del danno quantificato nella percentuale dell’1% dell’ammontare complessivo dell’appalto, oltre interessi e rivalutazione monetaria. In particolare nel giudizio di primo grado la concorrente alla gara aveva agito per ottenere il ristoro del danno subito per l’inutile partecipazione a detta gara ab origine viziata e per la perdita della chance di vedersi aggiudicato l’appalto, laddove l’amministrazione avesse provveduto come di dovere a rinnovare la procedura concorsuale. La perdita di chance è stata causata dal permanere nella gestione del servizio dell’aggiudicataria e dalle proroghe a questa concesse dal Comune dell’Aquila, poi annullate dal Tar Abruzzo. La mancata indizione di una nuova gara e le illegittime proroghe del servizio hanno in tal modo frustrato l’interesse della ricorrente alla partecipazione ad una nuova procedura concorsuale che avrebbe dovuto essere indetta e che la stessa, anche in forza dell’esperienza maturata per aver nel passato svolto il servizio, avrebbe potuto aggiudicarsi. Nella peculiare situazione di fatto testè delineata, quindi, la mera caducazione degli atti di gara non risulta oggettivamente sufficiente a ristorare il danno subito dalla ricorrente. Le citate voci di danno, ad avviso del Consiglio di Stato, conseguono direttamente agli atti impugnati ed annullati, senza che possa pretendersi la prova che si sarebbe certamente aggiudicata il servizio all’esito della rinnovata gara. Il riconoscimento del danno da perdita di chance non può intendersi subordinato all'offerta in giudizio da parte dell’interessato di una prova in termini di certezza, perché ciò è oggettivamente incompatibile con la natura di tale voce di danno, risultando quindi sufficiente che gli elementi addotti, in virtù del principio contenuto nell'art. 2697 c.c., consentano una prognosi concreta e ragionevole circa la possibilità di vantaggi futuri, invece impediti a causa della condotta illecita altrui (così Cons. Stato, Sez. V, 18 aprile 2012, n. 225). (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 2.5.2013, n. 2399)
Il giudizio in esame concerne l'impugnazione da parte del Comune dell'Aquila della sentenza del TAR con la quale veniva condannato al risarcimento, in favore della Ditta ricorrente, del danno quantificato nella percentuale dell’1% dell’ammontare complessivo dell’appalto, oltre interessi e rivalutaz ... Continua a leggere
Procedure ad evidenza pubblica: fino a quando non sia intervenuta l’aggiudicazione, rientra nel potere discrezionale dell’amministrazione disporre la revoca del bando di gara e degli atti successivi ove sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara
L’amministrazione è notoriamente titolare del potere, riconosciuto dall’art. 21 quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241, di revocare per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, un proprio precedente provvedimento amministrativo (C.d.S., sez. V, 18 gennaio 2011 , n. 283). Con riguardo alle procedure ad evidenza pubblica è stato considerato legittimo il provvedimento di revoca di una gara di appalto, disposta in una fase non ancora definita della procedura concorsuale, ancora prima del consolidarsi delle posizioni delle parti e quando il contratto non è stato ancora concluso, motivato anche con riferimento al risparmio economico che deriverebbe dalla revoca stessa, ciò in quanto la ricordata disposizione ammette un ripensamento da parte della amministrazione a seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario (C.d.S., sez. III, 15 novembre 2011, n. 6039; 13 aprile 2011 , n. 2291); è stato ripetutamente ribadito che fino a quando non sia intervenuta l’aggiudicazione, rientra nel potere discrezionale dell’amministrazione disporre la revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara, puntualizzando che le ragioni tecniche nell’organizzazione del servizio attinenti le concrete modalità di esecuzione, il riassetto societario, la volontà di provvedere in autoproduzione e non mediante esternalizzazione, la necessità di consentire attraverso tale scelta organizzativa un maggior assorbimento di personale in un quadro di attività concertate in sede sindacale mirante alla valorizzazione del personale interno, sono tutti profili attinenti al merito dell’azione amministrativa e di conseguenza insindacabili da parte del giudice, in assenza di palesi e manifesti indici di irragionevolezza (C.d.S., sez. V, 9 aprile 2010 , n. 1997); anche il riferimento al risparmio economico derivante dalla revoca è stato ritenuto legittimo motivo della stessa (C.d.S., sez. V, 8 settembre 2011, n. 5050). (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 2.5.2013, n. 2400)
L’amministrazione è notoriamente titolare del potere, riconosciuto dall’art. 21 quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241, di revocare per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario ... Continua a leggere
L'impresa aggiudicataria può, nell'ambito del subprocedimento di verifica della congruità dell'offerta presentata, rimodulare le quantificazioni dei costi e dell'utile, indicate nella relazione giustificativa dell'offerta economica
In sede di verifica possono essere rimodulate le quantificazioni dei costi e dell’utile purché non venga modificato l’importo complessivo della offerta formulata, atteso che (premesso che nell'interpretazione del dato normativo non può trascurarsi che la "ratio" cui è preordinato il meccanismo di verifica della offerta anomala è pur sempre la piena affidabilità della proposta contrattuale, senza però che possa essere modificato l'importo complessivo dell'offerta presentata) è condivisibile l'orientamento giurisprudenziale (Consiglio Stato, Sez. V, Sent. n. 653 del 10.2.2010), secondo cui l'impresa aggiudicataria può, nell'ambito del subprocedimento di verifica della congruità dell'offerta presentata, rimodulare le quantificazioni dei costi e dell'utile, indicate nella relazione giustificativa dell'offerta economica. Il subprocedimento di giustificazione dell'offerta anomala deve prevedere la inammissibilità solo delle giustificazioni che, nel tentativo di far apparire seria un'offerta che invece non è stata adeguatamente meditata, risultano tardivamente finalizzate ad un'allocazione dei costi diversi rispetto a quella originariamente indicata. Per le stesse ragioni non è consentita l'immotivata rimodulazione di voci di costo al solo scopo di far quadrare i conti, al fine cioè di assicurare che il prezzo complessivo offerto resti immutato, superando le contestazioni della stazione appaltante su alcune voci di costo; ciò proprio perché, nel giudizio di congruità dell'offerta, esplicazione di valutazioni tecniche sindacabili solo in caso di illogicità manifesta o di erroneità fattuale, non è in questione soltanto della generica capienza dell'offerta, ma anche la sua serietà (Consiglio di Stato, sez. V, 30 novembre 2012, n. 6117). (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 2.5.2013, n. 2401)
In sede di verifica possono essere rimodulate le quantificazioni dei costi e dell’utile purché non venga modificato l’importo complessivo della offerta formulata, atteso che (premesso che nell'interpretazione del dato normativo non può trascurarsi che la "ratio" cui è preordinato il meccanismo di v ... Continua a leggere
La tutela vincolististica delle Ville vesuviane: la previsione della pubblicazione dell’elenco nella Gazzetta ufficiale costituirebbe un adeguato strumento di conoscenza del vincolo che sostituisce l’usuale notificazione
Nel giudizio in esame la ricorrente ha acquistato una la villa vesuviana che decreto ministeriale 19 ottobre 1976 era stata stata inserita nell’elenco delle ville vesuviane, di cui all’art. 13 della legge 29 luglio 1971, n. 578. Con decreto 7 aprile 2003, n. 871 il Direttore generale del Ministero per i beni culturali e ambientali ha esercitato il diritto di prelazione sulla predetta villa. Tale atto è stato impugnato dall’interessata innanzi al Tribunale amministrativo regionale della Campania che accoglieva il ricorso in quanto non essendo stato il vincolo notificato e trascritto, non poteva essere opposto all’acquirente. Il Ministero per i beni e le attività culturali ha proposto appello che è' stato accolto dal Consiglio di Stato. Nella motivazione si legge che l’art. 1, terzo comma, della legge 1° giugno 1939 n. 1089 (Tutela delle cose di interesse artistico e storico) – con disposizione poi ripresa, in continuità della fattispecie, dall’art. 2, comma 2, lett. f) d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 e poi dall’art. 10, comma 4, lett. f) d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 – elenca tra le cose di interesse storico e artistico (nella successiva terminologia: beni culturali) le ville che abbiano interesse artistico o storico. Il successivo art. 2 – con disposizione poi ripresa, in continuità della fattispecie, dall’art. 2, comma 1, lett. b) d.lgs. n. 490 del 1999 e poi dall’art. 10, comma 3, lett. d) d.lgs. n. 42 del 2004 - prevedeva che sono, altresì, sottoposte a tutela «le cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura in genere, siano state riconosciute di interesse particolarmente importante». Mentre all’epoca dell’entrata in vigore della legge n. 578 del 1971 vigevano le disposizioni della l. n. 1089 del 1939, all’epoca (2003) dell’atto di prelazione per cui è causa vigevano quelle del d.lgs. n. 490 del 1999: ma, in ragione della continuità sostanziale delle norme ivi contenute, può farsi riferimento all’una e all’altra normativa. Gli artt. 2, comma 1, e 3 della l. n. 1089 del 1939 stabilivano che il Ministero competente notificasse in forma amministrativa le cose mobili e immobili riconosciute di interesse particolarmente importante. L’art. 2, comma 2, disponeva, poi, limitatamente ai beni immobili, che la notifica, su richiesta del Ministero, fosse trascritta nei registri immobiliari. Gli artt. 31-34 della stessa legge prevedevano che, in presenza di culturali cose d’arte, il Ministero competente potesse esercitare, nel caso di alienazione a titolo oneroso, il diritto di prelazione nel rispetto del procedimento prefigurato dalle stesse disposizioni. Similmente dispongono sia il d.lgs. n. 490 del 1999, sia oggi il d.lgs. n. 42 del 2004. La speciale legge n. 578 del 1971 ha previsto che «allo scopo di provvedere alla conservazione, al restauro e alla valorizzazione del patrimonio artistico costituito dalle ville vesuviane del secolo XVIII è costituito, sotto la vigilanza del Ministero della pubblica istruzione, un consorzio fra lo Stato, la regione Campania, la provincia di Napoli ed i comuni di Napoli, Ercolano, Portici, San Giorgio a Cremano, Torre Annunziata e Torre del Greco». L’art. 13 della stessa legge prevede che il consiglio di amministrazione dell’Ente provvede alla nomina, nel suo ambito, «di una commissione per la ricognizione delle ville vesuviane del secolo XVIII, avente lo scopo di rilevare le condizioni di ciascuna, di compilare l'elenco di quelle suscettibili di restauro e di indicare i lavori necessari per le relative opere». La stessa disposizione dispone che: «La commissione conclude i suoi lavori, entro sei mesi dalla propria costituzione, con una relazione da inviare, unitamente all'elenco di cui al primo comma, al Ministro per la pubblica istruzione, il quale, entro sessanta giorni dal ricevimento, approva l'elenco stesso e ne dispone la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale». Con il citato decreto ministeriale 19 ottobre 1976 è stato approvato il predetto elenco, nel cui ambito è stata inclusa anche la villa per cui è causa, che è stato, poi, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Chiarito ciò, per la risoluzione della controversia, occorre stabilire se l’esistenza del vincolo e la sua opponibilità, ai fini del successivo esercizio del diritto di prelazione, deve essere riconosciuta alla luce della legge generale o di quella speciale. Nello schema generale della legge del 1939 (e delle successive rammentate) le tipologie di cose ivi indicate vengono, in base ad un provvedimento di accertamento, assoggettate al particolare regime di tutela vincolistica. La sottoposizione del bene alle disposizioni di tutela discende in via diretta dalle intrinseche qualità e caratteristiche del bene (Cons. Stato, VI, 22 aprile 2010, n. 2278). La giurisprudenza amministrativa ha più volte avuto modo di affermare che la notificazione non ha di suo una funzione costitutiva del vincolo, perché segue ad una ricognizione delle intrinseche qualità della cosa dalla quale nasce l’applicazione oggettiva per essa di quel regime: la sua funzione è piuttosto preordinata a creare nel proprietario, possessore o detentore la conoscenza legale degli obblighi incombenti (Cons. giust. amm. sic. 4 febbraio 1985, n. 12; Cons. Stato, IV, 22 novembre 1967, n. 632). La trascrizione, per le cose immobili, assolve alla finalità di rendere opponibili ai terzi acquirenti il vincolo imposto. La legge speciale n. 578 del 1971 chiaramente si inserisce – per l’identità di ragione e di finalità – come normativa speciale rispetto alla ricordata normativa generale in tema di tutela dei beni culturali: la previsione di interventi o sussidi pubblici, o di particolari obblighi di fare testualmente ivi prevista (es. art. 14: «eseguire i lavori di consolidamento, manutenzione e restauro necessari per assicurare la conservazione, ovvero per impedire il deterioramento degli immobili»), logicamente presuppone l’insistenza quelli di non fare di cui alla legge generale, o gli altri assoggettamenti, come ad esempio la prelazione pubblica in caso di vendita. Nell’impostazione di questa legge speciale, la natura culturale del bene discende, anche in questo caso, dalle qualità intrinseche della cosa tutelata. La ricognizione che conduce alla costituzione in concreto e all’applicazione del regime di tutela si manifesta qui attraverso l’inclusione negli elenchi dell’art. 13. In principio, pertanto, è solo la modalità di questo accertamento costitutivo che caratterizza, sotto questo profilo, la legge speciale rispetto alla generale. Il metodo del pubblicando elenco (con le forme previste da quella legge), in luogo del notificando provvedimento individuo della legge generale, non muta la ragione e gli effetti dell’intervento amministrativo. Piuttosto, è da considerare che l’esistenza di una serie di cose immobili connotate sì da specifiche individualità, ma al tempo stesso unite da una comune caratterizzazione storica e tipologica, giustifica sia questa procedura a carattere collettivo, sia una conseguente peculiare disciplina di conoscenza dell’esistenza del vincolo, che è quella descritta dalla stessa legge speciale. E’ prevista, infatti, la pubblicazione dell’elenco nella Gazzetta ufficiale, che serve per rendere edotto sia l’attuale proprietario sia i successivi ed eventuali acquirenti dell’esistenza del vincolo. Tale forma di pubblicazione renderebbe un inutile aggravio la notifica individua in forma amministrativa e la successiva trascrizione. In definitiva, il legislatore ha ritenuto che, in presenza di un complesso di beni omogenei, quali sono le Ville vesuviane da iscrivere in quegli elenchi, fosse necessario sottoporle ad un regime specialistico che contempla quale unico e sufficiente strumento di conoscenza per il destinatario diretto del vincolo e per i suoi eventuali terzi acquirenti la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale. Il che sostituisce l’usuale notificazione. Deve, pertanto, ritenersi che al terzo acquirente sia opponibile l’apposizione del vincolo e pertanto legittimo l’esercizio del diritto di prelazione. Per le ragioni sin qui esposte l’atto con il quale è stato esercitato il diritto di prelazione si sottrae alle censure prospettate. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 6.5.2013, n. 2420)
Nel giudizio in esame la ricorrente ha acquistato una la villa vesuviana che decreto ministeriale 19 ottobre 1976 era stata stata inserita nell’elenco delle ville vesuviane, di cui all’art. 13 della legge 29 luglio 1971, n. 578. Con decreto 7 aprile 2003, n. 871 il Direttore generale del Ministero ... Continua a leggere
Autorizzazione unica regionale per la realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili: le determinazioni conclusive delle conferenze decisorie non sono autonomamente impugnabili
La semplificata e concentrata disciplina procedimentale ad hoc per l’autorizzazione unica regionale per la realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili è definita dall'art. 12 del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità), il quale – al comma 3 - individua nella conferenza di servizi (detta decisoria) il modulo procedimentale ordinario essenziale alla formazione del successivo titolo abilitativo funzionale alla costruzione e all'esercizio di tali impianti. Ai sensi del richiamato comma 3, l'autorizzazione "va rilasciata nel rispetto delle normative vigenti in materia di tutela dell'ambiente, di tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico"; e ai sensi del comma 4 in relazione a tale procedimento trovano applicazione, per quanto non diversamente previsto, le disposizioni generali sul procedimento amministrativo di cui alla l. 7 agosto 1990, n. 241. Ebbene, per quanto riguarda i lavori della conferenza di servizi, ai sensi della stessa l. n. 241 del 1990, l'autorità procedente cui spetta l'iniziativa di indire la conferenza di servizi, assume la determinazione conclusiva tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse in sede di conferenza (art. 14-ter,comma 6-bis). Tanto però non si verifica, come appunto è avvenuto nel caso di specie, ove in sede di conferenza sia espresso il dissenso da parte di un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità. In tal caso l'eventuale superamento del dissenso deve avvenire seguendo le specifiche vie procedimentali appositamente stabilite dal successivo articolo 14-quater (in tal senso: Cons. giust. amm. sic., 11 aprile 2008, n. 295; Cons. Stato, VI, 22 febbraio 2010, n. 1020; id., 23 febbraio 2011, n. 1132; id., 23 maggio 2012, n. 3039; 15 gennaio 2013, n. 220): il che è dalla legge (art. 14-quater, comma 3) previsto "in attuazione e nel rispetto del principio di leale collaborazione e dell'articolo 120 della Costituzione". Pertanto, nell’ambito del particolare modulo procedimentale di cui all’articolo 12 del decreto legislativo n. 387 del 2003, il rinvio alle disposizioni di cui agli articoli 14 e seguenti della legge n. 241 del 1990 in materia di conferenza di servizi è operato in modo pieno ed integrale, il rende applicabili gli orientamenti formatisi in subiecta materia. Al riguardo, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha stabilito che non può ritenersi non applicabile, in tema di autorizzazione unica, l'art. 14-quater della legge n. 241 del 1990 (in tema di effetti del dissenso espresso in sede di conferenza di servizi anche da parte di un’amministrazione preposta alla tutela di un valore ‘sensibile’ di rilievo costituzionale). Tale integrale applicabilità discende – tra l’altro – dall’espresso richiamo allo strumento della conferenza di servizi nella sua disciplina unitariamente intesa contenuto nell'art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003. La disposizione da ultimo richiamata, infatti, individua nella conferenza di servizi (detta decisoria) il modulo procedimentale ordinario essenziale alla formazione del successivo titolo abilitativo funzionale alla costruzione e all'esercizio di tali impianti (in tal senso: Cons. Stato, VI, 15 gennaio 2013, n. 220). Ebbene, una volta chiarito che in tema di conferenze di servizi decisorie prodromiche al rilascio delle autorizzazioni uniche di cui all’articolo 12, cit., trovano applicazione le coordinate interpretative proprie dell’autorizzazione unica, troverà altresì applicazione il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui gli atti presupposti a tale rilascio (ad es., i pareri e le posizioni espresse in sede di conferenza di servizi) costituiscono atti interni di una conferenza di servizi decisoria, nei cui confronti non è in via di principio ammissibile una impugnazione diretta. E’ evidente, infatti, che la risoluzione in parte qua della controversia è strettamente connessa all'opzione ermeneutica preferibile in ordine al se possa riconoscersi il carattere dell'immediata lesività (e quindi, dell'immediata impugnabilità) alle determinazioni conclusive adottate in sede di conferenza di servizi decisoria e, prima ancora, alle posizioni in tale sede espresse dalle singole amministrazioni. Ad avviso del Collegio, al quesito deve fornirsi risposta negativa, ragione per cui deve essere confermata la decisione del primo giudice, il quale ha ritenuto che le determinazioni conclusive delle conferenze decisorie (e, a maggior ragione, le prodromiche valutazioni espresse dalle amministrazioni partecipanti alla conferenza di servizi, che qui vengono in rilievo) abbiano valenza meramente endoprocedimentale e che, conseguentemente, non siano autonomamente impugnabili. Come già in altre occasioni osservato (ex plurimis: Cons. Stato, VI, 3 dicembre 2009, n. 7570; id., VI, 11 novembre 2008, n. 5620), il dibattito circa i rapporti sistematici fra la determinazione conclusiva della conferenza (commi 6-bis e 9 dell'art. 14-ter, l. 241 del 1990 e ss.mm.ii.) e il provvedimento finale (in base ad un approccio dicotomico introdotto dalla l. n. 340 del 2000 e sostanzialmente confermato dalla l. n. 15 del 2005), così come il dubbio circa il se la valenza lesiva per la sfera dell'interessato (e il conseguente onere di impugnativa) siano da riconnettere al primo ovvero al secondo di tali atti, sono questioni che hanno interessato la dottrina e la giurisprudenza sin dalla riforma dell'istituto della conferenza di servizi (l. n. 340 del 2000, cit.) e il cui esame ha ricevuto ulteriori indicazioni all'indomani dell'entrata in vigore della l. n. 15 del 2005, la quale ha in parte modificato il quadro normativo di riferimento. Si osserva, inoltre, che nella vigenza del sistema delineato dalla l. n. 340 del 2000 i pochi precedenti sulla questione hanno concluso nel senso del carattere immediatamente lesivo della determinazione conclusiva della conferenza di servizi (sul punto, cfr. Cons. Stato, VI, 1 luglio 2003, n. 5708). Al riguardo, la giurisprudenza in questione aveva fondato le proprie conclusioni essenzialmente su tre argomenti: a) in primo luogo, sul disposto di cui al comma 2 dell'art. 14-quater (nel testo introdotto dall'art. 12 della l. n. 340 del 2000) il quale, nel disciplinare l'ipotesi del dissenso espresso in sede di conferenza, stabiliva espressamente che la determinazione conclusiva avesse carattere immediatamente esecutivo; b) in secondo luogo, sul disposto di cui al comma 7 dell'art. 14-ter (nel testo introdotto dall'art. 10 della l. 340 del 2000), a tenore del quale la determinazione conclusiva della conferenza era immediatamente impugnabile da parte dell'Amministrazione dissenziente; c) in terzo luogo, sull'espressa previsione normativa (comma 9 dell'art. 14-ter) secondo cui il provvedimento finale non potrebbe che avere un carattere conforme rispetto al contenuto della richiamata determinazione conclusiva (dal che emergerebbe che il contenuto prescrittivo di quanto stabilito in sede di conferenza, la relativa valenza lesiva ed il conseguente onere di impugnativa non potrebbero che essere anticipati al momento di adozione della richiamata determinazione conclusiva). Nella tesi in questione, pertanto, al provvedimento conclusivo dovrebbe essere riconosciuto un carattere meramente ricognitivo e non anche di tipo costitutivo-provvedimentale. Al riguardo, mette anche conto segnalare che la correttezza del richiamato orientamento giurisprudenziale fosse stata revocata in dubbio da un diverso orientamento (di matrice essenzialmente dottrinale), il quale sottolineava che al provvedimento conclusivo della fattispecie dovesse riconoscersi un indubbio carattere costitutivo quanto meno nelle ipotesi in cui il dissenso postumo espresso al di fuori della conferenza avesse condotto ad un esito finale difforme rispetto a quello trasfuso nella determinazione conclusiva dei lavori della conferenza medesima. Tale essendo il quadro ricostruttivo nella vigenza del sistema delineato dalla l. n. 340 del 2000, il Collegio osserva che a conclusioni affatto diverse debba giungersi con riferimento alla nuova disciplina in materia di conferenza di servizi introdotta ad opera della l. n. 15 del 2005 (che trova applicazione nel caso di specie). Ad avviso del Collegio, infatti, all'indomani della riforma del 2000 prevale la tesi secondo cui sussiste ancora uno iato sistematico fra la determinazione conclusiva della conferenza di tipo decisorio (nonché –a fortiori – fra le posizioni espresse in sede di conferenza dalla singola amministrazione) e il successivo provvedimento finale, nonché la tesi secondo cui solo al secondo di tali atti possa essere riconosciuta una valenza effettivamente determinativa della fattispecie (con conseguente sorgere dell'onere di immediata impugnativa), mentre alla determinazione conclusiva deve essere riconosciuto un carattere meramente endoprocedimentale. Ad avviso del Collegio, almeno tre argomenti depongono nella direzione indicata. In primo luogo, appare rilevante osservare l’espressa abrogazione, da parte del legislatore del 2000, della previsione normativa (comma 2 dell'art. 14-quater) circa il carattere immediatamente esecutivo della determinazione conclusiva dei lavori della conferenza. Al riguardo, non sfugge al Collegio che la disposizione oggetto di abrogazione era collegata ad una disciplina normativa in tema di superamento del dissenso che la riforma del 2005 ha inteso modificare. Si osserva, tuttavia, che la notazione in parola non conduce a conclusioni diverse da quelle appena richiamate, atteso che l'ultimo periodo del comma 2, cit. (secondo cui "la determinazione è immediatamente esecutiva") presentava una propria evidente autonomia concettuale rispetto al sistema di componimento dei dissensi di cui alla l. n. 340 del 2000, con la conseguenza che la sua espunzione dall'ordinamento non possa essere intesa, se non come espressione di una piana voluntas legis volta al superamento del carattere di autonoma impugnabilità della richiamata determinazione conclusiva. In secondo luogo appare rilevante sottolineare l'espressa abrogazione, ad opera della l. 15 del 2005, della previsione normativa (comma 7 dell'art. 14-ter) che consentiva alle Amministrazioni dissenzienti di impugnare direttamente ed immediatamente la determinazione conclusiva della conferenza di servizi. In terzo luogo si osserva che, se da un lato appare innegabile che il sistema introdotto nel 2005 sia ispirato dall'intento di anticipare già al momento della conclusione dei lavori della conferenza la palese espressione delle volontà da parte delle amministrazioni partecipanti (in particolare, abrogando il meccanismo del c.d. "dissenso postumo" e la possibilità con esso connessa di ribaltamenti di posizioni fra il momento della determinazione conclusiva e quello del provvedimento finale), dall'altro lato ciò non possa indurre a ritenere che le medesime esigenze di semplificazione e concentrazione comportino anche la dequotazione sistematica delle ragioni sottese alla distinzione fra il momento conclusivo dei lavori della conferenza e il successivo momento provvedimentale. A riguardo il Collegio ritiene condivisibili le linee di fondo dell'orientamento interpretativo (delineato all'indomani della riforma del 2000 in particolare nella giurisprudenza di primo grado) secondo cui la scelta del legislatore del 2000 di lasciare inalterata la richiamata struttura dicotomica esprime un orientamento di fondo per cui il provvedimento finale non rappresenta soltanto una sorta di momento meramente riepilogativo (e dichiarativo) delle determinazioni assunte in sede di conferenza, ma che un vero e proprio momento costitutivo delle determinazioni conclusive del procedimento. E' stato condivisibilmente affermato al riguardo che, nella richiamata ottica, l'espresso mantenimento di una struttura bifasica (articolato fra la fase comunque procedimentale che si conclude con la determinazione conclusiva della conferenza e la successiva fase provvedimentale) è ispirato dalla volontà di consentire che il cittadino interessato dal procedimento di cui agli artt. 14 e segg. abbia come referente ed interlocutore il solo responsabile del complessivo procedimento e, quindi, una sola Amministrazione, lasciando che il concerto fra le Amministrazioni resti all'interno dei processi decisionali amministrativi. Questo assunto (che sottolinea lo iato sistematico fra il momento procedimentale - o della dialettica/sintesi fra posizioni - ed il momento provvedimentale - o determinativo degli effetti per il destinatario finale -) è, del resto, coerente con gli orientamenti della l. n. 15 del 2005, che è volta ad enfatizzare la valenza sistematica e la piena autonomia concettuale, nell'ambito dell'azione amministrativa, dell’espressione provvedimentale. Ancora, la scelta di mantenere un provvedimento espresso come momento conclusivo della complessiva vicenda corrisponde alla volontà di lasciare inalterato il complessivo sistema di garanzie trasfuso nel nuovo Capo IV-bis della l. n. 241 del 1990, con particolare riguardo all'onere di comunicazione, all'acquisto di efficacia e - sussistendone le condizioni - al carattere di esecutorietà del provvedimento. Sotto tale aspetto, appare non plausibile che la scelta del legislatore del 2005, laddove si è risolta nella scelta di mantenere nell'economia complessiva della conferenza di servizi un momento claris verbis provvedimentale (art. 14-ter, cit., comma 9), sia da intendere come un sorta di lapsus calami del legislatore (atteso che il provvedimento non rappresenterebbe altro, se non un "atto meramente esecutivo e consequenziale delle determinazioni assunte in sede di conferenza di servizi" - si richiama nuovamente quanto affermato, nella vigenza della precedente disciplina: Cons. Stato, sent. 5708 del 2003, cit. ). In definitiva, è condivisibile l'orientamento secondo cui, anche all'indomani della riforma del 2005, la scelta di mantenere sostanzialmente inalterata la struttura bifasica testimonia un modello che il legislatore ha inteso far proprio nel fissare le regole di funzionamento della conferenza di servizi e che si compendia nella necessità che, all'esito dei lavori della conferenza decisoria, sopraggiunga pur sempre un provvedimento conclusivo (del quale la conferenza rappresenta solo un passaggio procedurale) avente la veste di atto adottato, in via ordinaria, da un organo monocratico dell'Amministrazione procedente. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 6.5.2013, n. 2417)
La semplificata e concentrata disciplina procedimentale ad hoc per l’autorizzazione unica regionale per la realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili è definita dall'art. 12 del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa al ... Continua a leggere
Il termine fissato alla soprintendenza competente per l’eventuale annullamento della autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (ovvero dall’ente subdelegato), nel regime transitorio ex art. 159, comma 3, d.lgs. n. 42/2004, per quanto di natura perentoria, è previsto dalla legge soltanto ai fini dell’adozione dell’eventuale provvedimento di annullamento e non anche per la sua comunicazione ai soggetti interessati
Secondo un consolidato orientamento (tra le tante, Cons. Stato, VI sez., 8 marzo 2006 n. 1261; VI, 29 dicembre 2008, n.6586), il termine fissato alla soprintendenza competente per l’eventuale annullamento della autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (ovvero dall’ente subdelegato), nel regime transitorio di cui al citato art. 159, comma 3, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (che riproduce la norma già contenuta dapprima nell’art. 82 d.PR 24 luglio 1977, n. 616 – come modificato dall’art. 1 l. 8 agosto 1985, n. 431, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312 - e poi nell’art. 151 del d.lgs. 29 ottobre1999, n. 490), per quanto di natura perentoria, è previsto dalla legge soltanto ai fini dell’adozione dell’eventuale provvedimento di annullamento e non anche per la sua comunicazione ai soggetti interessati. In altri termini, perché possa dirsi rispettato il suddetto termine è sufficiente che l’atto sia adottato nel termine per provvedere, non dovendosi ricomprendere nel computo del termine stesso l’attività successiva di partecipazione di conoscenza dell’atto ai suoi destinatari. A tali conclusioni la giurisprudenza è pervenuta in considerazione della natura non recettizia di questo tutorio annullamento, che è espressione di cogestione attiva del vincolo paesaggistico (Cons. Stato, Ad. plen., 14 dicembre 2001, n. 9), e della conseguente ininfluenza, ai fini della sua validità, della comunicazione ai diretti interessati nell’arco temporale fissato dalla legge per l’adozione del provvedimento. Correttamente la sentenza impugnata ha escluso il carattere invalidante della mancata tempestiva comunicazione dell’annullamento, una volta accertato che la sua adozione è avvenuta nel rispetto del termine per provvedere. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 6.5.2013, n. 2410)
Secondo un consolidato orientamento (tra le tante, Cons. Stato, VI sez., 8 marzo 2006 n. 1261; VI, 29 dicembre 2008, n.6586), il termine fissato alla soprintendenza competente per l’eventuale annullamento della autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (ovvero dall’ente subdelegato), ne ... Continua a leggere
Annullamento ministeriale del l'autorizzazione paesaggistica: l'eccesso di potere della Soprintendenza per l'intromissione nel merito di valutazioni paesaggistiche riservate all’autorità locale
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame per quanto attiene alla questione della lamentata illegittimità dell’annullamento ministeriale per omessa istruttoria e motivazione, e comunque per aver la Soprintendenza esorbitato dai limiti propri del suo potere, con intromissione nel merito di valutazioni paesaggistiche riservate all’autorità locale, ha ricordato, in ordine agli aspetti sostanziali della potestà in esame, che la giurisprudenza ha unanimemente riconosciuto che il potere ministeriale di annullamento delle autorizzazioni paesaggistiche, pur non essendo espressione di un potere di riesame nel merito del provvedimento di base, investe tuttavia ogni aspetto della legittimità dell’atto sottoposto al suo scrutinio, ivi compreso l’eccesso di potere per vizio di motivazione (tra le altre, Cons. Stato, Ad. plen., 14 dicembre 2001, n. 9; Cons. Stato, VI, 9 aprile 2001 n. 2152). In quest’ambito, pertanto, l’autorità ministeriale non è impedita di – e anzi deve, ad estrema difesa del vincolo (cfr. Corte cost., 27 giugno 1986, n. 151; 18 ottobre 1996, n. 341; 25 ottobre 2000, n. 437) - vagliare, in relazione alla fattispecie concreta, la congruenza del giudizio di compatibilità paesaggistica dell’intervento. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 6.5.2013, n. 2410)
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame per quanto attiene alla questione della lamentata illegittimità dell’annullamento ministeriale per omessa istruttoria e motivazione, e comunque per aver la Soprintendenza esorbitato dai limiti propri del suo potere, con intromissione nel merito di valut ... Continua a leggere
Una situazione paesisticamente compromessa ad opera di preesistenti realizzazioni, anziché impedire, maggiormente richiede per la legittimità dell’azione amministrativa che nuove costruzioni non deturpino esteriormente l’ambito protetto
La già intervenuta compromissione dei valori paesaggistici ad opera di interventi edilizi precedenti, anche ove fosse in fatto dimostrata, sarebbe certamente non decisiva sul piano giuridico; anzi, come più volte da tempo rimarcato da questa Sezione (es. Cons. Stato, VI, 11 giugno 1990, n. 600; 28 agosto 1995, n. 820; 20 ottobre 2000, n. 5651; 29 novembre 2005, n. 6756) una situazione paesisticamente compromessa ad opera di preesistenti realizzazioni, anziché impedire, maggiormente richiede per la legittimità dell’azione amministrativa che nuove costruzioni non deturpino esteriormente l’ambito protetto. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 6.5.2013, n. 2410)
La già intervenuta compromissione dei valori paesaggistici ad opera di interventi edilizi precedenti, anche ove fosse in fatto dimostrata, sarebbe certamente non decisiva sul piano giuridico; anzi, come più volte da tempo rimarcato da questa Sezione (es. Cons. Stato, VI, 11 giugno 1990, n. 600; 28 ... Continua a leggere
Il vincolo paesistico sui territori costieri: il vincolo di inedificabilità assoluta non può operare in modo retroattivo, tuttavia non si può considerare inesistente per il solo fatto che sia sopravvenuto all’edificazione
Nel caso in esame, il vincolo gravante sulle aree oggetto dell’intervento edilizio di cui si controverte è quello proprio dei territori costieri, implicante un regime di inedificabilità assoluta, ai sensi del precitato art. 33. Il vincolo paesistico sui territori costieri compresi in una fascia di 300 metri dalla linea di battigia, in relazione all’intero territorio nazionale, è stato per la prima volta imposto, come è noto, con d.m. 21 settembre 1984 (recante Dichiarazione di notevole interesse pubblico dei territori costieri, dei territori contermini ai laghi, dei fiumi, dei torrenti, dei corsi d'acqua, delle montagne, dei ghiacciai, dei circhi glaciali, dei parchi, delle riserve, dei boschi, delle foreste, delle aree assegnate alle Università agrarie e delle zone gravate da usi civici), poi seguito dalle norme primarie di cui alla l. 8 agosto 1985, n. 431, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, assorbito poi dal d.lgs. 29 ottobre 1999, n, 490. Già in base a tale considerazione non appare pertinente il rilievo dell’appellante secondo cui l’Amministrazione comunale avrebbe fatto riferimento a una disciplina vincolistica sopravvenuta, in quanto introdotta soltanto con il d.lgs. 22 gennaio 2004 n.42, atteso che riguardo al vincolo sui territori costieri l’ art. 142 d.lgs. cit. (recante l’elenco delle aree tutelate per legge) è riproduttivo – in continuità della fattispecie sostanziale - di quel regime vincolistico ex lege, ben più risalente nel tempo. Inoltre, vale al riguardo rammentare che, in base alle conclusioni raggiunte dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 22 luglio 1999. n. 20 circa la disciplina del condono edilizio della legge n. 47 del 1985 e delle connesse questioni (poste dall’art. 33) relative ai procedimenti di condono riguardanti territori con vincoli di inedificabilità relativa, si deve avere riguardo al regime vincolistico sussistente alla data di esame della domanda di sanatoria, secondo il principio tempus regit actum. Inoltre, quanto ai vincoli di in edificabilità assoluta, questo Consiglio di Stato ha più volte chiarito che se è vero che alla stregua dell’art. 33 l. n. 47 del 1985 il vincolo di inedificabilità assoluta non può operare in modo retroattivo, tuttavia non si può considerare inesistente per il solo fatto che sia sopravvenuto all’edificazione (ciò che paradossalmente porterebbe a ritenere senz’altro sanabili gli interventi, i quali pertanto fruirebbero di un regime più favorevole di quello riservato agli abusi interessati da vincoli sopravvenuti di inedificabilità relativa). Pertanto, se il vincolo di inedificabilità assoluto sopravvenuto non può considerarsi sic et simpliciter inesistente, ne discende che gli va applicato lo stesso regime della previsione generale dell’art. 32, comma 1, della stessa legge n. 47 del 1985, che subordina il rilascio della concessione in sanatoria per opere su aree sottoposte a vincolo al parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo medesimo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 7 ottobre 2003, nr. 5918; sez. IV, 14 febbraio 2012 n.731). (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 6.5.2013, n. 2409)
Nel caso in esame, il vincolo gravante sulle aree oggetto dell’intervento edilizio di cui si controverte è quello proprio dei territori costieri, implicante un regime di inedificabilità assoluta, ai sensi del precitato art. 33. Il vincolo paesistico sui territori costieri compresi in una fascia di ... Continua a leggere
Annullamento delle autorizzazioni paesaggistiche rilasciate dell’ente territoriale delegato: l'evoluzione legislativa in materia di comunicazione di avvio del segmento procedimentale
In ordine all’applicabilità dell’istituito partecipativo al subprocedimento statale di eventuale annullamento delle autorizzazioni paesaggistiche rilasciate dell’ente territoriale delegato, nell’originaria assenza di specificazioni normative, il prevalente orientamento della giurisprudenza era nel senso di ritenere sussistente il dovere di comunicazione di avvio del segmento procedimentale in questione, quale nuova modalità dialettica di esercizio della funziona amministrativa (cfr., ad esempio, Cons. Stato, VI, 3 febbraio 2004, n. 342). Tale orientamento, tuttavia, fu superato dall’espressa abrogazione normativa dell’obbligo di cui si discute, in base al rinvio operato dall’art. 4, comma 1-bis, del d.m. 13 giugno 1994, n. 459 (comma aggiunto dal d.m. 19 giugno 2002, n. 165) all’art. 151 del d.lgs 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali). Detta previsione, con efficacia dall’entrata in vigore del d.m. n. 165 del 2002, disponeva che la comunicazione di avvio del procedimento non fosse dovuta, da parte del funzionario responsabile, "per i procedimenti avviati ad istanza di parte e, in particolare, per quelli disciplinati dagli articoli […] 151[…] del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490". Mentre l’art. 151 disciplina l’invio delle autorizzazioni paesaggistiche alla Soprintendenza, con facoltà di annullamento delle medesime, da parte del Ministero, entro sessanta giorni. Dall’entrata in vigore del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42) veniva, invece, previsto nell’art. 159, quale disciplina transitoria, efficace sino al 31 dicembre 2009, che l’amministrazione competente desse immediata comunicazione alla Soprintendenza delle autorizzazioni paesaggistiche rilasciate, con contestuale invio di tale comunicazione agli interessati quale avviso di inizio del procedimento, ai sensi e per gli effetti della legge 7 agosto 1990, n. 241. Con tale disposizione è stata nuovamente regolata la questione e superata l’eliminazione delle formalità partecipative per i procedimenti ad istanza di parte operata dal ricordato art. 4, comma 1 bis del d.m. n. 495 del 1994, come modificato dal d.m. n. 165 del 2002. Al momento di adozione del provvedimento qui impugnato in primo grado (il decreto, che indica quale data di ricevimento della documentazione completa il 23 dicembre 2002, è stato emesso il 4 febbraio 2003) la materia era disciplinata, con effetto obbligatorio e vincolante per l’Amministrazione dei beni e delle attività culturali, dalle previsioni del d.m. n. 165 del 2002 e pertanto correttamente la Soprintendenza non ha comunicato all’interessato l’avvio del subprocedimento di controllo. La sentenza che non tiene conto della vigenza ratione temporis delle previsioni introdotte col predetto decreto ministeriale merita, quindi, di essere riformata nel senso richiesto dall’appellante Amministrazione. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 6.5.2013, n. 2406)
In ordine all’applicabilità dell’istituito partecipativo al subprocedimento statale di eventuale annullamento delle autorizzazioni paesaggistiche rilasciate dell’ente territoriale delegato, nell’originaria assenza di specificazioni normative, il prevalente orientamento della giurisprudenza era nel ... Continua a leggere
Il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio, ma è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti
Il problema del contenuto e dei limiti della pianificazione urbanistica; del significato stesso del concetto di "urbanistica" in senso giuridico e, di conseguenza, del contenuto della potestà pianificatoria, è stato già affrontato dal Consiglio di Stato, sez. IV, con la sentenza 10 maggio 2012 n. 2710, con considerazioni riconfermate nella presente decisione. Si è affermato che il potere di pianificazione urbanistica del territorio – la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune – non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse. Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico – sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati. Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito – al fine di individuare le materie rientranti nella potestà legislativa concorrente Stato - Regioni - il termine "urbanistica", con la più onnicomprensiva espressione di "governo del territorio", certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che oggi devono ricomprendersi nel citato termine di "urbanistica". D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative controversie), con l’art. 34, comma 2, d. lgs. 31 marzo 1998 n. 80, aveva affermato che "la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti dell’uso del territorio". Tali finalità, per così dire "più complessive" dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge 17 agosto 1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della "disciplina urbanistica e dei suoi scopi" (art. 1), non solo nell’"assetto ed incremento edilizio" dell’abitato, ma anche nello "sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica". In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo. Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli - non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi –, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico – sociali della comunità radicata sul territorio (tra le quali certamente rientra l’aspirazione, anche in proprietà, alla casa di abitazione), sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione "de futuro" sulla propria stessa essenza, svolta - per autorappresentazione ed autodeterminazione - dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio. In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti. Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost.. Alla luce di quanto esposto, la finalità di sostenere l’esigenza di una "prima casa" dei cittadini residenti appare del tutto coerente, in generale, con il potere pianificatorio conferito all’Ente locale dalla legge, e costituisce – soprattutto in Comuni a vocazione turistica - una evidente misura di declinazione dello sviluppo edilizio del territorio con le esigenze abitative della comunità locale, evitando sfruttamenti intensivi a fini turistici, tali da snaturare la quotidianità e l’essenza stessa della comunità locale. Dalle considerazioni espresse, appare evidente la legittimità degli atti adottati dal Comune di Cuneaz, con i quali si sono volute limitare le potenzialità edificatorie dei suoli, delimitandole a finalità di edificazione per prima casa; e ciò sia in coerenza con gli indirizzi e criteri generali del piano regolatore, sia nell’ambito di una più meditata (e limitata) valutazione delle facoltà edificatorie conferite in relazione a suoli già a destinazione agricola.. D’altra parte, occorre ricordare – in ciò condividendo quanto rappresentato dalla sentenza appellata – che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata" (Cons. Stato, sez. IV, 3 novembre 2008 n. 5478), così come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 6.5.2013, n. 2427)
Il problema del contenuto e dei limiti della pianificazione urbanistica; del significato stesso del concetto di "urbanistica" in senso giuridico e, di conseguenza, del contenuto della potestà pianificatoria, è stato già affrontato dal Consiglio di Stato, sez. IV, con la sentenza 10 maggio 2012 n. 2 ... Continua a leggere
Se l’amministrazione ha in via generale espresso la propria volontà di riportare talune previsioni del piano particolareggiato ad una esatta corrispondenza con quanto previsto dal PRG, l’obbligo di motivazione e' già in tal modo assolto, salvo che non si dimostri che il nuovo deliberato ha un contenuto diverso e/o difforme dal piano regolatore
L’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata" (Cons. Stato, sez. IV, 3 novembre 2008 n. 5478), così come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione (si veda anche, Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2012 n. 2710). Sulla base di tali premesse il Collegio ha ritenuto che, una volta che l’amministrazione abbia in via generale espresso la propria volontà di riportare talune previsioni del piano particolareggiato ad una esatta corrispondenza con quanto previsto dal PRG, l’obbligo di motivazione sia stato già in tal modo assolto, salvo che non si dimostri che il nuovo deliberato, lungi dal ricostituire tale coerenza, abbia un contenuto diverso e/o difforme dal piano regolatore. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 6.5.2013, n. 2428)
L’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili g ... Continua a leggere
Le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative
Le scelte di natura urbanistica rimesse all'Amministrazione nell'interesse generale sono di regola sufficientemente motivate con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che hanno sorretto la previsione, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata" (Cons. Stato, sez. IV. 3 novembre 2008 n. 5478). Le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorchè la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 6.5.2013, n. 2432)
Le scelte di natura urbanistica rimesse all'Amministrazione nell'interesse generale sono di regola sufficientemente motivate con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che hanno sorretto la previsione, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata" (Cons. Stato, sez. IV. 3 novembr ... Continua a leggere
Reiterazione del vincolo di inedificabilità: la permanenza del vincolo oltre i termini previsti, e senza alcun inizio serio dell’espropriazione, non può essere dissociato dalla previsione di un indennizzo
Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. V, 3 gennaio 2001 n. 3; sez. IV, 17 aprile 2003 n. 2015 e 22 giugno 2004 n. 4426), costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio. Tali non sono, tra gli altri, le previsioni di un piano regolatore che destinano un’area a "verde pubblico attrezzato, trattandosi di vincoli conformativi della proprietà, in quanto inquadrabili nella zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso, che incidono su una generalità di beni, in funzione della destinazione dell’intera zona in cui questi ricadono (Cons. Stato, sez. IV, 19 marzo 2008 n. 1095; sez. IV, 12 maggio 2010 n. 2843). La decadenza del vincolo non esclude che l’amministrazione, mediante il ricorso al procedimento per l’adozione delle varianti agli strumenti urbanistici, possa reiterare i vincoli preordinati all’espropriazione, fornendo congrua motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione (Cons. Stato, sez. IV, 24 settembre 1997 n. 1013 e 22 giugno 2004 n. 4397), così da escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti. Si è, in particolare, affermato quanto all'adeguatezza della motivazione, che, se in linea di principio può ritenersi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni, in occasione di una prima reiterazione, quando il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, è necessario che la motivazione dimostri che l'autorità amministrativa abbia provveduto ad una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, esponendo le ragioni (riguardanti il rispetto degli standard, le esigenze della spesa, ovvero specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali) che inducano ad escludere profili di eccesso di potere e ad ammetterne l'attuale sussistenza dell'interesse pubblico (Cons. Stato, sez. IV, 2 ottobre 2008 n. 4765). La Corte Costituzionale (sent. 20 maggio 1999 n. 179, indirizzo successivamente riconfermato con sent. 18 dicembre 2001 n. 411) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 l. n. 1150/1942 e 2, primo comma, della legge n. 1187/1968 "nella parte in cui consente alla "amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di indennizzo". Secondo la Corte, "la reiterazione in via amministrativa dei vincoli decaduti (preordinati all’espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo) . . . non sono fenomeni di per sé inammissibili dal punto di vista costituzionale", ma tale fenomeno assume aspetti patologici allorchè vi sia una indefinita reiterazione dei vincoli o una loro proroga sine die, o quando il limite temporale sia indeterminato. In presenza delle suddette situazioni patologiche, sorge obbligo di indennizzo che "opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia)". In altre parole, la permanenza del vincolo oltre i termini previsti, e senza alcun inizio serio dell’espropriazione, "non può essere dissociato . . . dalla previsione di un indennizzo". (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 6.5.2013, n. 2432)
Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. V, 3 gennaio 2001 n. 3; sez. IV, 17 aprile 2003 n. 2015 e 22 giugno 2004 n. 4426), costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto ... Continua a leggere
Al Regolamento edilizio dei Comuni e' demandata la specificazione delle regole fondamentali dell’edificazione sotto i profili tecnici, estetici, funzionali, igienico-sanitari e "di vivibilità" in senso ampio degli abitati
Nel giudizio in esame il Comune impugna la sentenza con cui è stata annullata la modifica del Regolamento Edilizio comunale, con cui si è introdotta la prescrizione per cui la superficie minima dei 45 mq doveva essere limitata al 25 % del totale degli alloggi di ogni nuovo fabbricato, mentre per il 75 % la superficie minima avrebbe comunque dovuto essere portata a 60 mq. Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame, tra l'altro, rileva che fin dall’art. 33 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 e s.m.i., ed oggi con l’art.4 del D.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 T.U. Edilizia, "Il regolamento che i comuni adottano ai sensi dell'articolo 2, comma 4, deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi." L’amplissima latitudine della disposizione da sola giustifica il potere regolamentare del Comune di intervenire sulla struttura minima degli alloggi. Inoltre la norma deve essere collocata nell’alveo del D.M. 05 luglio 1975 "Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896", relativamente all'altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d'abitazione (ulteriormente modificato con D.M. 9 giugno 1999), "concernente la compilazione dei regolamenti locali sull'igiene del suolo e dell'abitato", nonché nella scia delle norme di cui agli artt. 220-222 del R.D. 1265/34 - T.U.L.S.; queste stabiliscono la superficie minima abitabile per persona, quelle minime per le stanze da letto, quelle di soggiorno ed i monolocali; prevedono l’obbligo del riscaldamento, della presenza di finestre almeno per i vani abitativi principali; fissano in 1/8 il rapporto tra superficie finestrata apribile e quella del pavimento, prevedono i casi in cui è ammessa la ventilazione forzata, ecc… Nel regolamento edilizio, oltre alle modalità concernenti gli oneri procedimentali e documentali, possono, dunque, essere collocate le disposizioni concernenti: i requisiti igienici; il rispetto delle regole estetiche e d’ornato; nonché le specifiche regole tecniche sull'attività costruttiva, quali, per l’appunto, fissazione quelle sui limiti generali di dimensionamento degli alloggi in esame. (...)In sostanza, pur dovendosi riconoscere che si tratta di valutazioni sostanzialmente rimesse all’autonomia normativa del Comune, si deve comunque rilevare in linea generale che sia il regolamento edilizio che le norme tecniche di attuazione contengono prescrizioni a contenuto generale. In conseguenza al Regolamento edilizio fanno propriamente capo le disposizioni di natura normativa-regolamentare, mentre nella NTA devono essere contenute le prescrizioni di natura più propriamente programmatica-pianificatoria, destinate, cioè, a regolare la futura attività edilizia. Nel caso non vi sono dubbi che la disposizione concernente le superfici minime ammissibili delle singole unità, riguardando l’intero territorio comunale, aveva carattere generale, per cui esattamente il Comune ha ritenuto di provvedere alla sua introduzione attraverso la modifica del R.E. . L’ampiezza del riferimento alle "modalità costruttive" comporta in sostanza che il regolamento edilizio ben possa riguardare tutti gli aspetti – nessuno escluso -- destinati a regolare le singole edificazioni. Si tratta di un fascio di profili inerenti al diritto fondamentale alla casa dei cittadini, che è sostanzialmente unitario sotto il profilo teleologico, in quanto tali profili sono diretti ad assicurare, in concreto, la salubrità e la vivibilità delle residenze. L’art. 4 del T.U. Edilizia implica che al Regolamento edilizio dei Comuni debba essere demandata la specificazione delle regole fondamentali dell’edificazione sotto i profili tecnici, estetici (secondo le antiche regole d’ornato), funzionali, igienico-sanitari e -- soprattutto per quello che qui interessa -- "di vivibilità" in senso ampio degli abitati. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 6.5.2013, n. 2433)
Nel giudizio in esame il Comune impugna la sentenza con cui è stata annullata la modifica del Regolamento Edilizio comunale, con cui si è introdotta la prescrizione per cui la superficie minima dei 45 mq doveva essere limitata al 25 % del totale degli alloggi di ogni nuovo fabbricato, mentre per il ... Continua a leggere
Le scelte urbanistiche relative alla zonizzazione delle aree del territorio comunale sono rimesse al potere ampiamente discrezionale dell’Ente locale, rispetto alle quali le posizioni dei privati sono necessariamente recessive
Ad avviso del Consiglio di Stato le scelte urbanistiche relative alla zonizzazione delle aree del territorio comunale sono rimesse al potere ampiamente discrezionale dell’Ente locale, rispetto alle quali le posizioni dei privati sono necessariamente recessive, né necessitano di specifica motivazione se non nel caso – qui non sussistente - che vadano ad incidere su posizioni giuridicamente differenziate ravvisabili nell’esistenza di piani o progetti di lottizzazione già approvati (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 27 luglio 2010 n. 4920), ed essendo al più le scelte stesse contestabili nel solo caso - parimenti qui non sussistente - in cui il contrasto tra la natura del bene e la sua destinazione urbanistica sia di indiscutibile ed assoluta, evidenziando la totale e del tutto manifesta illogicità ed irrazionalità delle scelte medesime (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 13 giugno 1984 n. 453 e 17 novembre 1981 n. 877). (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 6.5.2013, n. 2443)
Ad avviso del Consiglio di Stato le scelte urbanistiche relative alla zonizzazione delle aree del territorio comunale sono rimesse al potere ampiamente discrezionale dell’Ente locale, rispetto alle quali le posizioni dei privati sono necessariamente recessive, né necessitano di specifica motivazion ... Continua a leggere
In ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un’area asservita o accorpata, ai fini edificatori deve essere considerata l’intera estensione interessata con l’effetto che anche l’area accorpata non è più edificabile anche se è oggetto di frazionamento o di alienazione separata dalle aree su cui insistono i manufatti
Un’area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può più essere tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio della seconda concessione nelle perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà de terreni (Cons. Stato, Sez.V, 10 febbraio 2000 n.749). Più specificatamente, si è precisato che in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un’area asservita o accorpata, ai fini edificatori deve essere considerata l’intera estensione interessata (nella specie il comparto edificatorio unitariamente considerato) con l’effetto che anche l’area accorpata non è più edificabile anche se è oggetto di frazionamento o di alienazione separata dalle aree su cui insistono i manufatti ( Cons. Stato Sez. V, 7 novembre 2002 n. 6128; idem 10 febbraio 2000 n. 749 già citata; Sez. IV 6 agosto 2012 n. 4482). (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 6.5.2013, n. 2442)
Un’area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può più essere tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio della seconda concessione nelle perdurante esi ... Continua a leggere
La verifica della esistenza o meno di sufficiente capacità edificatoria dell’area sulla quale si chiede il rilascio del titolo edilizio va fatta sulla base del nuovo strumento urbanistico vigente al momento della richiesta
Il Consiglio di Stato con la sentenza in esame ribadisce, tra l'altro, il principio giurisprudenziale a tenore del quale la verifica della esistenza o meno di sufficiente capacità edificatoria dell’area sulla quale si chiede il rilascio del titolo ad aedificandum va fatta, sulla base del nuovo strumento urbanistico vigente al momento della richiesta dell’assenso a costruire, non potendosi far valere situazioni di "favore" sulla scorta della normativa edilizia esistente all’epoca dell’edificazione di preesistenti edifici (Cons. Stato Sez. V, 7 novembre 2002 n. 6128). (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 6.5.2013, n. 2442)
Il Consiglio di Stato con la sentenza in esame ribadisce, tra l'altro, il principio giurisprudenziale a tenore del quale la verifica della esistenza o meno di sufficiente capacità edificatoria dell’area sulla quale si chiede il rilascio del titolo ad aedificandum va fatta, sulla base del nuovo stru ... Continua a leggere
La Conferenza di servizi – sia c.d. "istruttoria", sia "decisoria" - non costituisce un organo collegiale, ma soltanto un modulo procedimentale organizzativo suscettibile di produrre un’accelerazione dei tempi procedurali e, nel contempo, un esame congiunto degli interessi pubblici coinvolti
Ormai da tempo la giurisprudenza si è consolidata nel senso di ritenere che la Conferenza di servizi – sia c.d. "istruttoria", sia "decisoria" e, quindi, anche quella propria del modello procedimentale condiviso dagli artt. 4 e 5 del D.P.R. 447 del 1998 - non costituisce un organo collegiale, ma soltanto un modulo procedimentale (organizzativo) suscettibile di produrre un’accelerazione dei tempi procedurali e, nel contempo, un esame congiunto degli interessi pubblici coinvolti (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 8 maggio 2007 n. 2107); tale istituto di carattere generale, disciplinato dalla L. 241 del 1990 e attuato poi con specifiche variante nelle diverse discipline di settore, è precipuamente finalizzato all’assunzione concordata di determinazioni sostitutive, a tutti gli effetti, di concerti, intese, assensi, pareri, nulla osta, richiesti dal procedimento pluristrutturale specificatamente conformato dalla legge ed è uno strumento che non comporta pertanto modificazione o sottrazione delle competenze, né modificazione della natura o tipo d’espressione volitiva o di scienza che le amministrazioni sono tenute ad esprimere secondo la disciplina di più "procedimenti amministrativi connessi" o di un solo procedimento nel quale siano coinvolti "vari interessi pubblici" (cfr. ibidem). Discende quindi da ciò che in sede di conferenza di servizi è ben ammissibile esprimere valutazioni anche attraverso la trasmissione di note scritte, considerato, da un lato, che scopo della conferenza è – come detto innanzi - la massima semplificazione procedimentale e l’assenza di formalismo e che, pertanto, le forme della conferenza stessa vanno osservate nei limiti in cui siano strumentali all’obiettivo perseguito, non potendo far discendere automaticamente dalla inosservanza delle forme l’illegittimità dell’operato della conferenza se lo scopo è comunque raggiunto, e, dall’altro, che la conferenza di servizi non è – per l’appunto - un organo collegiale, a presenza necessaria, ma – come dianzi evidenziato - un modello di semplificazione amministrativa (cfr. sullo specifico punto, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 4 gennaio 2002 n. 34 e 11 luglio 2002 n. 3917). (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 6.5.2013, n. 2443)
Ormai da tempo la giurisprudenza si è consolidata nel senso di ritenere che la Conferenza di servizi – sia c.d. "istruttoria", sia "decisoria" e, quindi, anche quella propria del modello procedimentale condiviso dagli artt. 4 e 5 del D.P.R. 447 del 1998 - non costituisce un organo collegiale, ma so ... Continua a leggere
Aggiudicazione dell’appalto secondo l’offerta economicamente più vantaggiosa: spetta all’amministrazione dare il peso alla pluralità di elementi, quali il prezzo e la qualità, fermo restando che la scelta di tali criteri di valutazione deve avvenire nel rispetto della proporzionalità, ragionevolezza e non discriminazione e sempre con riferimento all’oggetto dell’appalto
La scelta dei criteri più adeguati dell’offerta economicamente più vantaggiosa costituisce espressione tipica della discrezionalità della stazione appaltante e, impingendo nel merito dell’azione amministrativa è sottratta al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, tranne che in relazione alla natura ed oggetto dell’appalto non sia manifestamente illogica, arbitraria, irragionevole o macroscopicamente viziata da travisamento dei fatti (Cons. Stato Sez. IV 8 giugno 2007 n.3103; sez. V 16 febbraio 2009 n. 837). Così sempre sul punto è stato evidenziato che nel criterio di aggiudicazione dell’appalto secondo l’offerta economicamente più vantaggiosa si tiene conto di una pluralità di elementi, quali il prezzo e la qualità, spettando all’amministrazione dare il peso a tali elementi fermo restando che la scelta di siffatti criteri di valutazione pur connotata da ampia discrezionalità, deve avvenire nel rispetto della proporzionalità, ragionevolezza e non discriminazione e sempre con riferimento all’oggetto dell’appalto (Cons. Stato Sez. V 11 gennaio 2006 n.28; Sez. V 21 novembre 2007 n.5911). Ebbene, l’inserimento tra i criteri di valutazione dell’offerta tecnica dell’elemento costituito dal costo della futura manutenzione delle opere di ristrutturazione si muove nell’ambito dei parametri di giudizio fissati da una copiosa giurisprudenza di questo Consesso, non appalesandosi la scelta della stazione appaltante illogica, né irragionevole e neppure non pertinente con l’oggetto dell’appalto. Invero, ancorchè si tratti di appalto di esecuzione di opere, non può negarsi o comunque escludersi una stretta connessione logica tra la realizzazione di opere di ristrutturazione e la successiva attività di manutenzione delle stesse, in un rapporto di "variabile dipendente" nel senso che ai fini di una migliore esecuzione delle opere a farsi ben può la stazione appaltante (se non deve) tener conto della proiezione in futuro della "tenuta" nel tempo di tali opere e quindi anche della maggiore o minore spesa che l’Amministrazione sarà " costretta" a sopportare per la connessa, sia pure successiva attività manutentiva ha la sua incidenza sulla qualità delle opere a farsi di guisa che non si vede alcunché di macroscopica (ma neppure minima) illogicità nella scelta di valutare un progetto migliorativo di opere di ristrutturazione alla luce anche della economicità derivante dalla futura manutenzione. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 6.5.2013, n. 2444)
La scelta dei criteri più adeguati dell’offerta economicamente più vantaggiosa costituisce espressione tipica della discrezionalità della stazione appaltante e, impingendo nel merito dell’azione amministrativa è sottratta al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, tranne che in relazio ... Continua a leggere
Appalti: la giurisprudenza prevalente limita l’applicabilità dell’esclusione stabilita dall’art. 38 D.lgs n. 163/06, nell'ipotesi di omessa dichiarazione, ai soli amministratori e non anche ai procuratori speciali o ad negotia
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha aderito all’orientamento, che appare prevalente nella giurisprudenza più recente (cfr. Cons. Stato, V, 6 giugno 2012, n. 3340, oltre a nn. 5393/2012, 1186/2012, 6136/2011, 3069/2011, 1782/2011 e 513/2011; III, n. 5117/2011), volto a limitare l’applicabilità dell’esclusione stabilita dall’art. 38 D.lgs n. 163/2006, nell'ipotesi di omessa dichiarazione, ai soli amministratori e non anche ai procuratori speciali o ad negotia, i quali non sono amministratori, e ciò a prescindere dall'esame dei poteri loro assegnati (così, V, n. 513/2011, cit.), dovendosi ancorare l’applicazione della norma su basi di oggettivo rigore formale (così, V, n. 3069/11, cit.), ed occorrendo avere riguardo alla posizione formale del singolo nell'organizzazione societaria piuttosto che a malcerte indagini sulla portata dei poteri di rappresentanza, e ciò anche per non scalfire garanzie di certezza del diritto sotto il profilo della possibilità di partecipare ai pubblici appalti (di nuovo, V, n. 513/2011, cit., in cui si ribadisce anche che una norma che limiti la partecipazione alle gare e la libertà di iniziativa economica delle imprese assume carattere eccezionale ed è, quindi, insuscettibile di applicazione analogica a situazioni diverse, quale è quella dei procuratori). Tanto più nel caso in esame, in cui, come si è detto, un onere di diversa e maggiore portata non poteva desumersi nemmeno dalla formulazione del disciplinare e del modulo ad esso allegato, da utilizzare per la dichiarazione (ricordando che, in applicazione dei principi del favor partecipationis e di tutela dell'affidamento, non può procedersi all'esclusione di un'impresa da una gara pubblica nel caso in cui questa abbia compilato l'offerta in conformità al facsimile all'uopo approntato dalla stazione appaltante, potendo eventuali parziali difformità rispetto al disciplinare costituire oggetto di richiesta di integrazione – cfr., da ultimo, Cons. Stato, III, 14 novembre 2012, n. 5758).La questione va dunque risolta nel senso che anche sotto detto profilo l’offerta non dovesse essere esclusa. Tanto, senza dover invocare l’orientamento c.d. sostanzialistico, secondo il quale, comunque, la dimostrazione dell’assenza di precedenti penali a carico dei soggetti onerati della dichiarazione, in sede di verifica dei requisiti, ne impedisce l’esclusione dalla gara, che non corrisponderebbe ad alcun effettivo interesse pubblico. Quando il partecipante sia in possesso di tutti i requisiti richiesti e la lex specialis non preveda espressamente la pena dell’esclusione in relazione alla mancata osservanza delle puntuali prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire, ricorre un’ipotesi di c.d. "falso innocuo", come tale insuscettibile, in carenza di una espressa previsione legislativa o della legge di gara, a fondare l’esclusione, le cui ipotesi sono tassative (cfr., da ultimo, Cons. Stato, III, 13 marzo 2013, n. 1494; V, nn. 7967/2010 e 829/2009; VI, nn. 1017/2010 e 4906/2009). (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 6.5.2013, n. 2449)
Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha aderito all’orientamento, che appare prevalente nella giurisprudenza più recente (cfr. Cons. Stato, V, 6 giugno 2012, n. 3340, oltre a nn. 5393/2012, 1186/2012, 6136/2011, 3069/2011, 1782/2011 e 513/2011; III, n. 5117/2011), volto a limitare l’applic ... Continua a leggere
Informativa dell’intento di proporre ricorso giurisdizionale: l’art. 243-bis, ultimo comma, del d.lgs. n. 163/2006, a mente del quale il diniego totale o parziale di autotutela, espresso o tacito, è impugnabile solo unitamente all’atto cui si riferisce, ovvero, se quest'ultimo è già stato impugnato, con motivi aggiunti, è norma meramente processuale
Questa Sezione ha già avuto modo di osservare che il testo dell'art. 243-bis del d.lgs. 163/2006 lascia intendere che il legislatore non abbia voluto dar vita ad un procedimento contenzioso o paracontenzioso a tutela di una posizione giuridica soggettiva, ma solo offrire all’Amministrazione l’opportunità di un riesame in via di autotutela, precisando che non a caso l’atto introduttivo non viene denominato "ricorso" ovvero "reclamo" o "opposizione", ma semplicemente "informativa dell’intento di proporre ricorso giurisdizionale", e il silenzio non viene denominato "rigetto" o "rifiuto" ma semplicemente "diniego di (procedere in) autotutela" (cfr. Cons. Stato, III, 29 dicembre 2012, n. 6712). Anche considerato ciò, il Collegio ritiene preferibile aderire all’orientamento secondo il quale la disposizione di cui all’art. 243-bis, ultimo comma, del d.lgs. n. 163/2006, a mente del quale il diniego totale o parziale di autotutela, espresso o tacito, è impugnabile solo unitamente all’atto cui si riferisce, ovvero, se quest'ultimo è già stato impugnato, con motivi aggiunti, lungi dall’imporre l’impugnazione del diniego di autotutela, è norma meramente processuale, volta ad assicurare che la necessaria impugnazione del provvedimento lesivo e quella soltanto eventuale, secondo i principi generali, del diniego di autotutela, siano trattate nell’ambito di un simultaneus processus (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, II, 10 settembre 2012, n. 914; TAR Liguria, II, 29 marzo 2012, n. 450; T.A.R. Valle d'Aosta, 17 febbraio 2012, n. 16; TAR Lazio, Latina, I, 1 dicembre 2011, n. 991). (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 6.5.2013, n. 2449)
Questa Sezione ha già avuto modo di osservare che il testo dell'art. 243-bis del d.lgs. 163/2006 lascia intendere che il legislatore non abbia voluto dar vita ad un procedimento contenzioso o paracontenzioso a tutela di una posizione giuridica soggettiva, ma solo offrire all’Amministrazione l’oppor ... Continua a leggere