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mercoledì 3 luglio 2013 19:18

Il Consiglio di Stato boccia la "sanatoria giurisprudenziale", non esiste alcun diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria

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Se è pur vero che il principio della cd. "doppia conformità" ex art. 13 1. n. 47 del 1985 può manifestarsi nelle forme, secondo un certo orientamento giurisprudenziale, definite "sanatoria giurisprudenziale", e può essere riferibile all'ipotesi di specie, in modo da risultare conforme al principio di proporzionalità e ragionevolezza nel contemperamento dell'interesse pubblico e privato, poiché imporre per un unico intervento costruttivo, comunque attualmente conforme, una duplice attività edilizia, demolitoria e poi identicamente riedificatoria, lederebbe lo stesso interesse pubblico tutelato (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 7 maggio 2009, n. 2835; sez. V, 29 maggio 2006, n. 3267). Infatti, sulla base della succitata considerazione, è stato ammesso che la sanatoria edilizia possa intervenire anche a seguito di conformità sopraggiunta dell'intervento in un primo tempo illegittimamente assentito, divenuto cioè permissibile al momento della proposizione della nuova istanza dell'interessato, posto che questa si profila come del tutto autonoma rispetto all'originaria istanza che aveva condotto al permesso annullato in sede giurisdizionale, in quanto basata su nuovi presupposti normativi in materia edilizia; all’opposto, si è ritenuto irragionevole negare una sanatoria di interventi che sarebbero legittimamente concedibili al momento della nuova istanza. Tale principio, tuttavia, è stato disatteso da un diverso e più consolidato orientamento, secondo cui la "sanatoria giurisprudenziale", in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l’invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione. Alla luce di tali argomenti, è altresì evidente che l’eccezione di incostituzionalità della norma di cui all'art. 13, l. 28 febbraio 1985, n. 47, così come dedotta dall’appellante, è manifestamente infondata, poiché sarebbe, semmai, l’eventuale istituto della sanatoria giurisprudenziale ad essere sospetto di compatibilità con il nostro sistema costituzionale. Peraltro, la norma in esame, richiedente per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l'opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell'opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, è una disposizione la cui ratio è legata al contrasto all'inerzia dell'Amministrazione; ciò significa che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda; tale ratio della norma è del tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti costituzionali di cui all’art. 97 Cost. Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, contenente l'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l. 28 febbraio 1985, n. 47, l'Autorità amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 17 settembre 2007, n. 4838; sez. V, 25 febbraio 2009, n. 1126). Peraltro, giova osservare che l’art. 36 del d.P.R. 6 giugno 20012, n. 380 - Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, norma attualmente vigente sul medesimo tema, e non innovativa rispetto alla norma anteriormente vigente (l’art. 13 1. n. 47 del 1985), e che disciplina l’accertamento di conformità richiesto dalla ricorrente, recita: "In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire…il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda" (cfr. Consiglio di Stato, sez. I, parere 24 giugno 2011, n. 4162/09; sez. V, 25 febbraio 2009, n. 1126; sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2306). Pertanto, è la stessa norma, che come si ribadisce non ha carattere innovativo, trattandosi di norma raccolta nel predetto T.U. ai fini del coordinamento normativo ex art. 7 Legge 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1998 – Bassanini Quater), che attualmente conferma l’insussistenza dell’istituto sopra sunteggiato, denominato "sanatoria giurisprudenziale". Conclusivamente, dall’art. 13 della l. 28 febbraio 1985, n. 47 non è ricavabile alcun diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.6.2013, n. 3220)

 
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Se è pur vero che il principio della cd. "doppia conformità" ex art. 13 1. n. 47 del 1985 può manifestarsi nelle forme, secondo un certo orientamento giurisprudenziale, definite "sanatoria giurisprudenziale", e può essere riferibile all'ipotesi di specie, in modo da risultare conforme al principio ... Continua a leggere

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mercoledì 3 luglio 2013 19:18

Nell'accertamento della c.d. doppia conformità l'Autorità amministrativa non è chiamata a compiere scelte discrezionali ma deve solo accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati

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Nel giudizio in esame il Collegio ha rigettato la censura d’appello relativa all’illegittimità del diniego di sanatoria per omessa acquisizione del parere della commissione edilizia. Infatti, nell'accertamento di conformità ai sensi dell'art. 13, l. 28 febbraio 1985, n. 47, l'Autorità amministrativa non è chiamata a compiere scelte discrezionali, bensì deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 17 settembre 2007, n. 4838; sez. V, 25 febbraio 2009, n. 1126; sez. IV, 12 febbraio 2010, n. 772), rendendo pertanto irrilevante e superflua una fase istruttoria specificamente destinata all’esame di questioni che necessitano di valutazioni tecnico-discrezionali, quali caratterizzano l’attività delle commissioni edilizie. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.6.2013, n. 3220)

 
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mercoledì 3 luglio 2013 19:18

Appalti: nessun falso innocuo se la documentazione attestante l'assenza di condanne penale viene prodotta in giudizio. Per il Consiglio di Stato nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni ex art. 38 Codice appalti non può essere surrogata in giudizio

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Nel giudizio in esame Il TAR aveva dato rilievo alla circostanza che, in giudizio, era stata prodotta da parte della difesa della controinteressata la documentazione inerente l’assenza di condanne in capo (carichi pendenti e casellario giudiziale), ritenendo pertanto che trattasi di un ipotesi di cd. "falso innocuo". Secondo il Consiglio di Stato, invece, tale circostanza è del tutto influente, poiché altrimenti qualsiasi deficienza delle dichiarazioni ex art. 38 Codice appalti potrebbe essere surrogata in giudizio, in contrasto con il principio della par condicio dei concorrenti che deve essere assicurato nel procedimento amministrativo di selezione e non nell’eventuale procedimento giurisdizionale, a posteriori. Infatti, deve essere esclusa la teoria del "falso innocuo" poiché il falso è innocuo quando non incide neppure minimamente sugli interessi tutelati. Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni, invece, è già di per sé un valore da perseguire perché consente – anche in ossequio al principio di buon andamento dell’amministrazione e di proporzionalità – la celere decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara. Conseguentemente, una dichiarazione inaffidabile (perché falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma a prescindere dal fatto che l’impresa meriti sostanzialmente di partecipare alla gara. In altri termini, nel diritto degli appalti occorre poter fare affidamento su una dichiarazione idonea a far assumere tempestivamente alla stazione appaltante le necessarie determinazioni in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara o alla sua esclusione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 16 marzo 2012, n. 1471, cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.).Pertanto, la motivazione della sentenza del TAR impugnata non è condivisibile e deve essere corretta. Nel caso di specie, l’appellante invoca anche i principi autorevolmente sanciti dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (4 maggio 2012, n. 10 e 7 giugno 2012, n. 21), secondo cui, l’art. 38, comma 1, lett. c), codice appalti, presenta un contenuto normativo che già di per sé comprende ipotesi non testuali, ma pur sempre ad essa riconducibili sotto il profilo della sostanziale continuità del soggetto imprenditoriale a cui si riferiscono, quando il soggetto cessato dalla carica sia identificabile come interno al soggetto concorrente. In tale quadro, la citata adunanza n. 10 del 2012 è stata dell'avviso che sia necessaria la dichiarazione suddetta nelle ipotesi di fusione o di incorporazione di società, ancorché venute in essere antecedentemente all'avvio della gara ove si realizza una successione a titolo universale fra i soggetti interessati ovvero, alla luce della riforma del diritto societario disposta dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, la loro mera trasformazione, lasciando dunque ferma la continuità dell'attività imprenditoriale, ma anche e a maggior ragione nelle ipotesi di cessione di azienda o di ramo di azienda in cui si verifica una vicenda di successione a titolo particolare e si ha comunque il passaggio all'avente causa dell'intero complesso dei rapporti attivi e passivi nei quali l'azienda stessa o il suo ramo si sostanzia; il che rende la vicenda ben suscettibile di comportare pur essa la continuità tra precedente e nuova gestione imprenditoriale. La plenaria n. 10 del 2012, affermato tale principio, ha osservato che, tuttavia, possa aversi riguardo alla peculiarità dei casi specifici: a) anzitutto, è comunque dato al cessionario comprovare l'esistenza nel caso concreto di una completa cesura tra vecchia e nuova gestione, tale da escludere la rilevanza della condotta dei precedenti amministratori e direttori tecnici operanti nell'ultimo triennio e, ora, nell'ultimo anno, presso il complesso aziendale ceduto; b) resta altresì fermo - tenuto anche conto della non univocità delle norme circa l'onere del cessionario - che in caso di mancata presentazione della dichiarazione e sempre che il bando non contenga al riguardo una espressa comminatoria di esclusione, quest'ultima potrà essere disposta soltanto là dove sia effettivamente riscontrabile l'assenza del requisito in questione. Tale orientamento è stato ribadito dalla menzionata sentenza dell’adunanza plenaria 7 giugno 2012, n. 21 anche in riferimento al novellato art. 2504-bis cod. civ. che configura le operazioni di trasformazione o fusione societaria non come successione universale, ma come vicenda evolutiva dei medesimi soggetti originari partecipanti alla operazione societaria. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.6.2013, n. 3214)

 
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mercoledì 3 luglio 2013 19:18

Procedure di gara: se l'impresa ha tempestivamente spedito a mezzo del servizio postale la richiesta di DURC inoltrata allo sportello unico INPS-INAIL, l'omessa produzione del DURC nei termini stabiliti dalla lex speciale deve indurre l’Amministrazione ad acquisire d’ufficio il cartaceo della certificazione disponendo dei dati dell’impresa richiedente e del relativo numero identificativo

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Si segnala la presente decisione in quanto in applicazione del fondamentale canone costituzionale del buon andamento a cui deve ispirarsi l’azione amministrativa, afferma il generale principio secondo cui l'amministrazione non può richiedere ai privati atti o certificati relativi a stati, qualità personali e fatti attestati in documenti già in possesso della stessa o di altra Amministrazione. La vicenda prende le mosse dalla domanda presentata da un'impresa per partecipare al bando approvato dalla Regione Autonoma Friuli-Venezia per l’erogazione di incentivi per la realizzazione di progetti di ricerca, sviluppo e innovazione, stanziati nell’ambito del programma POR FESR 2007-2013. Avvalendosi della possibilità prevista dall’art. 5, comma VI, lett g n. 1 del bando, l’impresa allegava alla domanda la richiesta (datata 18 marzo 2010) del Documento Unico di Regolarità Contributiva che aveva provveduto ad inoltrare allo sportello unico INPS - INAIL, riservandosi di trasmettere il rilasciando certificato nel termine, indicato nella lex specialis, del 30 giugno 2010. In data 14 aprile 2010, la ricorrente acquisiva l’originale cartaceo del DURC, che il successivo 6 maggio 2010 affidava al servizio postale, in modo che potesse pervenire nell’indicato termine. Tuttavia, il predetto plico non perveniva utilmente al destinatario. La Direzione Regionale comunicava l’avvio del procedimento, precisando che il Responsabile avrebbe potuto richiedere supplementi istruttori, nel caso di rilevata necessità di regolarizzare e/o integrare la domanda e con successiva nota comunicava i motivi ostativi all’accoglimento della domanda, ritenendo che la mancata ricezione del DURC entro il 30 giugno 2010 costituiva omissione tale da comportare l’archiviazione della domanda. Con distinte memorie di controdeduzioni, la ricorrente rappresentava alla Regione procedente il possesso del requisito sostanziale, invitandola ad esercitare il "dovere di soccorso" previsto dall’art. 15 del bando e forniva la prova dell’avvenuta spedizione del plico contenente il DURC, producendo la distinta della corrispondenza affidata all’Ufficio postale, dal quale il plico medesimo risultava regolarmente partito in data 7 maggio 2010. Nonostante le predette controdeduzioni la Regione comunicava all’impresa l’archiviazione della domanda. Per quanto sopra, l'impresa proponeva ricorso al TAR per il Friuli Venezia Giulia chiedendo l’annullamento, sia della clausola del bando a mezzo della quale era stata prevista l’automatica esclusione nel caso di mancata ricezione del DURC nei termini prescritti , sia del predetto decreto di archiviazione adottato in applicazione di tale clausola. Il TAR accoglieva il ricorso ed avverso la predetta sentenza la Regione Friuli Venezia Giulia ha interposto l’odierno appello rigettato dal Consiglio di Stato Il motivo è infondato. In particolare, ai sensi dell’art. 43 del D.P.R. 445/2000 nel testo previgente, "le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi non possono richiedere atti o certificati concernenti stati, qualità personali e fatti che risultino elencati all'art. 46, che siano attestati in documenti già in loro possesso o che comunque esse stesse siano tenute a certificare. In luogo di tali atti o certificati i soggetti indicati nel presente comma sono tenuti ad acquisire d'ufficio le relative informazioni". Ed il DURC, giust’appunto, rientra tra i certificati di cui all’art. 46, comma I, lett. p) ("assolvimento di specifici obblighi contributivi con l'indicazione dell'ammontare corrisposto"), come riconosciuto anche dalla più recente giurisprudenza amministrativa.. Inoltre l’art. 16 bis, c. 10, del D.L. 185/2008 rappresenta una specifica declinazione in materia di appalti del sopra riportato principio generale (applicabile a tutti i rapporti tra P.A. e cittadini ) e non già, come assume la Regione, un’eccezione ad un (inesistente) opposto principio per cui, nei settori diversi da quelli di cui al D.Lgs. 163/2006, l’acquisizione d’ufficio non potrebbe essere disposta. Né il principio de quo può ritenersi inoperante, avuto riguardo all’invocato art. 1, comma 553 della Legge 23 dicembre 2005, n. 266, nel caso di erogazione di contributi e sovvenzioni comunitarie. Detta disposizione, infatti, nel prevedere che "per accedere ai benefici ed alle sovvenzioni comunitarie per la realizzazione di investimenti, le imprese di tutti i settori sono tenute a presentare il documento di regolarità contributiva", si limita unicamente a prescrivere che il DURC sia acquisito al procedimento, senza specificare le concrete modalità della relativa acquisizione,con la conseguenza che deve comunque trovare applicazione, anche in questo settore, il sopramenzionato principio generale dell’acquisizione officiosa da parte della P.A. A ciò aggiungasi, che nel caso di specie l'impresa ha tempestivamente prodotto la richiesta del DURC inoltrata allo sportello unico INPS-INAIL sin dal 18.03.2010 ed ha altrettanto tempestivamente spedito in data 6 maggio 2010 il relativo documento fornendone la prova , per cui l’Amministrazione era vieppiù tenuta ad acquisire d’ufficio il cartaceo della certificazione alla stregua del principio anzidetto, disponendo dei dati dell’impresa richiedente e del relativo numero identificativo. Così procedendo, peraltro, la Regione avrebbe potuto verificare in concreto se l'impresa possedeva, alla data di presentazione della domanda, la necessaria regolarità contributiva e potesse, quindi,essere ammessa a beneficiare degli incentivi per cui è causa. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.6.2013, n. 3231)

 
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mercoledì 3 luglio 2013 19:18

E' legittimo il diniego della concessione in sanatoria se le opere non sono conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria

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La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha da tempo chiarito che ai sensi dell'art. 13 L. 28 febbraio 1985 n. 47, è legittimo il diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St., sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2306; sez. IV, n. 6474 del 2006; sez. V, n. 1126 del 2009; sez. V, 17 settembre 2012, n. 4914). Questa doppia conformità non si registra nel caso in esame, perché, come correttamente precisato dal Giudice di prime cure, l’incremento volumetrico realizzato con la trasformazione del balcone in veranda è estranea al concetto di adeguamento igienico-sanitario, che non risulta consentito, in mancanza di espressa disposizione, se non a parità di volumetria. Va evidenziato, infatti, come il regime previsto dal P..R.G. del Comune di Benevento al tempo della presentazione dell’istanza di sanatoria e dell’adozione del provvedimento di diniego, qualificava l’area su cui insiste l’immobile dell’appellante, come zona B3 all’interno della quale risultavano consentito interventi sull’esistente comportanti opere di ristrutturazione e di adeguamento igienico-sanitario, ossia interventi che concettualmente non possono caratterizzarsi per un aumento di volumetria dell’immobile sul quale vengono eseguiti (Cons. St., Sez. V, 15 aprile 2004, n. 2142). (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.6.2013, n. 3235)

 
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Posticipato al 31 gennaio 2014 il termine previsto per la trasmissione all’AVCP dei dati e delle informazioni di cui alla legge anticorruzione ex art.1 c. 32 L. n. 190/2012

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Viste le numerose telefonate ed email pervenute alla G.A. in ordine agli obblighi di comunicazione all'AVCP ex articolo 32 comma 1 della legge n. 190/2012 si ritiene opportuno ripubblicare in data odierna il comunicato del 13.06 c.m. di avvenuto RINVIO al 31 gennaio 2014 del termine per i relativi adempimenti. Più precisamente, alla luce del complesso iter normativo, iniziato con l’entrata in vigore della legge 190 del 2012 (28 novembre 2012) e terminato da ultimo soltanto con l’adozione del d.lgs 33 del 2013 (20 aprile 2013) il termine di natura ordinatoria inizialmente previsto per la trasmissione all’AVCP dei dati e delle informazioni di cui all’art. 1 comma 32 è stato posticipato al 31 gennaio 2014, dovendo riguardare tutte le procedure indette da dicembre 2012. Per accedere al comunicato del Presidente del 13.6.2013 che - ai fini di una più dettagliata e completa indicazione dei dati e delle informazioni da fornire ad opera delle amministrazioni interessate l'Autorità - contiene altresì una serie di chiarimenti concernenti le prime indicazioni operative già fornite nella richiamata deliberazione n. 26/2013, cliccare sul titolo sopra linkato. (Gazzetta Amministrativa, comunicato 17.06.2013)

 
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Ristrutturazioni edilizie, guida alle agevolazioni fiscali

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L'Agenzia delle Entrate ha pubblicato on line l'aggiornamento della guida alle agevolazioni fiscali per le ristrutturazioni edilizie nella quale si approfondiscono le seguenti tematiche: 1) DETRAZIONE IRPEF PER LE SPESE DI RISTRUTTURAZIONE: a) Chi può fruire della detrazione; b) Per quali lavori spettano le agevolazioni; c) Acquisto box: quando spetta l’agevolazione; d) Cosa deve fare chi ristruttura per fruire della detrazione; e) Come si può perdere la detrazione; f) Se cambia il possesso; g) Cumulabilità con la detrazione Irpef per il risparmio energetico. 2) L’IVA SULLE RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: L’agevolazione per i lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria; L’Iva agevolata per i lavori di restauro, risanamento conservativo e ristrutturazione. 3) LA DETRAZIONE IRPEF PER GLI ACQUIRENTI E GLI ASSEGNATARI DI IMMOBILI RISTRUTTURATI: Le condizioni richieste per fruire dell’agevolazione. 4) LA DETRAZIONE IRPEF DEL 19% DEGLI INTERESSI PASSIVI SUI MUTUI: In cosa consiste e le condizioni richieste. 5) I PRINCIPALI TIPI DI INTERVENTI AMMESSI ALLA DETRAZIONE IRPEF : A. Sulle singole unità abitative. B. Sulle parti condominiali. Per accedere alla guida cliccare sul titolo sopra linkato. (Agenzia delle Entrate, guida on line, aggiornamento giugno 2013)

 
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Abusi edilizi su area sottoposta a vincolo paesaggistico: ai fini del parere dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo rileva la data di valutazione della domanda di sanatoria, e non quella di costruzione dell’immobile

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A prescindere dal momento di introduzione del vincolo, ai fini del parere di cui all’art. 32 della legge 47 del 1985 rileva la data di valutazione della domanda di sanatoria, e non quella di costruzione dell’immobile (per tutte, Cons. St., Ad. plen., 7 giugno 1999, n. 20 e Sez. VI, 11 dicembre 2001, n. 6210). (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.6.2013, n. 3367)

 
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A prescindere dal momento di introduzione del vincolo, ai fini del parere di cui all’art. 32 della legge 47 del 1985 rileva la data di valutazione della domanda di sanatoria, e non quella di costruzione dell’immobile (per tutte, Cons. St., Ad. plen., 7 giugno 1999, n. 20 e Sez. VI, 11 dicembre 2001 ... Continua a leggere

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Tutte le fasi della procedura di gara illustrate dal Consiglio di Stato

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Il Direttore segnala la presente sentenza in quanto in modo semplice e chiaro il Consiglio di Stato procede a illustrare come si svolge nelle sue diverse le fasi la procedura di gara da aggiudicare secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa (artt. 83 e segg. del Codice dei contratti pubblici). Il procedimento di gara si svolge, normalmente, in tre fasi: in due fasi sono necessarie prevalenti competenze amministrative ed in una fase sono necessarie prevalenti competenze tecniche. 3.1.- Dopo aver ricevuto le offerte, nel termine indicato dal bando, l’amministrazione in una prima fase svolge diverse operazioni preliminari alla valutazione delle offerte: verifica la regolarità dell’invio dell’offerta e il rispetto delle disposizioni generali e di quelle speciali contenute nel bando (o nella lettera di invito) e nel disciplinare di gara (e l’osservanza delle regole sulla produzione dei documenti). La stazione appaltante provvede quindi, in seduta pubblica, all’apertura dei plichi delle diverse offerte che (di norma) contengono tre buste: la busta A (documentazione amministrativa), la busta B (documentazione tecnica) e la busta C (offerta economica). 3.2.- La stazione appaltante, disposta l’idonea conservazione delle buste (C) contenenti le offerte economiche, procede quindi all’apertura delle buste (A) contenenti la documentazione amministrativa per verificarne il contenuto e per consentire la successiva verifica dei requisiti generali previsti dalla normativa sugli appalti pubblici (artt. 38 e 39 del codice degli appalti) e dei requisiti speciali, dettati dagli atti di gara (artt. 41 e 42 del codice), nonché di tutte le altre condizioni dettate per la partecipazione alla gara. 4.- L’amministrazione procede poi, sempre in seduta pubblica (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 28 luglio 2011, n. 13 e poi art. 12 del d.l. 7 maggio 2012, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 luglio 2012, n. 94) all’apertura delle buste (B), contenenti la documentazione tecnica, per prendere atto del relativo contenuto e per verificare l’effettiva presenza dei documenti richiesti nel bando (o nella lettera di invito) e nel disciplinare di gara (schede tecniche, relazioni tecniche illustrative, certificazioni tecniche etc.). Anche tale documentazione è poi conservata in plico sigillato. 5.- Tali attività, preliminari alla valutazione delle offerte, sono eseguite dal seggio di gara o direttamente dal responsabile del procedimento unico (RUP), di norma il dirigente preposto alla competente struttura organizzativa della stazione appaltante (che si avvale anche dei funzionari del suo ufficio), che, ai sensi dell’art. 10, comma 2 del Codice, «svolge tutti i compiti relativi alle procedure di affidamento previste dal presente codice, ivi compresi gli affidamenti in economia, e alla vigilanza sulla corretta esecuzione dei contratti, che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti» e, ai sensi del comma 3, lettera c) «cura il corretto e razionale svolgimento delle procedure». 6.- Dopo la preliminare fase di verifica dei contenuti dell’offerta, si passa alla seconda fase di valutazione delle offerte tecniche. A tale seconda fase provvede l’apposita Commissione tecnica che è nominata ai sensi dell’art. 84 del Codice dei contratti e dell’art. 283, comma 2 del Regolamento di cui al D.P.R. n. 207 del 2010. In una o più sedute riservate, la Commissione verifica quindi la conformità tecnica delle offerte e valuta le stesse, assegnando i relativi punteggi sulla base di quanto previsto dal disciplinare di gara (e delle altre regole che la stessa Commissione si è data). 7.- Completato l’esame dell’offerta tecnica, l’amministrazione procede, nuovamente in seduta pubblica, ad informare i partecipanti delle valutazioni compiute, a dare notizia di eventuali esclusioni e a dare lettura dei punteggi assegnati dalla Commissione sulle offerte tecniche dei concorrenti non esclusi. Quindi, verificata l’integrità del plico contenenti le buste con le offerte economiche (e l’integrità delle singole buste), l’amministrazione procede all’apertura delle stesse con la lettura delle singole offerte, con l’indicazione dei ribassi offerti e dei conseguenti prezzi netti e la determinazione (matematica) dei punteggi connessi ai prezzi. 8.- Il seggio di gara formula quindi la graduatoria finale sulla base della somma dei punteggi assegnati per l’offerta tecnica e per l’offerta economica e procede all’aggiudicazione provvisoria in favore dell’offerta che ha raggiunto il maggiore punteggio complessivo. 9.- Come si è esposto, nella prima fase della procedura, ai relativi atti (apertura dei plichi, verifica della documentazione amministrativa e presa d’atto della documentazione tecnica) provvede, in seduta pubblica, il seggio di gara. 9.1.- Le operazioni di valutazione e di graduazione nel merito delle offerte tecniche, come si è ricordato, vengono espletate, in uno o più sedute riservate, dalla commissione giudicatrice. 9.2.- Le operazioni della (terza) fase conclusiva dell’iter di gara (comunicazione dell’esito della valutazioni tecniche, lettura dei prezzi offerti, formulazione della graduatoria finale ed aggiudicazione provvisoria) sono infine espletate, in seduta pubblica, dal seggio di gara. 9.3.- In proposito ogni questione che era stata prima sollevata circa l’esatta individuazione dell’organo tenuto agli adempimenti di tale fase deve ritenersi risolta a seguito dell’approvazione del regolamento di esecuzione del Codice dei Contratti pubblici (D.P.R. n. 207 del 2010) che, all’art. 283, comma 3, ha previsto che «in seduta pubblica, il soggetto che presiede la gara dà lettura dei punteggi attribuiti alle offerte tecniche, procede all’apertura delle buste contenenti le offerte economiche, dà lettura dei ribassi espressi in lettere e delle riduzioni di ciascuna di esse e procede secondo quanto previsto dall’articolo 284» alla verifica di anomalia di cui all’art. 86 del codice, avvalendosi anche di apposita Commissione (o della stessa Commissione tecnica) e dichiarando l’aggiudicazione provvisoria in favore della migliore offerta risultata congrua. 9.4.- Per quanto riguarda, in particolare, il procedimento per la verifica dell’anomalia, l’art. 284 del D.P.R. n. 207 del 2010, nel dare attuazione all’art. 88 del Codice in relazione agli appalti di servizi, rinvia all’art. 121 del D.P.R. n. 207 che, al comma 10, per le gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, prevede espressamente che, qualora vi siano offerte da sottoporre alla verifica di congruità, ai sensi dell’art. 86, comma 2, del Codice «… qualora il punteggio relativo al prezzo e la somma dei punteggi relativi agli altri elementi di valutazione delle offerte siano entrambi pari o superiori ai limiti indicati dall'articolo 86, comma 2, del codice, il soggetto che presiede la gara chiude la seduta pubblica e ne dà comunicazione al responsabile del procedimento, che procede alla verifica delle giustificazioni presentate dai concorrenti ai sensi dell'articolo 87, comma 1, del codice avvalendosi degli uffici o organismi tecnici della stazione appaltante ovvero della commissione di gara, ove costituita». Da tali disposizioni si evince che è il responsabile del procedimento ad essere investito anche della funzione di svolgere la verifica dell’anomalia, potendosi avvalere, ove costituita, della apposita Commissione (o della stessa Commissione tecnica). (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 11.6.2013, n. 3228)

 
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mercoledì 3 luglio 2013 19:18

La Commissione di gara deve essere nominata solo dopo lo scadere del termine ultimo di presentazione delle offerte, mentre il RUP può essere conosciuto anche prima

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Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato ha ritenuto priva di rilievo la circostanza che il nome del RUP fosse già conosciuto prima del termine di presentazione delle offerte trattandosi di circostanza ordinaria. Precisa, infatti, la Terza Sezione del Consiglio di Stato che è la commissione giudicatrice che, a garanzia della regolarità della gara, deve essere nominata solo dopo lo scadere del termine ultimo di presentazione delle offerte (art. 84, comma 10 del Codice). Non risultano pertanto violati, data la natura meramente istruttoria dell’attività svolta, con esclusione di ogni attività valutativa, i principi di par condicio, imparzialità e trasparenza. (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 11.6.2013, n. 3228)

 
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mercoledì 3 luglio 2013 19:18

La mancanza del parere del responsabile dei servizio e' una mera irregolarità che rileva solo sul piano interno

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E' stata rigettata dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato la censura formulata dal ricorrente che denunciava un vizio di legittimità del provvedimento adottato dall'Amministrazione privo del parere del responsabile del servizio. Secondo un consolidato orientamento del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., sez. IV, 26 gennaio 2012, n. 351; sez IV, 22 giugno 2006, n. 3888; n. 1567 del 2001; 23 aprile 1998, n. 670), i pareri in questione rilevano solo sul piano interno, pertanto, la loro assenza si traduce in una mera irregolarità e non ridonda in un vizio di legittimità. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.6.2013, n. 3236)

 
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mercoledì 3 luglio 2013 19:18

La qualificazione giuridica del bene quale pertinenza, sulla base della nozione civilistica, è irrilevante nel giudizio amministrativo dove rileva solo il diverso concetto di pertinenza urbanistica

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Nell'ambito delle opere edilizie, la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano (e, all'esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre è ravvisabile la ricostruzione allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da considerare tale, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui come previste dagli strumenti urbanistici locali, nel suo complesso, ove lo strumento urbanistico rechi una norma espressa con la quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti eccedenti le dimensioni dell'edificio originario. Deriva da quanto precede, pertanto - anche con riguardo alla legge n. 457 del 1978 e all'art. 31 di questa - che la semplice constatazione dell'aumento di superficie e di volumetria è sufficiente a rendere l'intervento edilizio non riconducibile al paradigma normativo della ristrutturazione e all'esonero dall'osservanza delle distanze legali previsto per detto tipo di interventi (Cassazione civile, sez. un., 19 ottobre 2011, n. 21578). Nella fattispecie, dunque, i lavori abusivi eseguiti dai ricorrenti sono da classificare come opere ex novo, e non ristrutturazione, in quanto parte del fabbricato preesistente è stato conglobato nel nuovo manufatto, che si configura quindi come un organismo edilizio diverso, con dimensioni maggiori sia in pianta che in altezza e con conseguente incremento della volumetria. Inoltre, il Collegio osserva, sulla scorta di un’ormai consolidata giurisprudenza, che i beni che hanno civilisticamente natura pertinenziale non sono necessariamente tali ai fini dell'applicazione delle regole proprie dell'attività edilizia; la nozione di pertinenza in ambito edilizio ha infatti un significato più circoscritto e si fonda sulla mancanza di autonoma destinazione e autonomo valore del manufatto pertinenziale, sul suo non incidere sul carico urbanistico, sulle ridotte dimensioni, tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio, caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere dimostrata dall'interessato e che non ricorrono palesemente nel manufatto oggetto del provvedimento di demolizione (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4573 del 2010). Pertanto, la sentenza penale prodotta in giudizio dall’appellante, relativa alla diversa qualificazione giuridica del bene quale pertinenza, sulla base della nozione civilistica, è irrilevante nel giudizio amministrativo, ove rileva, come detto, il diverso concetto di pertinenza urbanistica (ex multis: Consiglio di Stato, sez. VI, 28 gennaio 2013, n. 496). (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.6.2013, n. 3221)

 
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mercoledì 3 luglio 2013 19:18

E' vietato smaltire i rifiuti urbani non pericolosi in Regioni diverse da quelle dove gli stessi sono prodotti, salvo eventuali accordi regionali o internazionali

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Il legislatore nazionale ha stabilito il principio dell’autosufficienza su base regionale dello smaltimento dei rifiuti urbani; pertanto, è vietato smaltire i rifiuti urbani non pericolosi in Regioni diverse da quelle dove gli stessi sono prodotti; fatti salvi eventuali accordi regionali o internazionali, qualora gli aspetti territoriali e l’opportunità tecnico economica di raggiungere livelli ottimali di utenza servita lo richiedano (d. lgs. n. 152 del 3.4.2006, art. 182, comma 3). A tale scopo, lo smaltimento dei rifiuti urbani non pericolosi è attuato con il ricorso ad una rete integrata ed adeguata dì impianti in modo da realizzare l’autosufficienza nello smaltimento dei rifiuti urbani non pericolosi e dei rifiuti del loro trattamento in ambiti territoriali ottimali (d. lgs. n. 152/2006, art. 182-bis, comma 1). Ciò in attuazione del principio della prossimità territoriale, secondo il quale lo smaltimento dei rifiuti urbani deve avvenire "in uno degli impianti idonei più vicini ai luoghi di produzione o raccolta, al fine di ridurre i movimenti dei rifiuti stessi’ (art. 182-bis cit.). Recentemente, infatti, questo Consiglio, sez VI, con sentenza 19 febbraio 2013, n. 993 ha affermato esplicitamente che il principio dell’autosufficienza locale nello smaltimento dei rifiuti (già previsto dal d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 - c.d. decreto Ronchi) per i rifiuti urbani non pericolosi sussiste ed è cogente e non può essere esteso, naturalmente, a rifiuti diversi e, segnatamente, a quelli speciali o pericolosi in genere; infatti, nei confronti dei rifiuti speciali non pericolosi, va applicato il diverso criterio, pure previsto dal legislatore, della specializzazione dell’impianto di smaltimento integrato dal criterio della prossimità, considerato il contesto geografico, della prossimità al luogo di produzione, in modo da ridurre il più possibile la movimentazione dei rifiuti, secondo la previsione dell’art. 22, comma 3, lettera c), dello stesso decreto legislativo n. 22 del 1997. In questa ottica, appare pertanto illegittimo il divieto di conferimento nelle discariche regionali di rifiuti speciali provenienti da altre Regioni, in quanto tale divieto, non solo può pregiudicare il conseguimento della finalità di consentire lo smaltimento di tali rifiuti "in uno degli impianti appropriati più vicini" (art. 5, comma 3, lettera b), del decreto legislativo n. 22 del 1997), ma introduce addirittura, in contrasto con l’art. 120 della Costituzione, un ostacolo alla libera circolazione di cose tra le regioni, senza che sussistano ragioni giustificatrici, neppure di ordine sanitario o ambientale (cfr fre le tante e da ultimo Corte cost., n. 244 del 2011; n. 10 del 2009). Del resto, anche alla luce della normativa comunitaria, il rifiuto è pur sempre considerato un "prodotto", in quanto tale fruente, in via di principio e salvo specifiche eccezioni, della generale libertà di circolazione delle merci. Occorre ancora osservare, per sottolineare il thema decidendum, che il quadro normativo nazionale e comunitario si estrinseca nella disciplina sancita dagli artt. 182, comma 3 e 182-bis, comma 1, d. lgs. n. 152-2006, che costituiscono applicazione, secondo la normativa vigente, del principio di autosufficienza stabilito dall’art. 5 della direttiva comunitaria del 5 aprile 2006, n. 12 e dell’art. 16 della direttiva del 19 novembre 2008, n. 98. Peraltro, si deve ancora osservare sul tema della cd. autosufficienza che, con sentenza del 4 marzo 2010, C-29-2008 in tema di smaltimento dei rifiuti urbani nella Regione Campania, la Corte di Giustizia CE, Sez. IV ha condannato la Repubblica Italiana per violazione dell’art. 5 della direttiva 2006-12 per essere venuta meno all’obbligo ad essa incombente di creare una rete adeguata ed integrata di impianti di smaltimento che le consentissero di perseguire l’obiettivo di assicurare lo smaltimento dei suoi rifiuti. In tale occasione, la Corte di Giustizia ha confermato l’esistenza nell’ordinamento italiano del principio dell’autosufficienza su base regionale e del principio di prossimità territoriale. Sotto distinto profilo, sempre in relazione agli aspetti normativi e ai connessi aspetti tecnico-scientifici della controversa vicenda in oggetto, è altrettanto noto che, in attuazione della prescrizione per cui "i rifiuti possono essere collocati in discarica solo dopo trattamento" (art. 7 del d. lgs. 13 gennaio 2003, n. 36), i "rifiuti urbani indifferenziati" (CER 20.03.01) non possono essere direttamente (o "tal quali") smaltiti in discarica ma devono subire un preliminare processo di pretrattamento, secondo le diverse tecniche in uso. Nel caso di specie, i rifiuti oggetto di controversia sono rifiuti urbani indifferenziati sottoposti, negli stabilimenti di tritovagliatura (STIR) campani, alla "tritovagliatura", operazione di pretrattamento di carattere meccanico composta di triturazione e vagliatura. La fase di triturazione serve a ridurre la dimensioni dei rifiuti ed è applicata sia nella fase iniziale di selezione, sia nella fase successiva di post-trattamento meccanico. Invece, la vagliatura serve per separare le diverse categorie di materiale (ingombranti e non, combustibili e non, etc.). Operazione necessaria, ai sensi del citato art. 7 del d. lgs. 13 gennaio 2003, n. 36 per il loro conferimento in discarica, di cui risulta ancora incerta, in questo processo, la natura dei relativi effetti; se, cioè, tale operazione muti o meno il volume e la composizione dei rifiuti stessi sotto il profilo chimico fisico, tale da determinarne una natura sostanzialmente diversa dai rifiuti urbani prima di tale trattamento, giustificandosi così (o meno) il fatto di poter essere inclusi nella diversa categoria giuridica dei rifiuti speciali. Inoltre, si deve osservare che, all’esito di tali trattamenti, i rifiuti CER 20.03.01 assumono il codice CER 19 ("Rifiuti prodotti da impianti di trattamento dei rifiuti’), e in particolare il codice CER 19.12.12. Per i rifiuti provenienti da attività di selezione dei rifiuti urbani potrebbe legittimamente dubitarsi dell’esatta classificazione, nell’alternativa tra "rifiuto urbano" o "rifiuto speciale" (con ulteriore conseguente legittimo dubbio sull’applicabilità del principio di autosufficienza cui si è detto). Infatti, in seguito all’abrogazione della lett. n) dell’art. 184, comma 3, d.lgs. n. 152-2006, ex art. 2, comma 21-bis, del D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, i rifiuti derivanti da attività di selezione dei rifiuti solidi urbani sono stati cancellati dall’elenco dei rifiuti speciali, ma non sono stati ascritti espressamente e parallelamente, alla categoria dei rifiuti urbani. Per questo Collegio, l’intervento normativo del citato art. 2, comma 21-bis, del D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 è equivoco, nel senso che non chiarisce se sussisteva la volontà di escludere che i rifiuti derivati dalle attività di selezione meccanica dei rifiuti solidi urbani, come le operazioni di tritovagliatura descritte, potessero essere considerati e classificati quali rifiuti speciali; il fatto che espressamente non rientrino nell’ambito della classificazione dei rifiuti urbani si può imputare ad una mera dimenticanza legislativa, consona alla sciatteria normativa cui il nostro attuale ordinamento è purtroppo caratterizzato, ovvero può esprimere la volontà di far ricadere tali rifiuti nell’ambito dell’art. 184, comma 3, lett. g), ovvero nell’ambito dei rifiuti speciali. Pertanto, è necessario approfondire, sotto il profilo tecnico, se la diversa codificazione dei rifiuti implichi un mutamento della rispettiva natura giuridica, con particolare rilievo alla distinzione, qui centrale, tra rifiuti urbani e rifiuti speciali, atteso che i rifiuti prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti risultano classificati con i codici 19.12.11 e 19.12.12 e la categoria dei rifiuti urbani è identificata, invece, con il codice 20 e tutte le varie tipologie di rifiuti che la compongono sono identificate da codici a sei cifre, tutti recanti come prime due cifre il codice 20. Il Consiglio di Stato, pertanto, nella vicenda in esame ha rilevato che in assenza di un approfondimento istruttorio che qui si deve disporre, tale codificazione, che non costituisce proposizione normativa ma certificazione tecnica, si potrebbe spiegare ragionevolmente con l’intento di evidenziare che i rifiuti di cui al codice 19 sono frutto di un’operazione di selezione meccanica, a differenza di quelli contrassegnati con il codice 20; ma da questa conclusione non è, allo stato, ancora possibile inferire che il codice 19 nella specie previsto comporti che ai rifiuti urbani trattati dagli STIR siano sussumibili nella categoria dei rifiuti speciali (a questa conclusione è pervenuta la Sezione con la sentenza n. 5566 del 31 ottobre 2012, sia pure in relazione a controversia avente ad oggetto il pagamento del tributo gravante sul conferimento in discarica di rifiuti urbani). (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.6.2013, n. 3215)

 
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mercoledì 3 luglio 2013 19:18

I limiti alla scelta della stazione appaltante dei criteri di valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa

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Nel giudizio in esame il Consiglio di Stato ha ritenuto, circa l’ambito della discrezionalità esercitabile dalla stazione appaltante nell’individuare i criteri e sub criteri (con i relativi punteggi) indispensabili per selezionare l’offerta economicamente più vantaggiosa, la natura delle posizioni soggettive coinvolte e il sindacato esercitabile dal giudice amministrativo su tali scelte nell’ambito del quadro ordinamentale e processuale nazionale, che non intende decampare dai consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. V, 18 febbraio 2013, n. 978; sez. V, 10 gennaio 2013, n. 88; sez. V, 27 giugno 2012, n. 3781, cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74, co. 1, 88, co. 2, lett. d), e 120, co. 10, c.p.a.), in forza dei quali: a) nelle gare pubbliche, la formula da utilizzare per la valutazione dell’offerta economica può essere scelta dall’amministrazione con ampia discrezionalità e di conseguenza la stazione appaltante dispone di ampi margini nella determinazione dei criteri da porre quale riferimento per l’individuazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa nonché nella individuazione delle formule matematiche; b) nella scelta dei criteri di valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa sono connaturati i seguenti limiti: I) i criteri devono essere coerenti, con le prestazioni che formano oggetto specifico dell’appalto e essere pertinenti alla natura, all’oggetto e al contenuto del contratto; II) in base all’art. 83, co. 1, d.lgs. 163/2006, il criterio selettivo dell’offerta economicamente più vantaggiosa impone alla stazione appaltante di determinare nella legge di gara i criteri di valutazione dell’offerta «pertinenti alla natura, all’oggetto e alle caratteristiche del contratto»; III) una volta optato per un determinato sistema (quale l’offerta economicamente più vantaggiosa) il quale riconosce adeguato rilievo alla componente-prezzo nell’ambito della dinamica complessiva dell’offerta, è poi illegittimo l’operato dell’amministrazione la quale fissi regole di gara tali da annullare il rilievo dell’offerta economica nell’economia complessiva dei fattori idonei a determinare l’aggiudicazione; c) le posizioni soggettive delle imprese coinvolte nella procedura sono pacificamente qualificabili in termini di interesse legittimo ed è altrettanto assodato che le relative controversie non rientrano nel novero delle tassative ed eccezionali ipotesi di giurisdizione di merito sancite oggi dall’art. 134 c.p.a. (cfr., sotto l’egida della precedente normativa, identica in parte qua, Cons. St., ad. plen., 9 gennaio 2002, n. 1); d) il sindacato giurisdizionale nei confronti di tali scelte, tipica espressione di discrezionalità tecnico-amministrativa, è consentito unicamente in casi di abnormità, sviamento e manifesta illogicità; premesso che a seguito della storica decisione di questo Consiglio (cfr. sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601), è pacifico che il controllo sugli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione possa svolgersi attraverso la verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni compiute da quest’ultima, sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo, è necessario precisare che tale riscontro esigibile dal giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali deve essere svolto extrinsecus, nei limiti della rilevabilità ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti, essendo diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di invalidità e non alla sostituzione dell’amministrazione; la sostituzione, da parte del giudice amministrativo, della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce ipotesi di sconfinamento vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla p.a., quand’anche l’eccesso in questione sia compiuto da una pronuncia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento dell’atto; in base al principio di separazione dei poteri sotteso al nostro ordinamento costituzionale, solo l’amministrazione è in grado di apprezzare, in via immediata e diretta, l’interesse pubblico affidato dalla legge alle sue cure, conseguentemente, il sindacato sulla motivazione delle valutazioni discrezionali: I) deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto acquisiti; II) non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa; III) deve tenere distinti i profili meramente accertativi da quelli valutativi (a più alto tasso di opinabilità) rimessi all’organo amministrativo, potendo esercitare più penetranti controlli, anche mediante c.t.u. o verificazione, solo avuto riguardo ai primi. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.6.2013, n. 3239)

 
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mercoledì 3 luglio 2013 19:18

L’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata"

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Il problema del contenuto e dei limiti della pianificazione urbanistica; del significato stesso del concetto di "urbanistica" in senso giuridico e, di conseguenza, del contenuto della potestà pianificatoria, è stato già affrontato dal Consiglio di Stato, sez. IV, con la sentenza 10 maggio 2012 n. 2710 con considerazioni che vengono riconfermate anche nella decisione qui attenzionata. Si è affermato in particolare che il potere di pianificazione urbanistica del territorio – la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune – non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse. Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico–sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati. Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito – al fine di individuare le materie rientranti nella potestà legislativa concorrente Stato-Regioni - il termine "urbanistica" con la più onnicomprensiva espressione di "governo del territorio", certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che oggi devono ricomprendersi nel citato termine di "urbanistica". D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative controversie), con l’art. 34, comma 2, d. lgs. 31 marzo 1998 n. 80, aveva affermato che "la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti dell’uso del territorio". Tali finalità, per così dire "più complessive" dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge 17 agosto 1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della "disciplina urbanistica e dei suoi scopi" (art. 1), non solo nell’"assetto ed incremento edilizio" dell’abitato, ma anche nello "sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica". In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo. Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli - non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi –, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico–sociali della comunità radicata sul territorio (tra le quali certamente rientra l’aspirazione, anche in proprietà, alla casa di abitazione), sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione "de futuro" sulla propria stessa essenza, svolta - per autorappresentazione ed autodeterminazione - dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio. In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti. Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost.. A quanto sin qui esposto, occorre aggiungere che l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata" (Cons. Stato, sez. IV, 3 novembre 2008 n. 5478), così come, nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione. Occorre, infatti, ribadire che le scelte urbanistiche (in particolare, in sede di variante) richiedono puntuale motivazione esclusivamente ove incidano su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative (specie edificatorie) dei privati proprietari, in conseguenza non soltanto di statuizioni di pronunce giurisdizionali passate in giudicato, ma anche di accordi con l'ente locale ed in particolare di convenzioni di lottizzazione divenute operative. A fronte di aspettative di mero fatto, le scelte di natura tanto ambientale quanto urbanistica rimesse all'Amministrazione nell'interesse generale, infatti, sono di regola sufficientemente motivate con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che hanno sorretto la previsione, senza necessità di una motivazione puntuale e "mirata" (Cons. Stato, sez. IV. n. 5478/2008 cit.). Le scelte urbanistiche, dunque, richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale, ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, pregiudicando, si ripete, legittime aspettative; così come, mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale. In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico. Né, d’altra parte, una destinazione di zona precedentemente impressa determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo PRG, conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.6.2013, n. 3262)

 
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mercoledì 3 luglio 2013 19:18

Per gli interventi di manutenzione, anche straordinaria e' necessaria l'esistenza di un duplice ordine di limiti, uno di carattere funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell'edificio, e l'altro di carattere strutturale, consistente nella proibizione di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione

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La sussunzione di un determinato intervento edilizio in una delle categorie di opere di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 non dipendente dalla scelta soggettiva dell’ente pubblico autorizzante, ma discende dalla qualificazione legislativa e quindi dalla loro corrispondenza allo schema normativo. Tale affermazione risulta valida addirittura per la legislazione regionale (vedi Corte costituzionale, 23 novembre 2011 n. 309) e a maggior ragione per l’amministrazione, per cui la valutazione della natura delle opere prescinde integralmente dalle eventuali considerazioni favorevoli precedentemente svolte. Nel caso in specie il Consiglio di Stato rileva come le opere realizzate non sono assolutamente inquadrabili nel concetto di interventi di manutenzione, anche straordinaria. Tale nozione, già data dall’art. 31 comma 1 lettera b) della l. 5 agosto 1978 n°457, è ora espressa dall’art. 3 comma 1 lettera b) del d.P.R. n. 380 del 2011 e comprende "le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso". Del tutto pacificamente, la giurisprudenza interpreta tale nozione nel senso di imporre la necessaria esistenza di un duplice ordine di limiti, uno di carattere funzionale, costituito dalla necessità che i lavori siano diretti alla mera sostituzione o al puro rinnovo di parti dell'edificio, e l'altro di carattere strutturale, consistente nella proibizione di alterare i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari o di mutare la loro destinazione (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 22 marzo 2007 n. 1388). Ne deriva che, contrariamente a quanto dedotto in appello le opere realizzate si collocano concettualmente al di fuori del concetto di manutenzione straordinaria. Infatti, non è possibile legare il concetto di manutenzione straordinaria alla funzione svolta e quindi ritenere che, nel caso di impianti industriali come quello per cui è causa, questo possa essere riferito all’impianto nel suo complesso, atteso che la legge fa riferimento ai singoli interventi, escludendo questa tipologia di valutazione complessive (per la loro incongruenza, si veda la già citata Corte costituzionale, 23 novembre 2011 n. 309). Al contrario, le opere in esame integrano interventi diversi, non di mera sostituzione o rinnovo delle parti già esistenti, per cui esulano dal concetto evocato. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.6.2013, n. 3270)

 
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mercoledì 3 luglio 2013 19:18

Immobili, il nuovo regime fiscale delle locazioni e cessioni chiarito dall'Agenzia delle Entrate

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Si attenziona la presente circolare rubricata "Regime IVA cessioni e locazioni di fabbricati" in quanto l'Agenzia delle Entrate a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 9 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 26 giugno 2012, n. 147 e convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, recante "Misure urgenti per la crescita del Paese" (in seguito, "decreto-legge n. 83 del 2012"), si è' premurata di fare il punto sulla nuova disciplina IVA delle locazioni e delle cessioni di fabbricati prevista dall’art. 10, primo comma, nn. 8), 8-bis) e 8-ter), del d.P.R. n. 26 ottobre 1972, n. 633. L’intervento normativo ha ampliato le ipotesi in cui le cessioni e le locazioni di immobili – in linea di principio, esenti da IVA – sono assoggettabili ad imposta ed ha eliminato le ipotesi di imponibilità obbligatoria per le cessioni e le locazioni di immobili strumentali effettuate nei confronti di cessionari e conduttori privi del diritto a detrazione o con pro-rata di detraibilità pari o inferiore al 25 per cento. La disciplina IVA delle operazioni relative al settore immobiliare è stata, peraltro, precedentemente novellata dall’art. 57, comma 1, lett. a), del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 che ha introdotto, a decorrere dal 24 gennaio 2012, una fattispecie di imponibilità ad IVA opzionale in relazione alle locazioni e cessioni di fabbricati di civile abitazione destinati ad "alloggi sociali" (come definiti dal decreto del Ministro delle infrastrutture, di concerto con il Ministro della solidarietà sociale, il Ministro delle politiche per la famiglia ed il Ministro per le politiche giovanili e le attività sportive del 22 aprile 2008) ed ha consentito, altresì, alle imprese operanti nel settore immobiliare di optare per la contabilizzazione separata relativamente alle cessioni di immobili abitativi esenti da IVA. Per quanto riguarda l’edilizia convenzionata, si rammenta che fino al 23 gennaio 2012 (vale a dire prima dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 1 del 2012) erano imponibili per obbligo di legge (con aliquota del 10 per cento) le locazioni di fabbricati abitativi concesse dalle imprese costruttrici, entro quattro anni dall’ultimazione dei lavori, in attuazione di piani di edilizia residenziale convenzionata e con un contratto di locazione di durata non inferiore a quattro anni. In seguito alle modifiche introdotte dal decreto-legge n. 1 del 2012, in luogo del regime di imponibilità per obbligo di legge, le locazioni di fabbricati in edilizia convenzionata, possono essere assoggettate ad IVA su opzione del locatore – che può anche essere un soggetto diverso dall’impresa costruttrice. Dal 26 giugno 2012 (data di entrata in vigore del decreto-legge n. 83 del 2012), l’art. 10, primo comma, n. 8), del d.P.R. n. 633 del 1972, non prevede più l’edilizia convenzionata tra le deroghe al regime naturale di esenzione delle locazioni di fabbricati abitativi. Per accedere al testo per esteso della circolare cliccare sul titolo sopra linkato. (Agenzia delle Entrate, circolare n. 22/E del 28.6.2013)

 
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Si attenziona la presente circolare rubricata "Regime IVA cessioni e locazioni di fabbricati" in quanto l'Agenzia delle Entrate a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 9 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 26 giugno 2012, n. 147 e convertito dalla leg ... Continua a leggere

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mercoledì 3 luglio 2013 19:18

Appalti: l'Adunanza Plenaria conferma che l'apertura delle buste contenenti l'offerta tecnica va effettuata in seduta pubblica, con sanatoria solo per le procedure concluse o pendenti alla data del 9 maggio 2012

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Con l’ordinanza di rimessione il Consiglio di Stato è tornato ad occuparsi della questione riguardante l’obbligo di seduta pubblica per la fase di apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche e, in particolare, l’eventualità che tale obbligo vada ritenuto operativo solo per le gare indette dopo l’entrata in vigore dell'art. 12, D.L. 7 maggio 2012 n. 52, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 luglio 2012 n. 94, ovvero se debba ritenersi applicabile anche per la gare indette prima di tale data. Trattasi di un problema che tocca diversi ambiti, come il principio di pubblicità e trasparenza della pubblica amministrazione, la conoscibilità della regola di diritto e la ragionevole prevedibilità della sua applicazione, la buona fede e l’affidamento incolpevole, fino ad abbracciare problematiche di più ampio respiro, quali la funzione (meramente dichiarativa o concorrentemente creativa) riconosciuta alla giurisprudenza e, ancora più a monte, il discrimen tra modificazione del contenuto della norma per via interpretativa ed il novum ius, visto che il legislatore ha sentito l’esigenza di disciplinare gli effetti del mutamento sui procedimenti di gara ancora in corso. Tuttavia, a distanza di pochi giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza di rimessione 11 aprile 2013 si è pronunciata sul medesimo tema questa Adunanza Plenaria, con sentenza n. 8, pubblicata in data 22 aprile 2013, la quale, nell’esaminare analoga controversia, l’ha risolta nei seguenti termini: «L’Adunanza plenaria condivide … le conclusioni già definite da questo Consiglio, secondo cui il sopra citato art. 12 non ha portata ricognitiva del principio affermato con la pronuncia n. 13 del 2011 ma ha la specifica funzione transitoria di salvaguardare gli effetti delle procedure concluse o pendenti alla data del 9 maggio 2012, nelle quali si sia proceduto all’apertura dei plichi in seduta riservata, recando in sostanza, per questo aspetto, una sanatoria di tali procedure (Sez. V, 18 febbraio 2013, n. 978 e giurisprudenza ivi citata). Ciò sulla base delle seguenti argomentazioni: - il principio di pubblicità, pur di derivazione comunitaria, non è direttamente cogente ma ha un contenuto programmatico, restando perciò agli Stati membri la sua concreta declinazione in coerenza con altri valori, a cominciare da quello dell’affidamento incolpevole da parte dell’aggiudicataria che abbia confidato sulla vigenza di determinate regole procedimentali che, nella specie, nella maggior parte dei casi, prevedevano l’apertura dei plichi in seduta riservata; - con il citato art. 12, di conseguenza, è stata normata la regola di diritto definita dall’Adunanza plenaria ma è stato al contempo precisato che l’obbligo della seduta pubblica decorre dal 9 maggio 2012, confermando per il passato l’inesistenza di una disposizione cogente di tale contenuto; - questa disciplina transitoria ha lo scopo di evitare il travolgimento di numerosissime gare in corso, con i conseguenti oneri economici e amministrativi particolarmente gravosi nella presente fase di crisi economica; - né appare logico, si deve concludere, attribuire alla norma altra ratio; non vi sarebbe ragione infatti per un intervento normativo che obbliga all'apertura pubblica dei plichi soltanto a partire da una certa data "anche per le gare in corso ove i plichi contenenti le offerte tecniche non siano stati ancora aperti", se non allo scopo di tenere esente dall'obbligo l’intervenuta antecedente apertura dei plichi ». Tali principi, a ben vedere, trovano piena applicazione nella vicenda qui in esame, dato che: - la gara d’appalto in questione è stata indetta dalla Provincia di Cagliari con bando spedito per la pubblicazione in data 29 dicembre 2010; - la commissione ha eseguito la verifica dell’integrità dei plichi in seduta pubblica in data 20 aprile 2011; - l’apertura delle buste contenenti l’offerta tecnica è avvenuta in data 31 maggio 2011; - il provvedimento di aggiudicazione definitiva a favore di Cofely Italia s.p.a. risale al giorno 22 settembre 2011. Pertanto, essendosi il procedimento di gara concluso ben prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 52/2012, alla luce delle considerazioni che precedono, l’apertura in seduta riservata delle buste contenenti le offerte tecniche deve ritenersi perfettamente valida ed efficace. In conclusione, questa Adunanza Plenaria, nel pronunciarsi sulla portata dell’art. 12 del D.L. 7 maggio 2012, n. 52, non può che aderire al percorso argomentativo già tracciato dal proprio precedente di cui alla sentenza n. 8 del 2013: del resto, l’orientamento volto a riconoscere la natura sanante dell’art. 12 è diretto a contenere gli oneri amministrativi ed economici che deriverebbero della caducazione, altrimenti inevitabile, di centinaia di gare che, diversamente, sarebbero di fatto travolte per il mero mancato rispetto dei canoni di pubblicità dell’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche, in assenza di qualsivoglia indizio circa la manomissione o l’occultamento degli stessi da parte dell’amministrazione. Non può, invero, non riconoscersi a tale tesi un’utilità non trascurabile dal punto di vista della deflazione del contenzioso amministrativo e del rispetto del principio di affidamento e buona fede, da riferire tanto alla stazione appaltante, quanto all’impresa aggiudicataria della gara, che legittimamente può avere confidato sulla vigenza di determinate regole procedimentali. Pertanto, sulla base dei principi di diritto, qui espressamente richiamati e ribaditi, enunciati dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2013, il motivo di appello relativo all’apertura della busta contenente l’offerta tecnica va accolto. (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 27.6.2013, n. 16)

 
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