News 10 Dicembre 2013 - Area Tecnica


GIURISPRUDENZA

Procedure di gara: l’integrità delle buste contenenti le offerte tecniche ed economiche, attestata nel verbale di apertura, non é contestabile fino a querela di falso

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

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Nel giudizio in esame sul motivo di appello con cui si censura la sentenza di primo grado nella parte in cui ha respinto il motivo concernente l’omessa indicazione nei verbali delle modalità di custodia, integrità dei plichi e dei documenti presentati dalle imprese partecipanti e delle cautele predisposte per l’integrità dei plichi (verbali nn. 3, 4, 5, redatti nelle sedute del 12 ottobre 2011, 26 ottobre e 3 novembre 2011), il Consiglio di Stato ha ritenuto di condividere la decisione del TAR, alla luce di copiosa giurisprudenza anche di questa Sezione (cfr. C.d.S., V, 22 febbraio 2011, n. 1094; V, 16 aprile 2013, n. 2105; IV, 4 gennaio 2013, n. 4; III, 14 gennaio 2013, n. 145). L’integrità delle buste contenenti le offerte tecniche ed economiche, attestata nel verbale di apertura, non é contestabile, fino a querela di falso; mentre nei verbali delle sedute riservate successive non vi è traccia di menomazioni o irregolarità e neppure è stato concretamente argomentato dall’appellante che si possa essere verificata un'alterazione (Consiglio di Stato, sez. III, 24 settembre 2013, n. 4711). D’altra parte, la sinteticità della formula utilizzata nel verbale per descrivere lo svolgimento dell’attività di verifica dell’integrità dei plichi, la cui apertura è avvenuta in seduta pubblica, non può essere ritenuta idonea a viziare la procedura di gara non dovendo il seggio verbalizzare in maniera minuziosa tutte le attività di fatto materialmente svolte (Cons. Stato, Sez. V, 13 ottobre 2010 n.7470). Anche l’omessa verbalizzazione delle modalità di custodia delle offerte non può essere motivo di illegittimità in sé, se la censura non è sorretta da allegazione che si sia verificata una manomissione (Consiglio di Stato sez. III, 19 novembre 2012, n. 5820). Questa Sezione ha affermato che l'impresa partecipante, che denunci la mancata o insufficiente custodia da parte della stazione appaltante delle buste contenenti le offerte, è tenuta a comprovare quanto affermato con elementi circostanziati, tali da far ritenere verosimile o altamente probabile che, per effetto della condotta negligente dell'Amministrazione, si siano verificate manomissioni dei plichi (Consiglio di Stato sez. III, 25 febbraio 2013, n. 1169)....I meri sospetti e le congetture, non corroborati da indizi seri precisi e concordanti, specie ove alludano a comportamenti penalmente rilevanti, non possono legittimare ex sé l’annullamento degli atti di gara.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

 
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Appalti: non e' causa di esclusione dalla gara la presentazione di una cauzione provvisoria di importo insufficiente e/o deficitario rispetto a quello richiesto dalla "lex specialis"

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

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Nel giudizio in esame l'appellante deduce l’erroneità della sentenza per il mancato accoglimento dei motivi relativi alla violazione della lex specialis, nella parte riguardante il versamento della cauzione provvisoria, si osserva che la giurisprudenza più recente, anche di questa Sezione, è attestata sulla tesi sostenuta dal TAR Toscana, che, argomentando dall'art. 46, comma 1 bis, d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, il quale ha introdotto il principio di tassatività delle cause di esclusione dei concorrenti dalle procedure concorsuali (tra le quali non rientra la prestazione di una cauzione provvisoria di importo deficitario), ritiene non costituisca causa di esclusione dalla gara la presentazione di una cauzione provvisoria di importo insufficiente e/o deficitario rispetto a quello richiesto dalla "lex specialis", ovvero di una cauzione incompleta, e non già del tutto assente; in tal caso, l'impresa deve essere previamente invitata ad integrare la cauzione, emendando così l'errore compiuto. L'art. 75, 1° e 6° comma, cod. contr., prescrive l'obbligo di corredare l'offerta di una garanzia pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente, a garanzia della serietà dell'impegno di sottoscrivere il contratto e quale liquidazione preventiva e forfettaria del danno in caso di mancata stipula per fatto dell'affidatario. La norma non prevede, però, alcuna sanzione di inammissibilità dell'offerta o di esclusione del concorrente per l'ipotesi in cui la garanzia in parola non venga prestata; a differenza di quanto prevede, invece, l' 8° comma dello stesso articolo 75, con riferimento alla garanzia fideiussoria del 10 per cento dell'importo contrattuale per l'esecuzione del contratto, qualora l'offerente risultasse affidatario, garanzia che parimenti deve essere presentata unitamente all'offerta. Tale regola va applicata anche all’ipotesi in cui il concorrente abbia inteso avvalersi del beneficio di prestare la cauzione in misura ridotta, secondo quanto previsto dall’art. 75, c. 7, D.Lgs 175/2006 , pur senza fornire la prova del possesso della certificazione ISO mediante la produzione documentale. (Cons. Stato, sez. III, 1° febbraio 2012, n. 493; 4 ottobre 2012, n. 5203). Inoltre, è condivisibile quanto afferma il TAR, che ai fini del dimezzamento della cauzione provvisoria ai sensi dell'art. 75, comma 7, d.lgs. n. 163 del 2006, non è necessario che la certificazione del sistema di qualità sia allegata alla domanda di partecipazione: la predetta norma distingue, infatti, tra segnalazione del possesso del requisito e documentazione dello stesso. La segnalazione può essere anche implicita, ossia manifestarsi con la prestazione della cauzione dimezzata, non essendo previste particolari formalità; la documentazione può essere anticipata al momento della presentazione dell'offerta, se così preferisce il concorrente, ma non vi sono ragioni per escludere che la stessa venga collocata più avanti nel corso della procedura. Pertanto, l’autorizzazione della Commissione alla successiva integrazione documentale è del tutto legittima.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

 
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Nel giudizio in esame l'appellante deduce l’erroneità della sentenza per il mancato accoglimento dei motivi relativi alla violazione della lex specialis, nella parte riguardante il versamento della cauzione provvisoria, si osserva che la giurisprudenza più recente, anche di questa Sezione, è attest ... Continua a leggere

 

Subappalto: la dichiarazione di subappalto può essere limitata alla mera indicazione della volontà di concludere un subappalto nelle sole ipotesi in cui il concorrente sia a propria volta in possesso delle qualificazioni necessarie per l'esecuzione in via autonoma delle lavorazioni oggetto dell'appalto

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

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"La previsione di cui all'art. 118, comma 2, d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, in tema di dichiarazione di subappalto, deve essere intesa nel senso che essa può essere limitata alla mera indicazione della volontà di concludere un subappalto nelle sole ipotesi in cui il concorrente sia a propria volta in possesso delle qualificazioni necessarie per l'esecuzione in via autonoma delle lavorazioni oggetto dell'appalto, ossia nelle sole ipotesi in cui il ricorso al subappalto rappresenti per lui una facoltà, non la via necessitata per partecipare alla gara; al contrario, la dichiarazione in questione deve contenere anche l'indicazione del subappaltatore e la dimostrazione del possesso, da parte di quest'ultimo, dei requisiti di qualificazione, nelle ipotesi in cui il ricorso al subappalto si renda necessario a cagione del mancato autonomo possesso, da parte del concorrente, dei necessari requisiti di qualificazione (Consiglio di Stato, sez. III, 4 settembre 2013, n. 4431)."

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

 
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"La previsione di cui all'art. 118, comma 2, d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, in tema di dichiarazione di subappalto, deve essere intesa nel senso che essa può essere limitata alla mera indicazione della volontà di concludere un subappalto nelle sole ipotesi in cui il concorrente sia a propria volta i ... Continua a leggere

 

La ri-pubblicazione del piano regolatore generale, è necessaria solo in caso di modifiche che comportano uno stravolgimento dello strumento adottato o un profondo mutamento dei suoi criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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In linea di principio, l'iter di formazione dei piani regolatori deve essere interpretato alla luce del principio generale del "non aggravamento" di cui alla L. n. 241 del 1990 (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 13 luglio 2010 n. 4546). "La Sezione, al riguardo, è infatti da tempo orientata nel senso che una ri-pubblicazione del piano regolatore generale, è necessaria solo in caso di modifiche che comportano uno stravolgimento dello strumento adottato, ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, anche quando queste sono numerose sul piano quantitativo ovvero incidono in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 30 luglio 2012 n. 4321, Consiglio di Stato sez. IV 27 dicembre 2011 n. 6865, Consiglio di Stato sez. IV 05 settembre 2003 n. 4984, Consiglio di Stato sez. IV 17 novembre 1984 n. 865)."

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In linea di principio, l'iter di formazione dei piani regolatori deve essere interpretato alla luce del principio generale del "non aggravamento" di cui alla L. n. 241 del 1990 (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 13 luglio 2010 n. 4546). "La Sezione, al riguardo, è infatti da tempo orientata nel sens ... Continua a leggere

 

La variante di un piano regolatore generale che conferisce nuova destinazione ad aree che risultano già urbanisticamente classificate necessita di apposita motivazione solo se le classificazioni siano assistite da specifiche aspettative in capo ai rispettivi titolari, fondate su atti di contenuto concreto

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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Il principio di massima ribadito dal Consiglio di Tato nella sentenza in esame è che le scelte di destinazione urbanistica costituiscono valutazioni ampiamente discrezionali che non richiedono una particolare motivazione al di là di quella ricavabile dai criteri e principi generali che ispirano lostrumento di pianificazione, potendosi derogare a tale regola soltanto in presenza di specifiche situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del proprio suolo, quali ad esempio la sussistenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (Consiglio di Stato sez. IV, 7 novembre 2012, n. 5665). La giurisprudenza ha, invero, ripetutamente affermato che la variante di un piano regolatore generale che conferisce nuova destinazione ad aree che risultano già urbanisticamente classificate necessita di apposita motivazione solo allorché le classificazioni siano assistite da specifiche aspettative in capo ai rispettivi titolari, fondate su atti di contenuto concreto. Deve trattarsi di scelte che incidano su specifiche aspettative, come quelle derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia, dalla reiterazione di un vincolo scaduto (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 7771 del 25.11.2003, n. 1732 del 4.12.1998, n. 1190 del 14.10.1997). L'obbligo della motivazione specifica delle scelte urbanistiche sussiste solo nella ipotesi di variante avente finalità specifica e oggetto circoscritti, ovvero quando la disciplina nuova venga a travolgere aspettative legittime qualificate da speciali atti dell'amministrazione. Nella specie, dunque, contrariamente a quanto dedotto dall'appellante amministrazione comunale, tali condivisibili considerazioni non potevano che indurre il Tribunale a disporre l'annullamento della determinazione di variante, in relazione alla riscontrata insufficienza motivazionale dalla stessa, recata in ordine al sacrificio imposto con la mutata destinazione urbanistica dell'area di proprietà della ricorrente, in precedenza suscettibile di vocazione edificatoria ed in base alla quale era stata rilasciata la concessione edilizia (così in termini Cons. Stato, V, 6134 del 16 ottobre 2006). Per accedere al testo integrale della sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

 
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Al proprietario di un'area sottoposta a procedimento espropriativo per la realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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In diritto, è principio consolidato che sia illegittima la adozione di atto comportante dichiarazione di pubblica utilità, che non sia stata preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento ai proprietari dell'area interessata dalla costruzione, non potendosi ritenere sufficiente la comunicazione dell'avvio per la fase successiva (ex plurimis, Consiglio di Stato, IV, 13 dicembre 2001, n. 6238; Consiglio di Stato, VI, 1617 del 25 marzo 2004). La reiterazione di un vincolo preordinato all'esproprio finalizzato ad uno specifico intervento, poiché destinato ad incidere su una posizione giuridica determinata, deve essere preceduto dall'avviso di avvio del procedimento (Adunanza Plenaria Consiglio di Stato, n. 7 del 2007). Tale obbligo di comunicare l'avvio del procedimento non può considerarsi superfluo, in via di fatto, neanche se afferente ad una procedura di rinnovazione di precedente progetto di opera pubblica o di dichiarazione di pubblica utilità, stante la precedente conoscenza da parte dei proprietari di una precedente procedura ablatoria (tale ragione adduce il Comune). Quando l'amministrazione attivi una nuova procedura ablatoria (rinnovo della dichiarazione di pubblica utilità e vincoli decaduti), deve indefettibilmente comunicare l'avviso di inizio del procedimento, per stimolare l'eventuale apporto collaborativo del privato (così, Consiglio di Stato, IV, 17 aprile 2003, n. 2004 e Plenaria n. 7/2007). La comunicazione di avvio del procedimento deve avvenire non al momento dell'adozione del decreto di occupazione di urgenza, ma in relazione ai precedenti atti di approvazione del progetto e di dichiarazione della pubblica utilità dell'opera. Quando ciò non avviene, anche il decreto di occupazione di urgenza è viziato per illegittimità derivata, essendo necessario che la partecipazione degli interessati sia garantita già nell'ambito del pregresso procedimento autorizzatorio, in cui vengono assunte le determinazioni discrezionali in ordine all'approvazione del progetto dell'opera e alla localizzazione della stessa (così, per esempio, Consiglio Stato, sez. IV, 18 marzo 2010 , n. 1616). Inoltre, anche nella ipotesi in cui fosse ancora efficace il vincolo preordinato all'esproprio (così sostiene nelle sue tesi il Comune), ma fossero venuti meno gli effetti della dichiarazione di pubblica utilità, per il rinnovo di questa occorrerebbe il rispetto della normativa riguardante tale specifica fase del procedimento, possibile solo consentendo una rinnovata partecipazione dell'espropriando nel rispetto dei principi desumibili dal t.u. 8 giugno 2001 n. 327 e dall'art. 7, l. 7 agosto 1990 n. 241 (Consiglio Stato , sez. IV, 12 maggio 2009 , n. 2931). La dichiarazione di pubblica utilità non è un subprocedimento del procedimento espropriativo ma costituisce un procedimento autonomo che si conclude con un atto di natura provvedimentale, che incide direttamente sulla sfera giuridica del proprietario ed è immediatamente lesivo, con la conseguenza che appare necessaria la partecipazione degli interessati, nel corso della fase che precede la dichiarazione di pubblica utilità, avendo il fine di consentire la rappresentazione degli interessi privati coinvolti prima che sia disposta la dichiarazione di pubblica utilità per realizzare una ponderata valutazione degli interessi in conflitto (così Consiglio Stato, sez. III, 07 aprile 2009 , n. 479 e Adunanza Plenaria n. 7 del 2007 su menzionata). Costituisce principio generale ed inderogabile dell'ordinamento vigente che al privato, proprietario di un'area sottoposta a procedimento espropriativo per la realizzazione di un'opera pubblica, deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo, né sarebbe invocabile come esimente dal dovere in questione il disposto dell'art. 13, comma 1, l. 7 agosto 1990 n. 241, in quanto detta norma si riferisce ai soli atti a contenuto generale (Consiglio Stato, sez. IV, 29 luglio 2008 n. 3760). Per accedere alla lettura integrale della sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Revisione dei prezzi: se il differimento nella consegna dei lavori consegua ad una espressa richiesta formulata dall’impresa, il periodo di differimento non può essere computato ai fini della determinazione della durata superiore all’anno e quindi per rendere applicabile il meccanismo della revisione prezzi

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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La Quarta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha statuito che, ogni volta che un differimento nella consegna dei lavori consegua ad una espressa richiesta in tal senso formulata dall’impresa, il periodo di differimento – interponendosi tra momento in cui l’offerta acquista carattere di certezza ed irrevocabilità (quale dies a quo del termine annuale) e futura scadenza del detto termine – non può essere computato ai fini della determinazione della durata (eventualmente) superiore all’anno, e quindi ai fini di rendere applicabile il meccanismo della revisione prezzi. Per un verso, appare evidente che il differimento, e dunque il tempo intercorrente tra consegna dei lavori che l’amministrazione intenderebbe effettuare e data di effettiva consegna per effetto del rinvio richiesto dall’impresa, consegue ad una espressa manifestazione di volontà di quest’ultima (e dunque, come afferma la sentenza appellata, "a interessi propri dell’appaltatore"). Per altro verso, l’accoglimento dell’istanza di rinvio non può essere interpretata invece che come un mero riconoscimento di una esigenza dell’impresa, al contrario come una (ulteriore e distinta) esigenza dell’amministrazione, il che renderebbe rilevante il periodo dovuto al ritardo ai fini del computo del termine annuale. Né, infine, ciò che rappresenta un riconoscimento di una esigenza dell’impresa può determinare, da un lato, in capo all’impresa stessa l’insorgere del diritto ad ottenere la revisione prezzi; dall’altro lato, in capo all’amministrazione, la possibile insorgenza di una obbligazione per fatto ad essa imputabile. In definitiva, se nell’ambito di un rapporto contrattuale le parti hanno inciso sul regolamento dei propri interessi, determinando la variazione anche solo di elementi relativi all’esecuzione del contratto, la (nuova) pattuizione, ai sensi dell’art. 1366 c.c., deve essere interpretata secondo buona fede, e, dunque, non può giungere a determinare un "capovolgimento" delle posizioni contrattuali e l’insorgenza di un diritto in capo ad una parte (non derivante dalla volontà stessa delle parti, ma da integrazione eteronoma non pattuita e/o comunque esplicitata), con corrispondente insorgenza di obbligo a carico dell’altra.

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La Quarta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza in esame ha statuito che, ogni volta che un differimento nella consegna dei lavori consegua ad una espressa richiesta in tal senso formulata dall’impresa, il periodo di differimento – interponendosi tra momento in cui l’offerta acquista caratt ... Continua a leggere

 

Procedimenti espropriativi illegittimi: ai fini della quantificazione del danno derivante alle aree per effetto della occupazione sine titulo seguita dall’irreversibile trasformazione dei suoli, il criterio fondamentale è quello di tener presente il valore venale del bene desumibile dalla sua destinazione urbanistica

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame rileva come lo scenario sotteso ai procedimenti espropriativi illegittimamente posti in essere va ridisegnato sulla scorta degli arresti giurisprudenziali sopraggiunti in materia (fra le tante Cons. Stato Sez. V 2/11/2011 n. 5844; Cons. Stato Sez. IV 2dicembre 2011 n.6375), laddove è stato consacrato il principio per cui è ormai indifferente e/o irrilevante parlare di occupazione acquisitiva o di occupazione usurpativa, venendo in rilievo un atto e/o comportamento illecito ascrivibile alla pubblica amministrazione e consistente nell’occupazione sine titulo di un suolo privato seguita (come nel caso de quo) dalla sua irreversibile trasformazione per effetto della realizzazione su di esso di un’opera pubblica. A seguito di ciò viene in rilievo una situazione in cui si inverano i presupposti della responsabilità della P.A., secondo lo schema aquiliano ex art.2043, produttiva, come tale, di danno risarcibile: di qui il corretto riconoscimento da parte del primo giudice dell’ammissibilità e fondatezza della domanda risarcitoria formalmente avanzata dagli attuali appellati già in prime cure con tutti e tre i ricorsi presentati. Né, ad invalidare l’ammissibilità della domanda risarcitoria, può valere la circostanza, pure opposta nei proposti gravami, in base alla quale gli appellati, nel corso del giudizio hanno rinunciato alla domanda di restituzione delle aree formulata in via principaliter, mutando così il petitum iniziale. Invero, la rinuncia alla restituzione dei beni non inficia la concorrente domanda risarcitoria, versandosi nella specie unicamente in un caso di emendatio libelli e non di inammissibile mutatio, ove si consideri che la doppia azione risarcitoria e restitutoria costituisce espressione della tutela approntata dall’ordinamento in favore dell’amministrato, in base alla quale la tutela in forma specifica e quella per equivalente appaiono come mezzi concorrenti per conseguire la riparazione del pregiudizio subito (cfr Cons. Stato Sez. IV 1° giugno 2011 n. 3331)...Ciò detto, ai fini della quantificazione del danno derivante alle aree qui in rilievo per effetto della occupazione sine titulo seguita dall’irreversibile trasformazione dei suoli, il criterio fondamentale cui rapportare le determinazione del ristoro patrimoniale è quello di tener presente il valore venale del bene, come ovviamente desumibile dalla sua destinazione urbanistica (Cons. Stato Sez. IV 2 dicembre 2011 n. 6375). Con gli appelli in questione la Società Interporto Marche e il Comune di Jesi criticano i criteri assunti dal Tar per la determinazione del danno risarcibile, rilevando, in particolare la erroneità del decisum per quanto attiene all’attribuita qualificazione di aree edificabili ai fondi di che trattasi, all’argomentazione della libera contrattazione e all’utilizzo del criterio equitativo del valore unitario dell’area pari a 33 euro/mq. Con riferimento al primo aspetto, le relative censure colgono nel segno. Non si può determinare il risarcimento dovuto secondo il criterio del valore edificabile (come erroneamente fatto dal Tar), posto che tale destinazione l’area de qua non aveva al momento dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, né potendosi considerare una capacità di edificazione in ragione della prevista realizzazione dell’opera pubblica per cui è causa. Il valore venale delle aree in questione non può essere collegato ad una destinazione, quella edificabile, che i suoli in questione non hanno mai avuto dal punto di vista urbanistico; e nella specie occorre tener conto del criterio strettamente legale: la natura edificabile, invero, di un’area non può essere supposta, ma derivare unicamente dalla classificazione inserita negli strumenti urbanistici al momento dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio (Cass. Sez. civile, I sezione 4 giugno 2010 n. 13615; idem 3 giugno 2010 n. 13461 e 15 luglio 2009 n.16531). La regola iuris testé illustrata si pone in perfetta consonanza con i principi che informano l’attività espropriativa della P.A., a fronte della quale il diritto al giusto indennizzo da parte del titolare dei diritti dominicali esistenti sul suolo ablato deve essere rapportato necessariamente al valore degli immobili come desunto dal loro stato e dalla condizione esistenti al tempo dell’espropriazione; e questa non può non tener conto della tipizzazione urbanistica al momento della presa in possesso del terreno (nella specie la destinazione agricola). D’altra parte è fuori discussione che nel caso de quo, con l’approvazione della variante al PRG recante la previsione della realizzazione del centro intermodale, si è introdotto un chiaro vincolo preordinato all’esproprio, che è andato ad incidere, in funzione della puntuale localizzazione dell’opera pubblica prevista (cfr Cons. Stato sez. IV 28 dicembre 2012 n. 6700) sulla proprietà privata, svuotando quest’ultima di ogni possibilità edificatoria sia in punto di diritto che di fatto (in tal senso Cons. Stato Sez. IV 29 novembre 2012 n. 6094). Né, ai fini della determinazione del valore venale dei beni de quibus, può farsi ricorso, come anche qui erroneamente sancito dal primo giudice, al valore che le aree avrebbero avuto "in una libera contrattazione": il criterio utilizzato dal Tar è del tutto astratto, dal momento che nella specie si versa in una procedura espropriativa connotata da un situazione pacificamente antitetica a quella contrassegnata da una libera contrattazione. In altri termini, il bene, quanto alla determinazione del suo valore, una volta sottoposta alla procedura ablatoria, non può essere valutato alla stregua dei criteri della libera contrattazione e della concorrenza commerciale, proprio perché non si configura un rapporto paritetico tra espropriato e amministrazione espropriante e comunque non si possono collegare all’immobile ablato scopi edificatori, produttivi e commerciali diversi da quelli ad esso ascrivibili in ragione della natura e classificazione del bene come ad esso conferite in base alle scelte urbanistiche vigenti al momento dell’apposizione del vincolo espropriativo. Per chiudere sul punto, sarebbe del tutto illogica la configurazione di un possibilità edificatoria delle aree qui in discussione facendola derivare indirettamente dalla prevista realizzazione dell’opera pubblica, laddove la edificabilità introdotta con la previsione non può non valere che per le aree destinate ad essere utilizzate in via strumentale e funzionale alla esecuzione dell’infrastruttura de qua, senza che tale "capacità di minore o maggiore capacità edificatoria" possa estendersi a terreni che mai hanno posseduto la destinazione a soddisfare lo jus aedificandi e che d’altronde rimangono "estranei" agli scopi pubblicistici perseguiti a mezzo della procedura espropriativa.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

 
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Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame rileva come lo scenario sotteso ai procedimenti espropriativi illegittimamente posti in essere va ridisegnato sulla scorta degli arresti giurisprudenziali sopraggiunti in materia (fra le tante Cons. Stato Sez. V 2/11/2011 n. 5844; Cons. Stato Sez. IV 2 ... Continua a leggere

 

Appalti: se il Bando richiede il requisito dell’iscrizione nel Registro delle Imprese per "attività" non è sufficiente richiamare "l'oggetto sociale" che e' concetto non coincidente con l'attività effettivamente esercitata

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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Come chiarito dalla giurisprudenza ribadita da ultimo nella sentenza in esame, oggetto sociale e attività effettivamente esercitata (quest'ultima da comprovare mediante la prescritta dichiarazione verificabile in base alla certificazione camerale), non possono essere considerati come concetti coincidenti, atteso che un’attività può ben essere prevista nell’oggetto sociale - risultante dall’iscrizione sotto la voce "dati identificativi dell’impresa" - senza essere attivata poi in concreto (cfr. Cons. St., sez. V, 19 febbraio 2003, n. 925). E’ ovvio, quindi, come nessun rilievo possa attribuirsi all’oggetto sociale dell’impresa, il quale abilita quest’ultima a svolgere una determinata attività, ma nulla dice in ordine all’effettivo svolgimento della stessa (cfr. Cons. St., sez. V, n. 925 del 2003, cit.; Cons. St., sez. VI, 20 aprile 2009, n. 2380). Il bando in questione, nel richiedere il requisito dell’iscrizione nel Registro delle Imprese per "attività" e non per "oggetto sociale", ha inteso garantire che i soggetti partecipanti avessero acquisito concreta e non meramente potenziale esperienza a riguardo del servizio appalto e, ciò, a prescindere dai diversi e distinti requisiti di capacità economica e finanziaria e tecnica. Non vi sono dubbi, allora, che l'impresa andava esclusa dalla gara de qua senza che essa possa a ragione invocare il principio di tassatività delle clausole di esclusione di cui all’art. 46, c.1 bis, del D.Lgs. n. 163/2006. Invero, il requisito della "iscrizione per attività inerenti al presente affidamento pubblico del Registro delle Imprese" è stato richiesto a pena di esclusione in ossequio alle previsioni di cui all’art. 39, D.Lgs. n. 163/2006; l’esclusione per mancato possesso dello stesso rientra, quindi, nei casi di esclusione per mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice e dal regolamento dei contratti pubblici, espressamente previsti dall’art. 46 del Codice; né è stata impugnata in parte qua la lex specialis di gara.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

 
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La comunicazione del parere favorevole della commissione edilizia comunale, anche se accompagnata dall’importo degli oneri da versare, non ha il valore provvedimentale di un atto di assentimento del permesso edilizio richiesto

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Il Consiglio di Stato ha costantemente affermato - a differenza del previgente ordinamento ove vigeva il principio di libertà delle forme della licenza edilizia – con l'entrata in vigore della L. 28 gennaio 1977 n. 10 non è più consentita l’equiparazione della comunicazione del parere favorevole della Commissione Edilizia Comunale al provvedimento edilizio, in quanto quest’ultimo non è sostituibile dall’avviso del parere (cfr. Consiglio Stato sez. IV 30 giugno 2005 n. 3608, Consiglio Stato sez. IV 30 giugno 2005 n. 359; Consiglio Stato sez. IV 22 febbraio 1999 n. 209: Consiglio Stato sez. VI 09 ottobre 1998 n. 1368 Pertanto la mera comunicazione del parere favorevole espresso dalla commissione edilizia comunale, anche se accompagnata dall’importo degli oneri da versare, non può avere, né formalmente e né sostanzialmente, il valore provvedimentale di un atto di assentimento del permesso edilizio richiesto, ma, semmai, solo di un mero atto informativo dell’esaurirsi di una fase subprocedimentale (cfr. Consiglio di Stato sez. V 20 aprile 2000 n. 2424; Consiglio Stato sez. V 29 luglio 2003 n. 4325; Consiglio Stato sez. V 07 aprile 1989 n. 193; Consiglio Stato sez. VI 09 ottobre 1998 n. 1368).....Peraltro la firma del Sindaco, in corrispondenza del timbro di approvazione della CEI, non poteva avere alcun rilievo in quanto, per effetto del mutato quadro normativo delle competenze del Sindaco e della dirigenza degli enti locali -- di cui alla L. n. 142/1990 prima e del T.U. di cui al d.lgs. n. 267/2000 e s.m.i. poi -- è venuta meno da tempo ogni competenza del primo in materia edilizia. Rientrano infatti nella esclusiva sfera di competenza del dirigente tutti i provvedimenti di gestione amministrativa in materia edilizia e urbanistica, nessuno escluso (ivi compresi quelli di cui alla l. n. 47/1985). Analogamente inconferente ai presenti fini è anche il pagamento degli oneri, in quanto trattasi di atto normalmente prodromico all’emissione del provvedimento definitivo.

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E' legittimato ad impugnare la concessione edilizia ad altri rilasciata chi, lamentando la illegittimità del titolo edificatorio rilasciato dal Comune, dimostri la titolarità di una costruzione in area limitrofa a quella di esecuzione dei lavori

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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Che la regola sancita dall’art. 31, nono comma, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (secondo cui "chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione") non abbia inteso introdurre una forma di azione popolare, è affermazione troppo consolidata da non richiedere il sostegno di specifici precedenti.Secondo una giurisprudenza costante, la norma riconosce una posizione qualificata e differenziata solo in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di "stabile collegamento" con la stessa. Di conseguenza, è legittimato a impugnare la concessione edilizia ad altri rilasciata chi, lamentando la illegittimità del titolo edificatorio rilasciato dall’Autorità competente, dimostri la titolarità di una costruzione in area limitrofa a quella di esecuzione dei lavori, anche se non abbia fornito la prova che questi ultimi abbiano cagionato un danno, costituendo questa una questione di merito irrilevante sulla condizione dell'azione (cfr. per tutte, in termini, Cons. Stato, sez. VI, 15 giugno 2010, n. 3744; Id., sez. IV, 8 luglio 2013, n. 3596).

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Affidamento di una concessione di servizi ex art. 30 del d.lgs. n. 163/2006: il Consiglio di Stato precisa quando la composizione in numero pari della commissione di gara non determina l'illegittimità della procedura

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI

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La sentenza impugnata ha accolto il motivo del ricorso relativo alla composizione della commissione aggiudicatrice, in numero pari di membri. Tale composizione ad avviso del Consiglio di Stato non determina l’illegittimità della procedura in esame, in considerazione sia dell’informalità della stessa, sia della mancanza di una vera e propria commissione di gara, sia, infine, del risultato del giudizio. Sotto i primi due profili, vale puntualizzare che nella procedura per cui è causa, concernente l'affidamento di una concessione di servizi ex art. 30 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (sul punto, Cons. Stato, sez. V, 9 settembre 2013, n. 4471), la scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici, se ed in quanto norme di principio o esplicative di principi generali (Cons. Stato., A. P., 7 maggio 2013, n. 13). Ai sensi del terzo comma dell'art. 30, appena richiamato, la scelta del concessionario deve quindi avvenire nel rispetto dei princìpi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità. Tale principi non risultano violati nella fattispecie in esame, poiché, nel determinare la competenza della giunta esecutiva del consiglio d’istituto ad effettuare l’apertura delle buste contenenti le offerte, la lettera d’invito del 28 aprile 2012 ha comunque delineato, quanto alla costituzione dell’organo deputato alle operazioni di gara, un procedimento sufficientemente rispettoso dei canoni fondamentali delle procedure pubbliche, che, per l’affidamento delle concessioni di servizi, non deve necessariamente corrispondere ai precisi e formali parametri richiesti nell'ambito di applicazione della disciplina comunitaria ed interna in materia di appalti pubblici. Quanto sin qui detto è rafforzato dal risultato della gara, determinato nella seduta del 10 luglio 2012 mediante votazione, che ha visto sette membri favorevoli all’assegnazione a Tuttomatic, due contrari, e un astenuto. La composizione dell’organo aggiudicatore non ha quindi avuto, neppure nel concreto esito della procedura, alcun effetto distorsivo del risultato.

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Scaduto il termine di efficacia stabilito per l'esecuzione del piano particolareggiato, nella parte in cui esso è rimasto inattuato, non è più possibile eseguire i previsti espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI

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Nel giudizio in esame l'appellante sostiene che pure a seguito del decorso del termine decennale, nondimeno il piano di lottizzazione resterebbe comunque efficace in relazione alla normativa urbanistica e edilizia di zona, la quale resterebbe in tal modo "ultrattiva a tempo indeterminato". Tale tesi non viene condivisa dal Consiglio di Stato che nella sentenza in esame ha ritenuto di richiamare il condiviso orientamento in base al quale la disposizione di cui all’articolo 17 della l. 1150 del 1942 (cui deve essere assimilata per la richiamata contiguità di ratio materiae la previsione di cui all’articolo 37 della legge regionale n. 56 del 1980) deve essere intesa nel senso che, scaduto il termine di efficacia stabilito per l'esecuzione del piano particolareggiato, nella parte in cui esso è rimasto inattuato, non è più possibile eseguire i previsti espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, non potendosi, in particolare, procedere all'edificazione residenziale per assenza di tale fondamentale presupposto. Però, nel caso in cui il detto piano ha avuto attuazione, con la realizzazione di strade, piazze ed altre opere di urbanizzazione, l'edificazione residenziale si deve considerare consentita secondo un criterio di armonico inserimento del nuovo nell'edificato esistente, e cioè in base alle norme del piano attuativo scaduto, che mantengono la loro integrale applicabilità (in tal senso: Cons. Stato, IV, 27 ottobre 2009, n. 6572).......Tanto, alla luce del consolidato orientamento secondo cui il termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall'art. 16 comma 5, l. 17 agosto 1942 n. 1150 per i piani particolareggiati non è suscettibile di deroga neppure sull'accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo; ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio al piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria. (in tal senso, di recente: Cons. Stato, IV, 18 marzo 2013, n. 1574; id., IV, 28 dicembre 2012, n. 6703). Per accedere al testo per esteso della sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Nel giudizio in esame l'appellante sostiene che pure a seguito del decorso del termine decennale, nondimeno il piano di lottizzazione resterebbe comunque efficace in relazione alla normativa urbanistica e edilizia di zona, la quale resterebbe in tal modo "ultrattiva a tempo indeterminato". Tale tes ... Continua a leggere

 

Abusi edilizi: le ulteriori opere eseguite dopo la presentazione dell'istanza di condono edilizio, ancorché interne o di non grande entità, devono dirsi abusive e in prosecuzione dell'illecita pregressa attività edilizia

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La Quarta Sezione del Consiglio di Stato con la sentenza in esame ribadisce l’orientamento giurisprudenziale che, in via generale, stabilisce che (T.A.R. Lazio Roma Sez. I quater, 14-09-2012, n. 7799 , Tar Napoli, n. 1891/20129)" le ulteriori opere eseguite dopo la presentazione dell'istanza di condono edilizio, ancorché interne o di non grande entità, devono dirsi abusive e in prosecuzione dell'illecita pregressa attività edilizia, e ciò essendo mancata l'attivazione per esse del procedimento per il completamento previsto dall'art. 35 L. 47/1985."

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Risarcimento dei danni causati dalla Pubblica Amministrazione: al di fuori di specifici settori come quello degli appalti pubblici, non c'è' responsabilità civile dell'amministrazione per danno da provvedimento illegittimo senza il concorso dell’elemento soggettivo

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Nel giudizio in esame il ricorrente agisce per ottenere dal Comune di Lecce il risarcimento dei danni subiti a seguito dell’annullamento in autotutela - poi annullato dal T.A.R. - di una concessione edilizia. Il Consiglio di Stato ha evidenziato che senza dover esaminare, nelle sue articolate sfaccettature, il tema complesso della responsabilità della P.A., il Collegio esprime preliminarmente la propria convinta adesione all’orientamento - peraltro largamente dominante - secondo cui, al di fuori di specifici settori (in primis: quello degli appalti pubblici), non si dà responsabilità civile dell’Amministrazione per danno da provvedimento illegittimo senza il concorso dell’elemento soggettivo, normalmente identificato nella colpa (cfr. in termini esaustivi Cons. Stato, sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482). L'illegittimità del provvedimento amministrativo, una volta accertata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, a valutare la quale vanno presi in considerazione anche altri fattori, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità del fatto, il carattere pacifico della questione esaminata, il carattere vincolato o a bassa discrezionalità dell'azione amministrativa.

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Vincolo paesaggistico: gli abusi non sanabili ex L. n. 326/2003 sono quelli realizzati su aree vincolate anteriormente alla realizzazione dell’opera, in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio o dalle norme e prescrizioni urbanistiche

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L’art. 32, comma 27 , lett. d) D.L. n. 269/2003, convertito nella legge n.326/03, vieta la sanatoria di abusi su immobili realizzati in assenza di titolo edilizio in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, come, nella specie, non è contestato sia la fascia di 300 m. dalla battigia. Trattasi di norma di stretta interpretazione, in quanto espressione di un principio generale sui limiti della sanatoria , che prevede ipotesi tassative delle tipologie di opere insuscettibili di sanatoria e che non si presta ad alcuna valutazione discrezionale (Corte cost. sent. n.225/2012).Quanto all’ipotesi di cui alla lett. d), gli abusi non sanabili sono quelli realizzati su aree vincolate anteriormente alla realizzazione dell’opera, in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio o dalle norme e prescrizioni urbanistiche. Nella specie, la circostanza che il cambio d’uso non abbia comportato la realizzazione di nuove opere è contraddetta sia dalla esplicita indicazione contenuta nella domanda di condono ove si fa riferimento ad interventi di "ristrutturazione", sia dalla circostanza , non contestata, che siano state realizzate opere interne, per adeguare il locale all’attività da svolgervi, prima dell’emissione del diniego. L’art. 10, comma 1, lett. c) del D.P.R. 6.6.2001, n. 380 espressamente definisce come interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio subordinati al permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia comportanti mutamento di destinazione d’uso in zone di particolare pregio ambientale. Anche la legge regionale n. 31/2010, all’epoca vigente, prevede che il cambio d’uso con opere sia sottoposto a permesso di costruire (art.8 e art.12) e non a semplice d.i.a. Pertanto, l’assenza dell’idoneo titolo edilizio consistente nel permesso di costruire legittima pienamente l’applicazione dell’art. 32, comma 27 lett. d) ai fini del diniego di sanatoria in area sottoposta a vincolo paesaggistico.

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L’art. 32, comma 27 , lett. d) D.L. n. 269/2003, convertito nella legge n.326/03, vieta la sanatoria di abusi su immobili realizzati in assenza di titolo edilizio in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, come, nella specie, non è contestato sia la fascia di 300 m. dalla battigia. Trattasi di no ... Continua a leggere

 

Permesso di costruire: in assenza di pianificazione urbanistica l’amministrazione deve ex art. 12 D.P.R. n. 380/2001 verificare che il rilascio del permesso di costruire sia accompagnato dalla preesistenza o dalla contemporanea realizzazione almeno delle opere di urbanizzazione primaria per avere quel minimo di infrastrutture necessarie per l'intervento edilizio richiesto

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In assenza di pianificazione urbanistica, la richiesta del permesso di costruire ai sensi dell’art. 9,1° co. lett. b) del D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 deve essere comunque assoggettata alle prescrizioni di cui all’art. 12, secondo comma del D.P.R. n. 380 cit. per cui il rilascio del permesso è subordinato in alternativa: -- all’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria di cui all'art. 4, l. 29 settembre 1964 n. 847, che comprendono spazi di sosta o di parcheggio, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato, strade residenziali nonché rete fognaria; ovvero -- alla previsione da parte del comune dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio; ovvero -- all'impegno degli interessati di procedere all'attuazione delle medesime contemporaneamente alla realizzazione dell'intervento oggetto del permesso. Compito primario dell’art. 12 cit. è, infatti, quello di assicurare comunque -- anche nei casi di assenza o di carenza di pianificazione urbanistica -- che si realizzi un sistema infrastrutturale adeguato ad un ordinato e razionale vivere civile. L’amministrazione, è dunque onerata dall'art. 12 cit., a verificare che il rilascio del permesso di costruire sia comunque accompagnato dalla preesistenza o dalla contemporanea realizzazione almeno delle opere di urbanizzazione primaria in concreto necessarie (viabilità, reti idriche, fognarie e tecnologiche) per poter ritenere che la zona possa avere quel minimo di infrastrutture necessarie per l'intervento edilizio richiesto. Al riguardo proprio la considerazione delle predette finalità, porta a dover respingere l’assunto dell’appellante: il Tar ha puntualmente ed esattamente qualificato la fattispecie, rilevando che, nella specie, era stata falsamente rappresentata l’esistenza di opera d'urbanizzazione primaria essenziale quale la linea idrica, nella realtà del tutto inesistente. La p.a., nell’applicazione dell’art. 9 del D.P.R. n. 380/2001 non poteva limitarsi genericamente a prendere atto della rappresentazione dell’esistenza degli standard nel progetto e nella relativa dichiarazione allegata all’istanza. In tali casi, l’amministrazione nel rilascio del permesso di costruire deve invece procedere all’effettivo controllo dell’esistenza e della sufficienza di tutte le opere di urbanizzazione; ovvero deve dare indicazione circa la relativa concreta programmazione; oppure deve assicurare in concreto l'impegno contestuale del privato a costruirle in una con l'opera in progetto (cfr. Consiglio Stato sez. V 15 febbraio 2001 n. 790). Per accedere al testo per esteso della sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Abusi edilizi: l'amministrazione non e' tenuta ad inviare la comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio e l'omessa o imprecisa indicazione dell’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione

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Sul piano procedimentale, il Consiglio di Stato aderendo ad ampia giurisprudenza amministrativa in materia, ha osservato che, laddove l’amministrazione deve avviare un procedimento sanzionatorio in materia di abusi edilizi, non è tenuta ad inviare la comunicazione di avvio del procedimento, posto che si tratta di attività amministrativa vincolata e che, pertanto, non possono esservi particolari modificazioni dell’agire amministrativo in dipendenza della partecipazione dell’interessato.....Quanto al secondo motivo, occorre osservare che i provvedimenti sanzionatori di abusi edilizi non abbisognano di particolare motivazione (in particolare, in tema di sussistenza di interesse pubblico attuale alla demolizione), posto che l’esercizio del potere repressivo-sanzionatorio risulta sufficientemente giustificato, quanto al presupposto, dalla mera descrizione delle opere abusivamente realizzate, stante la previsione legislativa della conseguente misura sanzionatoria. Infine, il Collegio deve affermare che la omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione. Mentre con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina, appunto, la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, l’indicazione dell’area costituisce presupposto accertativo ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria.

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Sul piano procedimentale, il Consiglio di Stato aderendo ad ampia giurisprudenza amministrativa in materia, ha osservato che, laddove l’amministrazione deve avviare un procedimento sanzionatorio in materia di abusi edilizi, non è tenuta ad inviare la comunicazione di avvio del procedimento, posto c ... Continua a leggere

 

Espropriazione per pubblica utilità: la decadenza del vincolo non esclude che l’amministrazione, mediante il ricorso al procedimento per l’adozione delle varianti agli strumenti urbanistici, possa reiterare i vincoli preordinati all’espropriazione, fornendo congrua motivazione

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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La vicenda dei vincoli preordinati all’espropriazione, contenuti nel piano regolatore generale ovvero in altri strumenti urbanistici prende le mosse dalla sentenza con la quale la Corte Costituzionale riconobbe illegittima la disciplina recata dalla legge urbanistica (l. 17 agosto 1942 n. 1150), che prevedeva la possibilità di imporre alla proprietà privata, in sede di pianificazione, vincoli preordinati all' espropriazione, senza alcun limite temporale e senza indennizzo ( Corte Cost., 29 maggio 1968 n. 55). A seguito di tale decisione, il legislatore intervenne con la legge 19 novembre 1968 n. 1187, il cui art. 2 ha provveduto a fissare in cinque anni il periodo entro cui detti vincoli devono, a pena di decadenza, tradursi in piani esecutivi o, comunque, deve avviarsi in modo certo il procedimento espropriativo. Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. V, 3 gennaio 2001 n. 3; sez. IV, 17 aprile 2003 n. 2015 e 22 giugno 2004 n. 4426), costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio. La decadenza del vincolo non esclude che l’amministrazione, mediante il ricorso al procedimento per l’adozione delle varianti agli strumenti urbanistici, possa reiterare i vincoli preordinati all’espropriazione, fornendo congrua motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione (Cons. Stato, sez. IV, 24 settembre 1997 n. 1013 e 22 giugno 2004 n. 4397), così da escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti. Si è, in particolare, affermato quanto all'adeguatezza della motivazione, che, se in linea di principio può ritenersi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni, quando vi è una prima reiterazione, quando il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, è necessario che la motivazione dimostri che l'autorità amministrativa abbia provveduto ad una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, esponendo le ragioni (riguardanti il rispetto degli standard, le esigenze della spesa. specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali) che inducano ad escludere profili di eccesso di potere e ad ammetterne l'attuale sussistenza dell'interesse pubblico (Cons. Stato, sez. IV, 2 ottobre 2008 n. 4765). La Corte Costituzionale (sent. 20 maggio 1999 n. 179, indirizzo successivamente riconfermato con sent. 18 dicembre 2001 n. 411) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 l. n. 1150/1942 e 2, primo comma, della legge n. 1187/1968 "nella parte in cui consente alla "amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di indennizzo". Secondo la Corte, "la reiterazione in via amministrativa dei vincoli decaduti (preordinati all’espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo) . . . non sono fenomeni di per sé inammissibili dal punto di vista costituzionale", ma tale fenomeno assume aspetti patologici allorchè vi sia una indefinita reiterazione dei vincoli o una loro proroga sine die, o quando il limite temporale sia indeterminato. In presenza delle suddette situazioni patologiche, sorge obbligo di indennizzo che "opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia)". In altre parole, la permanenza del vincolo oltre i termini previsti, e senza alcun inizio serio dell’espropriazione, "non può essere dissociato . . . dalla previsione di un indennizzo". In definitiva, perché possa procedersi ad espropriazione per pubblica utilità di un suolo da destinare alla realizzazione di un’opera pubblica, occorre che lo stesso sia assoggettato ad un vincolo preordinato all’esproprio, che il vincolo stesso sia efficace (sussistendo l’obbligo del Comune di reintegrare la disciplina urbanistica, dopo la decadenza del vincolo: Cons. Stato, sez. IV, 13 ottobre 2010 n. 7493; 12 ottobre 2010 n. 7442; 14 febbraio 2005 n. 432), e che – una volta che si intenda procedere alla sua reiterazione - venga esplicitata la persistenza dell’interesse pubblico e l’obbligo di indennizzo.

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L’impresa può impugnare gli atti di una procedura di affidamento alla quale ha partecipato in qualità di mandante di ATI

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

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La legittimazione dell’impresa ad impugnare gli atti di una procedura di affidamento alla quale ha partecipato in qualità di mandante di ATI "discende dai comuni principi della nostra legislazione in tema di legittimazione processuale e di personalità giuridica, tenuto conto che pacificamente il fenomeno del raggruppamento di imprese non dà luogo a un’entità giuridica autonoma che escluda la soggettività delle singole imprese che lo compongono". Questa regola di diritto è stata espressa dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (sentenza n. 2155 del 15 aprile n. 2010), in relazione ad un’analoga eccezione formulata, in quel caso, nei confronti dell’impresa mandataria. La stessa regola viene quindi riaffermata nel presente giudizio, essendo palese per il Consiglio di Stato la sua applicabilità anche per la mandante.

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Appalti: e' solo l'aggiudicazione definitiva che segna il decisivo spartiacque tra la posizione dell’aggiudicataria e quella delle altre imprese concorrenti

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

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La Quinta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza in esame fa applicazione dei principi elaborati dall’Adunanza plenaria nella sentenza 31 luglio 2012, n. 31. Secondo l’organo di nomofilachia della giurisdizione amministrativa è infatti solo l’aggiudicazione definitiva che segna il decisivo spartiacque tra la posizione dell’aggiudicataria e quella delle altre imprese concorrenti, poiché "da un lato fa sorgere in capo all’aggiudicatario una aspettativa – della quale in questa sede non rileva la precisa qualificazione giuridica – alla stipulazione del contratto di appalto, che è ex lege subordinata all’esito positivo della verifica; nel contempo, il medesimo atto produce nei confronti degli altri partecipanti alla gara un effetto immediato, consistente nella privazione definitiva, salvo interventi in autotutela della stazione appaltante o altre vicende comunque non prevedibili né controllabili, del "bene della vita" rappresentato dall’aggiudicazione della gara". I rilievi dell’Adunanza plenaria si addicono alla presente fattispecie, nella quale successivamente all’aggiudicazione definitiva vi sono stati l’approvazione del progetto definitivo da parte dell’ATO 4 e la successiva autorizzazione alla stipula del contratto da parte dell’A.C.D.A. E’ vero che i citati atti costituiscono altrettante determinazioni autonome rispetto all’aggiudicazione. Ma è del pari vero che essi presuppongono necessariamente quest’ultimo atto. Ciò è confermato dal fatto che l’iter di approvazione del progetto definitivo e la successiva autorizzazione alla stipulazione del contratto hanno interessato esclusivamente quest’ultima impresa, giacché questa era risultata aggiudicataria nella procedura di gara ed aveva quindi titolo a partecipare a queste ulteriori fasi. Sotto questo fondamentale aspetto soggettivo non vi è alcun profilo di ulteriore lesività degli atti successivi nei confronti dell’odierna appellante. Infatti, la lesione dell’interesse pretensivo qui fatto valere discende dalla sola aggiudicazione definitiva, la quale, secondo quanto chiarito dall’Adunanza plenaria, priva in via altrettanto definitiva le altre imprese partecipanti alla gara del bene della vita a cui esse aspirano, vale a dire l’aggiudicazione del contratto posto a gara. I motivi di ricorso incidentale devono essere dichiarati inammissibili, poiché riproposti dalla controinteressata con memoria depositata anziché, come sarebbe stato suo onere, con appello incidentale. Come già affermato di recente da questa Sezione (sentenza n. 5160 del 24 ottobre 2013) a fronte della statuizione di improcedibilità emessa con riguardo ai predetti motivi dal TAR, l’ATI controinteressata avrebbe necessariamente dovuto ricorrere allo strumento dell’appello incidentale, onde consentire la cognizione degli stessi al giudice del gravame. Si è osservato nella citata pronuncia che "la statuizione di improcedibilità non è per nulla assimilabile ad un omesso esame o ad una dichiarazione di assorbimento, le quali sole legittimano ex art. 101, comma 2, cod. proc. amm. la riproposizione in appello dei motivi mediante memoria. La dichiarazione in questione, infatti, trae il proprio fondamento dal riscontro del sopravvenuto difetto di interesse alla pronuncia nel merito di una domanda (art. 35, comma 1, lett. c, cod. proc. amm.), dando luogo, dunque, ad una soccombenza su una questione pregiudiziale, ostativa all’esame nel merito. Si tratta più precisamente di una soccombenza virtuale, visto l’esito negativo dell’altrui impugnazione, ma che è destinata ad concretizzarsi una volta riproposta quest’ultima mediante appello principale, rendendo conseguentemente necessaria l’incrociata contro-impugnazione nelle suddette forme dell’appello incidentale, al fine di impedire la formazione del giudicato interno sulla questione negativamente risolta in primo grado.".

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Procedura di gara: il mancato superamento della soglia di idoneità tecnica minima risultante dal progetto elaborato dalla stazione appaltante legittima l’esclusione dell'impresa offerente dalla gara

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

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La giurisprudenza del Consiglio di Stato, alla quale viene data continuità con la sentenza in esame, afferma da tempo risalente che le difformità essenziali nell’offerta tecnica rispetto al progetto base, tali da rivelare l’inadeguatezza del progetto proposto dall’impresa offerente rispetto a quello posto a gara, legittima l’amministrazione ad escludere quest’ultima (tra le altre: sentenza 9 febbraio 2001, n. 578). In questo indirizzo si collocano pronunce di altre Sezioni ed in particolare, solo per ricordare le più recenti, vale la pena citare le pronunce della III Sezione 12 aprile 2012, n. 2082 e 16 marzo 2012 n. 1466, nonché della VI Sezione 21 gennaio 2013, n. 311. Più di recente, questa Sezione ha avuto modo di ritornare sulla questione (sentenza 15 luglio 2013, n. 3851), precisando che il mancato superamento della soglia di idoneità tecnica minima quale risultante dal progetto elaborato dalla stazione appaltante legittima l’esclusione – e non già la mera penalizzazione dell’offerta in punto valutazione e conseguente attribuzione del punteggio – essendosi di fronte ad un dissenso contrattuale impeditivo della formazione dell’accordo ex artt. 1321 e 1325, n. 1), cod. civ., necessario per la stipula del contratto.

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Espropriazione per pubblica utilità: il ritrasferimento agli originari proprietari dei beni che non sono serviti alla esecuzione dell’opera oggetto di procedura ablatoria e' possibile sia in presenza di una dichiarazione formale di inservibilità del bene espropriato sia a mezzo di acta concludentia

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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Con la sentenza in esame il Consiglio di Stato, dato preliminarmente atto della spettanza al giudice amministrativo a conoscere della domanda di retrocessione parziale (cfr Cass. Sez. Unite 24 giugno 2009 n. 14805), procede a verificare se sussistono o meno nella specie i presupposti di fatto e didiritto che giustificano il ritrasferimento in capo agli originari proprietari dei beni che non sono serviti alla esecuzione dell’opera oggetto di procedura ablatoria. Com’è noto, in tema di espropriazione di pubblica utilità, si versa in ipotesi di retrocessione parziale, in base all’istituto normativamente definito dagli artt. 60 e 61 della legge fondamentale sulle espropriazioni, la n.2359 del 1865 (ora dall’art.47 del DPR n.327 del 2001) quando uno o più fondi espropriati non hanno ricevuto ( in tutto o in parte ) la prevista destinazione. Detti fondi possono essere restituiti se la pubblica amministrazione ha manifestato la volontà di non utilizzarli per gli scopi cui l’espropriazione era finalizzata e ciò avviene generalmente all’esito di un procedimento che si conclude con una dichiarazione formale di inservibilità del bene espropriato (Cons. Stato Sez. IV 15/12/2011 n. 6619). Fermo restando che la dichiarazione di inservibilità dei fondi ha una efficacia costitutiva per far insorgere, in linea di massima, il diritto alla restituzione del bene già espropriato ma non utilizzato, ciò che rileva ai fini dell’applicabilità dell’istituto de quo è che la pubblica amministrazione abbia manifestato comunque la volontà di non utilizzare tali immobili, anche a mezzo di acta concludentia e non necessariamente con un atto formalmente dichiarativo della avvenuta inservibilità (Cass. Sezioni Unite 5/6/2008 n. 14826).

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Calcolo degli standard: il criterio dell’ "abitante equivalente" per valutare il rispetto del parametro tramite la previa determinazione del numero di abitanti destinati a fruire di tali standard

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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Osserva il Consiglio di Stato nella sentenza in esame come il tema del calcolo degli standard, dove la disciplina principale si rinviene ancora del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, si fondi su un rapporto tra dotazione minima, nelle sue diverse accezioni, e singolo abitante, insediato o da insediare. Su tale premesso il Collegio ha ritenuto corretta la scelta del Comune di valutare il rispetto del criterio tramite la previa determinazione del numero di abitanti destinati a fruire di tali standard, usando il criterio dell’ "abitante equivalente", che è in fondo un rapporto di relazione, ottenuto dividendo la superficie utile residenziale ammissibile nel comparto per un coefficiente di 25 e la superficie utile ammissibile non residenziale per un coefficiente di 30 (ossia il primo aumentato di cinque). Emerge invece che, nella relazione allegata alla proposta di variante, il criterio utilizzato sia stato quello più favorevole dell’ "abitante reale", ossia quello in base al numero di quelli che sono insediati o si andranno ad insediare nelle varie zone di PRG, complessivamente minore e quindi idoneo a fare surrettiziamente apparire rispettato il parametro che, invece e correttamente, il Comune ha ritenuto non osservato.

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Osserva il Consiglio di Stato nella sentenza in esame come il tema del calcolo degli standard, dove la disciplina principale si rinviene ancora del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, si fondi su un rapporto tra dotazione minima, nelle sue diverse accezioni, e singolo abitante, insediato o da insediare. S ... Continua a leggere

 

Urbanistica: rientra nella competenza esclusiva del Consiglio Comunale l'adozione dei piani territoriali ed urbanistici, sia generali che attuativi

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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La competenza sulla pianificazione urbanistica e' di esclusiva competenza del Consiglio comunale, anche quando è chiamato a deliberare su una proposta del competente dirigente e anche se questa è stata istruita tramite conferenza di servizi. Infatti, se tale modulo procedimentale ha sicuramente valenza ostativa nel caso in cui la conclusione non sia stata favorevole al proponente (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 19 ottobre 2007, n. 5471; id., 14 aprile 2006, n. 2170), non ha invece alcuna forza cogente e predecisionale rispetto alle statuizioni del Consiglio comunale. È solo a questi, infatti, che l'art. 42, comma 2, lett. b) del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 riconnette le attribuzioni in merito all’adozione di: "programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie". Deve quindi ribadirsi come, stante le competenza in ordine ai "piani territoriali ed urbanistici", sia la legge stessa ad attribuire al solo al Consiglio comunale l’adozione di tali strumenti, sia generali che attuativi (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 20 gennaio 2003 n. 300). Per accedere al testo della sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Appalti: solo in caso di aggiudicazione a prezzi unitario il mancato utilizzo dei moduli predisposti dalle stazioni appaltanti per la presentazione delle offerte costituisce causa di esclusione

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI

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L'art. 74, comma 3, del d.lgs. n. 163 del 2006 (Codice degli appalti) stabilisce che, salvo il caso in cui l'offerta del prezzo sia determinata mediante prezzi unitari, il mancato utilizzo dei moduli predisposti dalle stazioni appaltanti per la presentazione delle offerte non costituisce causa di esclusione. Pertanto il Consiglio di Stato nella sentenza in esame rilevato che nel caso di specie, in cui non si controverte di aggiudicazione a prezzi unitari, essendo il modulo predisposto dalla stazione appaltante finalizzato alla presentazione di offerte chiare e leggibili ai fini della loro valutazione (entro la quale le scorte sono state apprezzate), esso viene richiesto a titolo di collaborazione e non rappresenta condizione di ammissibilità dell’offerta, ragione per la quale non può normalmente dare luogo ad esclusione, salvo che il bando non disponga diversamente in modo espresso. Nella fattispecie tale evenienza non ricorre perché il bando nulla esplicitamente prescrive in proposito e, a fronte del richiamato disposto di cui innanzi, neppure è plausibilmente ipotizzabile che l’esclusione possa derivare dalla generale clausola del disciplinare di completezza della documentazione.

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Appalti: e' inammissibile la domanda di accesso ai documenti che costituiscono, con motivata e comprovata dichiarazione degli offerenti, segreti tecnici o commerciali

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI

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Nel giudizio in esame il Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile la domanda di accesso riproposta ai sensi degli artt. 25 della legge n. 241/1990 e 116 c.p.a, poiché l’art. 13 del d.lgs. n.163/ 2006, dichiara non ostensibili i documenti che costituiscano, con motivata e comprovata dichiarazione degli offerenti, segreti tecnici o commerciali. Per giunta, anche perché la ricorrente, con prospettazione in termini solo teorici e astratti a fronte di una situazione giuridica ostativa rinvenibile in capo alla società aggiudicataria dell’appalto per la tipologia stessa della fornitura in questione, ha tuttavia qui mancato di dimostrare a quale ragione la versione integrale della documentazione tecnica richiesta fosse ritenuta indispensabile e a quali fini. Insomma, la prevalenza accordata alla tutela della riservatezza, negando il richiesto accesso, risulta nel caso d specie quindi ragionevole, non potendo essere diffusi dati tecnici aventi chiara natura sensibile, costituenti segreti aziendali e dalla impresa titolare forniti alla stazione appaltante, nel convincimento, che essi non sarebbero stati divulgati ad alcun soggetto, specialmente se in posizione concorrenziale nei confronti dell’impresa medesima, con vanificazione del gap tecnologico e del vantaggio competitivo.

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Impugnazione di titoli abilitativi edilizi da parte del terzo: la conoscenza dell’atto lesivo ai fini del decorso del termine per impugnare deve essere personale e diretta, senza che possa essere decisivo il rapporto di coniugio

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di impugnazione di titoli abilitativi edilizi da parte del terzo, il momento da cui far decorrere il dies a quo ai fini del rispetto del termine decadenziale d’impugnazione di cui all’art.21 della legge n.1034/1971 è quello in cui si concretizza l’apprezzamento della reale consistenza e portata dell’intervento edilizio autorizzato, di solito coincidente con il completamento dei lavori (Cons. Stato Ad. Pl. 29 luglio 2011 n.15; Cons. Stato Sez. IV 29 maggio 2009 n. 3358; idem 10 dicembre 2010 n.8705). Al riguardo si è osservato che può esserci una conoscenza anticipata dell’esistenza delle violazioni urbanistico- edilizie da parte del terzo interessato, senonché tale circostanza non può essere dedotta in via presuntiva ma va adeguatamente dimostrata, sussistendo in capo a chi formula l’eccezione di tardività l’onere particolarmente rigoroso di fornire elementi di giudizio idonei ad evidenziare detta anticipata conoscenza. Nella specie tali condizioni derogatorie della regula iuris sancita in giurisprudenza non sussistono, non essendo stato fornito un principio di prova in ordine all’avvenuta conoscenza del permesso di costruire in parola da parte della sig.ra Cosi in epoca antecedente allo spatium temporis dei sessanta giorni messi a disposizione della parte interessata per proporre ricorso giurisdizionale. In particolare, nel caso concreto il Collegio ha rilevato che non può invocare parte appellante come indizio di anticipata conoscenza l’esposto con cui il marito dell’attuale appellata e originaria ricorrente inoltrava alla Polizia Municipale di Gallipoli istanza di sopralluogo all’Hotel in ragione dell’"avvenuta chiusura dell’area di sua appartenenza" . A prescindere dal fatto che la conoscenza dell’atto lesivo deve essere personale e diretta, senza che possa essere decisiva al riguardo il rapporto di coniugio (Cons. Stato Sez. IV 4/12/200 n.6486) , la nota estremamente sintetica fatta pervenire al Comune non vale certo a mettere in evidenza l’avvenuta piena conoscenza del contenuto dell’atto che ha autorizzato l’ampliamento in questione, in ordine alla natura, dimensioni, forma e consistenza di un realizzando manufatto a ridosso del proprio confine. Conclude, quindi, il Collegio rilevando che non si può da ciò inferire la piena conoscenza dell’atto ritenuto lesivo sì che neppure si può validamente sostenere la tardività della connessa impugnativa.

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Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di impugnazione di titoli abilitativi edilizi da parte del terzo, il momento da cui far decorrere il dies a quo ai fini del rispetto del termine decadenziale d’impugnazione di cui all’art.21 della legge n.1034/1971 è quello in cui si con ... Continua a leggere

 

Impianti di telefonia mobile: i limiti di altezza dettati per le costruzioni non si applicano alle stazioni radio base, essendo stati posti per l’edificazione di strutture e manufatti aventi un rilievo urbanistico ed edilizio diverso da quello degli impianti tecnologici

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

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La potestà assegnata ai Comuni dall'art. 8, co. 6, della legge quadro 36/2001, deve tradursi nell'introduzione, sotto il profilo urbanistico, di regole a tutela di zone e beni di particolare pregio ambientale, paesaggistico o storico-artistico (ovvero, per ciò che riguarda la minimizzazione dell'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici, nell'individuazione di siti che per destinazione d'uso e qualità degli utenti possano essere considerati sensibili alle immissioni radioelettriche), ma non può trasformarsi in limitazioni generalizzate alla localizzazione degli impianti di telefonia mobile per intere ed estese porzioni del territorio comunale, in assenza di una plausibile ragione giustificativa (cfr. Cons. Stato, III, 4 aprile 2013, n. 1873). Nè il Comune può adottare, attraverso il formale utilizzo degli strumenti di natura edilizio-urbanistica, misure che costituiscono una deroga ai limiti di esposizione fissati dallo Stato quali il generalizzato divieto di installazione delle stazioni radiobase per telefonia cellulare in tutte le zone territoriali omogenee a destinazione residenziale, ovvero adottare misure che, pur essendo tipicamente urbanistiche (distanze altezze, ecc.), non siano funzionali al governo del territorio quanto piuttosto alla tutela della salute dai rischi dell’elettromagnetismo (Sez. III,n.1873/2013 cit.). Anche in ordine ai limiti di altezza la giurisprudenza ha chiarito che i limiti dettati per le costruzioni non si applicano agli impianti tecnologici di cui qui si tratta, essendo stati posti per l’edificazione di strutture e manufatti aventi un rilievo urbanistico ed edilizio diverso da quello di detti impianti, i quali non sviluppano normalmente volumetria o cubatura, se non limitatamente ai basamenti e alle cabine accessorie e non determinano, perciò, ingombro visivo paragonabile a quello delle costruzioni né simile impatto sul territorio, dovendosi anche considerare che spesso le stazioni radio base, per esigenze di irradiamento del segnale, si sviluppano normalmente in altezza, tramite strutture metalliche, pali o tralicci, talora collocati su strutture preesistenti, su lastrici solari, su tetti, a ridosso di pali (Cons. Stato, VI 17 dicembre 2009 n.8214). Per approfondire cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

 
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La potestà assegnata ai Comuni dall'art. 8, co. 6, della legge quadro 36/2001, deve tradursi nell'introduzione, sotto il profilo urbanistico, di regole a tutela di zone e beni di particolare pregio ambientale, paesaggistico o storico-artistico (ovvero, per ciò che riguarda la minimizzazione dell'es ... Continua a leggere

 

Potere di soccorso: non può essere inibito alla stazione appaltante di richiedere alla concorrente di provare, anche con integrazioni documentali, che la propria domanda fosse sin dal principio conforme a quanto richiesto dalla lex specialis

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

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La Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza in esame, relativamente ai limiti del potere di soccorso, ha rinviato alla Adunanza Plenaria n.23 che a sua volta ha richiamato la A.P. n.21/2012 secondo la quale le stazioni appaltanti, in assenza di specifiche previsioni nella lex specialis,sono tenute ad esercitare il potere di soccorso nei confronti dei concorrenti ammettendoli a fornire le dichiarazioni mancanti sicché i concorrenti potranno essere esclusi solo se difetti il requisito sostanziale nel senso che vi sia la prova che gli amministratori per i quali è stata omessa la dichiarazione hanno pregiudizi penali. Viene richiamato al riguardo il costante principio giurisprudenziale secondo cui, se è vero che il potere di soccorso istruttorio non può ledere la par condicio, così da consentire la presentazione, anche oltre il termine previsto dal bando, di documenti o dichiarazioni che avrebbero dovuto essere presentati entro detto termine a pena di esclusione, non può essere inibito alla stazione appaltante di richiedere alla concorrente di provare, anche con integrazioni documentali, che la propria domanda fosse, sin dal principio e nella realtà effettuale, conforme a quanto richiesto dalla lex specialis.

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Informativa antimafia: il mancato rispetto dei termini previsti per l’emissione delle informative prefettizie non si riverbera in illegittimità delle informative stesse e dei conseguenti provvedimenti degli enti richiedenti

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III

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Nel nostro ordinamento la informativa antimafia c.d. atipica (o supplementare), elaborata dalla prassi, rinviene il suo fondamento normativo nel combinato disposto dell'art. 10, co. 9, del d.P.R. 252/1998 e dell'art. 1septies, del d.l. 629/1982, convertito in legge 726/1982, nonché nell'art. 10, co. 7, lett. c), del d.P.R. 252/1998. La informativa c.d. atipica, a differenza di quella c.d. tipica, non ha carattere direttamente interdittivo, ma consente alla stazione appaltante l'attivazione di una valutazione discrezionale in ordine all'avvio o al prosieguo dei rapporti contrattuali in relazione all'idoneità morale del contraente sicché la sua efficacia interdittiva può scaturire da una valutazione autonoma e discrezionale dell'amministrazione destinataria. (cfr. Cons. Stato, III, 14 settembre 2011, n. 5130; VI, 28 aprile 2010, n. 2441; I, 25 febbraio 2012, n. 4774).....In relazione ai caratteri tipicizzati della interdittiva prefettizia e alla possibilità della stessa, più volte sottolineata dalla giurisprudenza, di desumere elementi di controindicazione per contrarre con l’amministrazione, da qualunque elemento indiziario all’uopo rilevante, il Consiglio di Stato rileva che la misura interdittiva non deve necessariamente essere collegata ad accertamenti in sede penale sull'esistenza della contiguità con organizzazioni malavitose e del condizionamento in atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da qualsiasi altra circostanza sintomatica ed indiziaria, da cui emergano gli elementi di pericolo di dette evenienze (ex plurimis Cons. Stato, VI, 21 luglio 2011 n.444): nel caso in esame l’elemento di controindicazione derivava proprio dalla natura del reato in sé considerato, in epoca non risalente nel tempo e dalla condanna in primo grado subita e non dalle conseguenze che successive disposizioni legislative facevano derivare dalla condanna......In ogni caso, il mancato rispetto dei termini previsti per l’emissione delle informative prefettizie non si riverbera in illegittimità delle informative stesse e dei conseguenti provvedimenti degli enti richiedenti, attesa la funzione meramente ordinatoria di tali termini la cui inosservanza non comporta alcuna decadenza dai relativi poteri (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 24 novembre 2010 n. 8224). Per accedere al testo dlla sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Concessione in sanatoria: senza la denuncia al catasto non inizia a decorrere il termine per il silenzio-assenso di cui all'art. 39, comma 4, della legge n. 724/1994 sulla domanda di condono

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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Per consolidata giurisprudenza, richiamata nella sentenza in esame, presupposto perché possa utilmente decorrere il termine per il silenzio-assenso di cui all'art. 39, comma 4, della legge nr. 724 del 1994 è che la domanda di condono sia corredata dalla documentazione richiesta ai fini della sanatoria, ivi compresa la denuncia al catasto (in tal senso, cfr. Cons. Stato, sez. V, 22 gennaio 2003, nr. 250). Per approfondire cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

 
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Sanatoria di abusi edilizi su aree soggette a vincolo: e' esclusa la sanatoria ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d), dl. n. 269 del 2003 se il vincolo e' stato istituto prima dell'esecuzione delle opere abusive e/o le opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo non sono conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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"L'art. 32, comma 27, lett. d), l. n. 269 del 2003 è previsione normativa che esclude dalla sanatoria le opere abusive realizzate su aree caratterizzate da determinate tipologie di vincoli (in particolare, quelli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologicie della falde acquifere, dei beni ambientali e paesaggistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali) ", subordinando peraltro l'esclusione a due condizioni costituite: a) dal fatto che il vincolo sia stato istituto prima dell'esecuzione delle opere abusive; b) dal fatto che le opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo risultino non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici" (Cons. di Stato, sez.IV, n. 3174/2010). Il Consiglio di Sto ha anche chiarito che le due condizioni sono previste e possono operare disgiuntamente, determinando la sanatoria dell’abuso in zona soggetta a vincolo relativo, quale quello paesaggistico; ma nel caso in esame il Collegio osserva che il Comune (nel provvedimento impugnato) ha opposto la carenza di entrambe le condizioni e che entrambe non si ravvisano, la prima perché è incontestata la preesistenza del vincolo, la seconda perché non sono emersi elementi sulla conformità delle opere alle norme urbanistiche. In sintonia, contro la sanabilità delle opere si registrano inoltre i seguenti orientamenti giurisprudenziali: - "l’art. 32, comma 27, lett. D) del D.L. 269/2003 (convertito in L. 326/2003), il quale, comunque, esclude dalla sanatoria le opere realizzate su immobili soggetti a vincoli istituiti anche prima dell'esecuzione delle opere ma che non siano conformi alle norme urbanistiche ed alle disposizioni prescritte dagli strumenti urbanistici" (Cons. di Stato, sez. IV, n. 4396/2007); - "l'art. 32 L. n. 47/1985, quale risulta dalle modificazioni contenute nell'art. 32 comma 43 D.L. n. 269/2003, per le opere costruite su aree sottoposte a vincolo, al comma 3 prevede che, ove non si verifichino le condizioni di cui al comma 2 si applicano le disposizioni di cui all'art. 33 della stessa legge, prevedendo, tale ultima disposizione, fra le opere non suscettibili di sanatoria, quelle in contrasto con i vincoli imposti da leggi statali e regionali, nonché dagli strumenti urbanistici a tutela di interessi storici, artistici, architettonici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici, qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse" (Cons. di Stato, Sez. IV, sent. n. 4020/2009). Aggiunge poi il collegio che l’art.2, comma 1, della legge n.28/2003 (come modificato dell’art. 4 della legge n. 19/2004) nell’attuare la legge statale n. 326/2003, permette la sanatoria di tutti gli abusi ma con riferimento all’osservanza del requisito generale dell’art. 31 comma 2 della legge n.47/1985, vale a dire della ultimazione delle opere nel termine di legge, che però non è "ex se" sufficiente a configurare la possibilità giuridica del condono, non consentendo quindi il superamento dei rilevati limiti imposti dal comma 27 dell’art. 32 della legge n. 326/2003. Al riguardo, pertanto, si palesa altresì inconferente il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n.196/2004 che ha aperto alla legislazione regionale la possibilità di introdurre il condono con riferimento a tutte le tipologie d’abuso. Ciò infatti non elide in alcun modo la portata dei limiti imposti per gli abusi nelle zone vincolate, sicché in tal senso si rivela corretta anche l’affermazione del TAR per cui la legislazione regionale non si è affatto discostata dalle previsioni nazionali. - Né la sanatoria è conseguibile, in applicazione del meccanismo di cui all’art. 32 della legge n. 47/1985 che preclude la sanatoria di opere realizzate su aree sottoposte vincoli di carattere paesaggistico solo in caso di parere negativo dell’autorità preposta alla tutela del vincolo stesso. La legge n. 326/2003, infatti, pur collocandosi sull’impianto generale della legge n. 47, norma (col cennato art. 27) in maniera più restrittiva le fattispecie di cui si tratta, poiché con riguardo ai vincoli ivi indicati (tra cui quelli a protezione dei beni paesistici) preclude la sanatoria sulla base della anteriorità del vincolo senza la previsione procedimentale di alcun parere dell’autorità ad esso preposta, con ciò collocando l’abuso nella categoria delle opere non suscettibili di sanatoria (ex art. 33 l. n.47/85).

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"L'art. 32, comma 27, lett. d), l. n. 269 del 2003 è previsione normativa che esclude dalla sanatoria le opere abusive realizzate su aree caratterizzate da determinate tipologie di vincoli (in particolare, quelli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici ... Continua a leggere

 

Abusivismo edilizio: la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, successivamente all'impugnazione dell'ordine di demolizione determina l'improcedibilità dell'impugnazione per sopravvenuta carenza di interesse

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Stabilisce l’art. 36 del dPR n. 380/2001 che " In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all'articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda. (66) Il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall'articolo 16. Nell'ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l'oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso. Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.". L’incidenza processuale dell’avvenuta presentazione della domanda suddetta è senza dubbio quella esattamente colta dal Tar. Invero sia la giurisprudenza di primo grado (ex multis, T.A.R. Piemonte Torino Sez. II, 18-01-2013, n. 48) che quella di questo Consiglio di Stato (tra le tante Cons. Stato Sez. IV, 12-05-2010, n. 2844) affermano, condivisibilmente, che "in tema di abusivismo edilizio la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, successivamente all'impugnazione dell'ordine di demolizione produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse" . La ratio di tale portata effettuale è ovvia: il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall'istanza di sanatoria determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'originario ricorso. Nel giudizio in esame ad avviso di parte appellante tuttavia la pronuncia del Tar sarebbe errata in quanto se è vero che la domanda di accertamento di conformità renderebbe improcedibile il gravame proposto avverso l’ordinanza di demolizione, essa, tuttavia, non produrrebbe analoghi effetti laddove fossero stati impugnati (come nel caso di specie) gli atti reiettivi di precedenti istanze in conseguenza delle quali fosse stato eventualmente emesso il provvedimento sanzionatorio. La censura è stata ritenuta dal Consiglio di Stato del tutto priva di fondamento. Essa – muovendo dal dato statistico riposante nella circostanza per cui nella stragrande maggioranza dei casi la nuova domanda di accertamento di conformità volta ad ottenere la concessione in sanatoria sopravviene alla già proposta impugnazione di un pregresso provvedimento sanzionatorio- inverte completamente la sequenza accertativa degli illeciti edilizi e fraintende la ratio delle affermazioni giurisprudenziali in punto di declaratoria di improcedibilità della pregressa impugnazione. Evidenzia il Collegio che l’ordinanza impositiva dell’obbligo di demolizione costituisce l’atto conclusivo della complessa sequenza procedimentale accertativa della avvenuta commissione di un illecito edilizio (ex multis: TA.R. Puglia Bari Sez. III, 26-02-2013, n. 275 in punto di qualificazione quale "atto vincolato, dell' ordinanza medesima, che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; e che non può ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva"). La caducazione di questa (non per vizi propri ed a quest’ultima specificamente riferibili ma per insussistenza delle condizioni per pronunciare definitivamente la abusività dell’opera) implica effetto demolitorio anche sugli atti ad essa sottesi. L’avvenuta presentazione di una (nuova) domanda di condono implica l’ improcedibilità del pregresso gravame perché sollecita/impone all’Amministrazione una nuova complessa pronuncia sull’intero assetto di interessi determinatosi: ciò costituisce nuova manifestazione volitiva/determinativa integralmente sostitutiva della precedente. Ciò implica quindi la improcedibilità del mezzo in passato proposto avverso l’atto sanzionatorio, ma anche di quello volto ad aggredire la manifestazione provvedimentale sottesa a monte dell’atto sanzionatorio. Argomentare diversamente peraltro, implicherebbe una conseguenza paradossale: posto che il numero delle domande di sanatoria presentabili dall’asserito contravventore è in via teorica illimitato, si obbligherebbe volta per volta l’Amministrazione a pronunciarsi ripetutamente sulla medesima fattispecie e rimarrebbe pendente un contenzioso riferibile agli atti di diniego in passato via via emanati pur a fronte di una nuova manifestazione provvedimentale (seppur facente riferimento alla medesima emergenza fattuale). Il che certamente si pone in conflitto con la logica, prima che con i principi processuali amministrativi che costituiscono ormai jus receptum secondo i quali "l'intervenuta emanazione, da parte della P.A., di un provvedimento idoneo a ridefinire l'assetto degli interessi in gioco e tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza, sebbene il nuovo atto risulti eventualmente privo di effetto satisfattivo per il ricorrente."(ex multis, si veda T.A.R. Lazio Latina Sez. I, 22-05-2013, n. 478, Cons. Stato Sez. IV, 21-02-2013, n. 1070). Essa certamente non pregiudica sul piano processuale il richiedente, che può, ove lo ritenga, riproporre tutti gli originari motivi di censura proposti avverso atti precedenti alla presentazione dell’istanza, avverso il sopravvenuto diniego (il che non è però avvenuto nel caso di specie). Ma la eventualità che l’atto denegatorio superveniens non venga gravato, ovvero, che venga gravato proponendo soltanto alcune censure, non incide sulla portata effettuale estintiva del processo pendente proposto avverso gli atti originariamente gravati.

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Stabilisce l’art. 36 del dPR n. 380/2001 che " In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all'articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cu ... Continua a leggere

 

Risarcimento da mancato affidamento di gare pubbliche di appalto: il danno conseguente al lucro cessante per mancato profitto che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto, non deve essere calcolato utilizzando il criterio forfettario di una percentuale del prezzo a base d'asta, ma sulla base dell'utile che effettivamente avrebbe conseguito ove fosse risultata aggiudicataria

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In materia di risarcimento da (mancato) affidamento di gare pubbliche di appalto non è necessario provare la colpa dell'Amministrazione aggiudicatrice come ulteriore presupposto del risarcimento da adozione di provvedimento illegittimo, poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività della tutela previsto dalla normativa comunitaria a condizione che la possibilità di riconoscere detto risarcimento non sia subordinata alla constatazione dell'esistenza di un comportamento "colpevole", secondo quanto desumibile dai principi di cui alla giurisprudenza comunitaria ascrivibile alla Corte CE, Sez. III, 30 settembre 2010, C-314/2009 (per la quale, in tema di appalti pubblici, la direttiva Cons. C.E.E. 21 dicembre 1989 n. 665, modificata dalla direttiva Cons. C.E.E. 18 giugno 1992 n. 50, osta ad una normativa nazionale che subordini il diritto ad ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina di settore da parte di un'Amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l'applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo alla P.A. stessa e sull'impossibilità per quest'ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali, e dunque, in difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata). Il Collegio, stante la sussistenza dell'elemento soggettivo, è quindi chiamato a pronunciarsi sulla domanda di risarcimento in forma specifica e/o per equivalente e ritiene di potersi pronunciare sulla sorte del contratto applicando la disciplina introdotta dall'art. 122 del c.p.a., anche con riferimento allo stato di esecuzione del contratto, alla possibilità per il ricorrente di conseguire l'aggiudicazione e subentrare nel contratto, nonché agli interessi di tutte le parti. Nel caso di specie, essendo la ricorrente seconda classificata, ed essendo stata dimostrata la non anomalia della sua offerta, sussiste la certezza che essa avrebbe avuto titolo a conseguire l'aggiudicazione e il contratto in luogo della originaria aggiudicataria, il che di per sé implica la ricorrenza della possibilità di disporre il risarcimento in forma specifica. E’ ben vero che, -come prima si è osservato - si tratta di contratto ad avanzato stato di esecuzione: tuttavia non si ravvisano (né sono stati prospettati) elementi dai quali possa dedursi che sarebbe comunque conforme all'interesse della stazione appaltante, ed all'interesse generale a garantire la continuità del servizio in corso: ciò nel convincimento del Collegio per cui la prima forma di restaurazione del danno, ove possibile, sia quella per reipersecutoria ed in forma specifica e che soltanto nei casi di conclamata impossibilità/non rispondenza all’interesse pubblico (per la complessità dell’appalto, per il prossimo esaurimento della durata, etc) si debba accedere alla "minor" tutela risarcitoria per equivalente Nel caso di specie quindi ricorrono i presupposti per la declaratoria di inefficacia del contratto stipulato dall’Amministrazione con la controinteressata a far data dalla pubblicazione, o notificazione se anteriore, della presente decisione ex art. 122 del cpa ("Fuori dei casi indicati dall’ articolo 121, comma 1, e dall’ articolo 123, comma 3, il giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva stabilisce se dichiarare inefficace il contratto, fissandone la decorrenza, tenendo conto, in particolare, degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto, nei casi in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovare la gara e la domanda di subentrare sia stata proposta.") e per disporre, dalla stessa data o comunque da quella immediatamente successiva determinata dall’Amministrazione in relazione alle esigenze esecutive del servizio il subentro della appellante Ladisa (seconda classificata che, quindi, si sarebbe resa certamente aggiudicataria dell’appalto) nel contratto medesimo. Quanto ai danni medio tempore prodottisi (danni risarcibili per equivalente come peraltro specificato da parte appellante alla pag. 9 della memoria in ultimo depositata), nel dettare i criteri cui dovrà attenersi l’Amministrazione per liquidarli deve osservarsi quanto segue( con la logica premessa che il periodo da prendere in esame sarà soltanto quello durante il quale la subentrante Ladisa non ha potuto eseguire il servizio). La violazione delle regole che presiedono alla corretta conduzione delle procedure ad evidenza pubblica viene ascritta allo schema astratto dell'illecito aquiliano, da valersi quale conclusione più plausibile e maggiormente coerente con le pregnanti esigenze di tutela postulate dall'ordinamento comunitario in tema di competizioni concorrenziali per l'accesso agli appalti pubblici. Si deve conseguentemente ritenere risarcibile anche l'interesse positivo e, cioè, nella voce relativa al lucro cessante, la perdita del guadagno (o della sua occasione) connesso all'esecuzione del contratto (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27 ottobre 2003, n. 6666). L'accesso a quest'ultima opzione, condivisa dal Collegio, implica la necessità di provvedere alla determinazione di criteri valutativi astratti e presuntivi della misura del pregiudizio risarcibile, nella configurazione sopra tratteggiata. È innanzi tutto conclusione giurisprudenziale condivisibile quella secondo cui nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante, inteso come mancato profitto che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto, non deve essere calcolato utilizzando il criterio forfettario di una percentuale del prezzo a base d'asta, ma sulla base dell'utile che effettivamente avrebbe conseguito ove fosse risultata aggiudicataria. La misura del 10% invocata, infatti, non è più considerata come parametro automatico dalla giurisprudenza in applicazione analogica del criterio del 10% del prezzo a base d'asta ai sensi dell'art. 345 della L. n. 2248 del 1865, All. F, (Consiglio di Stato, Sez. V, 20 aprile 12, n. 2317). Ciò sia perché tale criterio di liquidazione si richiama a disposizione in tema di lavori pubblici che riguarda un istituto specifico, quale l'indennizzo dell'appaltatore nel caso di recesso dell'Amministrazione committente, sia perché, quando impiegato al mero fine risarcitorio residuale in una logica equitativa, può condurre all'abnorme risultato che il risarcimento dei danni finisca per essere, per l'imprenditore, più favorevole dell'impiego del capitale (il che comporterebbe la mancanza di interesse del ricorrente a provare in modo puntuale il danno subìto quanto al lucro cessante, perché presumibilmente otterrebbe meno di quanto la liquidazione forfettaria gli consentirebbe). Il richiamato criterio del 10% non può quindi essere oggetto di applicazione automatica ma è sempre necessaria la prova rigorosa, a carico dell'impresa, della percentuale di utile effettivo che essa avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria, anche ai sensi dell'art. 124 del c.p.a., che prevede, in assenza di dichiarazione di inefficacia del contratto, il risarcimento del danno per equivalente subìto, a condizione, tuttavia, che lo stesso sia stato "provato" (Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2317/12 cit.). Occorre, inoltre, distinguere la fattispecie in cui il ricorrente riesce a dimostrare che, in mancanza dell'adozione del provvedimento illegittimo, avrebbe vinto la gara (ad esempio perché, se non fosse stato indebitamente escluso, sarebbe stata selezionata la sua offerta) dai casi in cui non è possibile acquisire alcuna certezza su quale sarebbe stato l'esito della procedura in mancanza della violazione riscontrata. La dimostrazione della spettanza dell'appalto all'impresa danneggiata risulta ovviamente configurabile nei soli casi in cui il criterio di aggiudicazione si fondi su parametri vincolati e matematici (come, ad esempio, nel caso del massimo ribasso in un pubblico incanto in cui l'impresa vincitrice avrebbe dovuto essere esclusa), mentre si rivela impossibile là dove la selezione del contraente venga operata sulla base di un apprezzamento tecnico-discrezionale dell'offerta (come nel caso dell'offerta economicamente più vantaggiosa). Nella prima ipotesi spetta, evidentemente, all'impresa danneggiata un risarcimento pari ad una percentuale dell'utile che effettivamente avrebbe conseguito ove fosse risultata aggiudicataria, ferma restando la possibilità di conseguire una somma superiore, in presenza della dimostrazione che il margine di utile sarebbe stato maggiore di quello presunto. Viceversa, quando il ricorrente allega solo la perdita di una "chance" a sostegno della pretesa risarcitoria (e cioè quando non riesce a provare che l'aggiudicazione dell'appalto spettava proprio a lui, secondo le regole di gara), la somma commisurata all'utile d'impresa deve essere proporzionalmente ridotta in ragione delle concrete possibilità di vittoria risultanti dagli atti della procedura. Nel caso di specie, non ha luogo a pronunciarsi su tale evenienza in quanto, come prima chiarito risulta provato che l’appellante si sarebbe aggiudicata la gara. Il quantum risarcitorio deve tenere conto di detta circostanza. Esclusa per ovvie ragioni la sussistenza del richiesto danno curriculare in quanto con la presente decisione è stato disposto il subentro, il lucro cessante per la mancata esecuzione dell’appalto dovrà essere corrisposto all‘appellante, ed esso va quantificato non liquidando ma soltanto muovendo da una percentuale del 10% dell’utile che questa avrebbe conseguito (decurtato, ovviamente, in misura proporzionale alla durata del servizio in via diretta assicurato dal medesimo). Per costante giurisprudenza infatti, come si è prima fatto cenno (ex aliis Cons. Stato Sez. V, 21-06-2013, n. 3397) "nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante, inteso come mancato profitto che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell' appalto , non deve essere calcolato utilizzando il criterio forfettario di una percentuale del prezzo a base d'asta, ma sulla base dell' utile che effettivamente avrebbe conseguito ove fosse risultata aggiudicataria.". La giurisprudenza dominante considera superata l'applicazione automatica presuntiva del criterio del 10%, che contrasta con il principio generale secondo cui il danno (emergente e lucro cessante) deve essere allegato e provato. Il Consiglio di Stato, di recente, ha affermato che, per la quantificazione del danno subito da chi sia stato illegittimamente pretermesso nell'aggiudicazione di una gara pubblica, è necessario che l'impresa fornisca la prova rigorosa della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, con riferimento all'offerta economica presentata al seggio di gara. Tale orientamento è stato poi confermato, sul piano legislativo, dall'espressa previsione contenuta nell'art. 124 del codice del processo amministrativo (d. Lgs. n. 104 del 2010), secondo il quale, se il giudice non dichiara l'inefficacia del contratto, dispone il risarcimento del danno per equivalente subito, a condizione tuttavia che lo stesso sia "provato" (Cons. Stato Sez. III, 22-02-2012, n. 968; Cons. Stato Sez. III, 12-05-2011, n. 2850). In effetti, il criterio del 10%, pur evocato come criterio residuale in una logica equitativa, conduce di regola al risultato che il risarcimento dei danni è per l'imprenditore ben più favorevole dell'impiego del capitale. Giova considerare, infatti, che a seguito del risarcimento, il danneggiato potrebbe trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovata in assenza dell'illecito, per cui va detratto dall'importo dovuto a titolo risarcitorio quanto da lui percepito grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l'appalto in contestazione. Come precisato dal Consiglio di Stato l'onere di provare (l'assenza del) l'aliunde perceptum grava non sull'Amministrazione, ma sull'impresa (Cons. Stato sez. VI 18 marzo 2011 n. 1681). Tale ripartizione dell'onere probatorio muove dalla presunzione, a sua volta fondata sull'id quod plerumque accidit, secondo cui l'imprenditore (specie se in forma societaria) -in quanto soggetto che esercita professionalmente un'attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili - normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili. Il Collegio, quindi, nel caso di specie in assenza di prova dell'utile effettivo, nonché, in assenza di prova contraria rispetto alla presunzione di aliunde perceptum, in linea con parte della giurisprudenza ( T.A.R. Lazio- Roma sez. III 30 giugno 2011 n. 5767; TA.R. Catania Sicilia sez. III 03 marzo 2011), ritiene equo imporre all’Amministrazione di determinare l'importo del risarcimento dovuto in suo favore nella misura forfettaria del 5% dell'offerta economica effettiva o, ove inferiore, nella misura corrispondente all’utile indicato dall’impresa nell’offerta.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

 
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In materia di risarcimento da (mancato) affidamento di gare pubbliche di appalto non è necessario provare la colpa dell'Amministrazione aggiudicatrice come ulteriore presupposto del risarcimento da adozione di provvedimento illegittimo, poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effett ... Continua a leggere

 

Appalti: in caso di annullamento dell'aggiudicazione spetta al giudice decidere se dichiarare o meno l'inefficacia del contratto nel frattempo stipulato

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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Per costante insegnamento giurisprudenziale (Cons. Stato Sez. III, 25-06-2013, n. 3437) "in caso di annullamento giudiziale dell'aggiudicazione di una pubblica gara, spetta al Giudice Amministrativo il potere di decidere discrezionalmente, anche nei casi di violazioni gravi, se mantenere o no l'efficacia del contratto nel frattempo stipulato. L' inefficacia del contratto non è quindi la conseguenza automatica dell'annullamento dell'aggiudicazione che determina solo il sorgere del potere in capo al giudice di valutare se il contratto debba continuare (o non) a produrre effetti. In conseguenza la privazione degli effetti del contratto, per effetto dell'annullamento dell'aggiudicazione, deve formare oggetto di una espressa pronuncia giurisdizionale".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

 
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Per costante insegnamento giurisprudenziale (Cons. Stato Sez. III, 25-06-2013, n. 3437) "in caso di annullamento giudiziale dell'aggiudicazione di una pubblica gara, spetta al Giudice Amministrativo il potere di decidere discrezionalmente, anche nei casi di violazioni gravi, se mantenere o no l'eff ... Continua a leggere

 
 
 
 
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