News 5 Agosto 2014 - Area Contabile


NORMATIVA

TASI: i chiarimenti del Dipartimento delle Finanze in materia di applicazione della maggiorazione dello 0,8 per mille alle aliquote

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In considerazione dei numerosi quesiti inoltrati in ordine all'applicazione del tributo per i servizi indivisibili (TASI), con particolare riferimento alla maggiorazione dello 0,8 per mille prevista dall'art. 1, comma 677, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Legge di stabilità per l'anno 2014), aseguito delle modifiche apportate dalla D. L. 6 marzo 2014, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 maggio 2014, n. 68, il Dipartimento delle Finanze ha pubblicato la circolare n. 2/DF del 29 luglio 2014 con la quale ha in primo luogo ricordato che l'art. 1, comma 639, della legge n. 147 del 2013 ha istituito l'imposta unica comunale (IUC) che si basa su due presupposti impositivi, uno costituito dal possesso di immobili e collegato alla loro natura e valore e l'altro collegato all'erogazione e alla fruizione di servizi comunali. La IUC si compone dell'imposta municipale propria (IMU), di natura patrimoniale, dovuta dal possessore di immobili, escluse le abitazioni principali, e di una componente riferita ai servizi, che si articola nella TASI, a carico sia del possessore che dell'utilizzatore dell'immobile, e nella tassa sui rifiuti (TARI), destinata a finanziare i costi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, a carico dell'utilizzatore. Il comma 677 dell'art. 1 della legge di stabilità per l'anno 2014 prevede che il comune può determinare l'aliquota della TASI rispettando in ogni caso il vincolo in base al quale la somma delle aliquote della TASI e dell'IMU per ciascuna tipologia di immobile non sia superiore all'aliquota massima consentita dalla legge statale per l'IMU al 31 dicembre 2013, fissata al 10,6 per mille e ad altre minori aliquote, in relazione alle diverse tipologie di immobile. Per il 2014, l'aliquota massima della TASI non può eccedere il 2,5 per mille. L'art. 1, comma 1, lett. a), del D. L. n. 16 del 2014, ha aggiunto a detto comma, al fine di assicurare un maggior spazio finanziario, un'ulteriore disposizione la quale stabilisce che, per lo stesso anno 2014, nella determinazione delle aliquote TASI possono essere superati i limiti stabiliti nel primo e nel secondo periodo, per un ammontare complessivamente non superiore allo 0,8 per mille, a condizione che siano finanziate, relativamente alle abitazioni principali e alle unità immobiliari ad esse equiparate di cui all'art. 13, comma 2, del D. L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, detrazioni d'imposta o altre misure, tali da generare effetti sul carico di imposta TASI equivalenti o inferiori a quelli determinatisi con riferimento all'IMU relativamente alla stessa tipologia di immobili, anche tenendo conto di quanto previsto dallo stesso art. 13 del citato D. L. n. 201 del 2011. E' opportuno ribadire che i limiti in questione consistono: 1. nella somma delle aliquote della TASI e dell'IMU per ciascuna tipologia di immobile (d'ora in avanti: "primo limite"), che non può superare l'aliquota massima consentita dalla legge statale per l'IMU al 31 dicembre 2013, fissata al 10,6 per mille e ad altre minori aliquote, in relazione alle diverse tipologie di immobile. Le altre minori aliquote devono essere riferite al 6 per mille fissato per l'abitazione principale - che è stata esclusa dall'IMU solo a partire dal 2014, ad eccezione delle abitazioni principali classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9 - nonché al 2 per mille relativo ai fabbricati rurali ad uso strumentale. Con riferimento a tali fabbricati, si deve, però, precisare che il limite in questione è in realtà pari all'1 per mille, poiché detti immobili, da un lato sono esclusi dall'IMU, a norma del comma 708 e dall'altro sono assoggettati ad un'aliquota TASI che, ai sensi del comma 678, non può comunque superare l'1 per mille. A questo proposito, si deve aggiungere che la formulazione di quest'ultima norma, la quale prevede che l'aliquota della TASI non possa comunque superare l'1 per mille, porta a concludere che non possa essere neppure applicata la maggiorazione dello 0,8 per mille; 2. nell'aliquota TASI massima per il 2014 che non può eccedere il 2,5 per mille (d'ora in avanti: "secondo limite"). Pertanto, la maggiorazione deve essere riferita ai due limiti appena esposti e non deve superare complessivamente la misura dello 0,8 per mille. In altre parole, il comune può decidere di utilizzare l'intera maggiorazione per aumentare uno dei due limiti o, invece, può distribuire lo 0,8 per mille tra i due limiti. Nel primo caso, occorre distinguere due ipotesi:  se il comune utilizza tutta la maggiorazione per aumentare il primo limite e porta, quindi, la somma IMU+TASI a 11,4 per mille per gli altri immobili e a 6,8 per mille l'abitazione principale, non potrà fissare un'aliquota TASI superiore al 2,5 per mille;  se, invece, il comune utilizza tutta la maggiorazione per aumentare il secondo limite, portando quindi l'aliquota TASI al 3,3 per mille, la somma IMU+TASI non potrà superare il 10,6 per mille per gli altri immobili e il 6 per mille l'abitazione principale. Nel secondo caso, vale a dire quello in cui il comune distribuisca la maggiorazione tra i due limiti, si può ipotizzare che lo stesso comune aumenti:  dello 0,4 per mille, il primo limite del 10,6 per mille, portando quindi la somma IMU+TASI all'11 per mille per gli altri immobili e al 6,4 per mille per l'abitazione principale;  del restante 0,4 per mille il secondo limite del 2,5 per mille, arrivando quindi ad aumentare l'aliquota TASI al massimo al 2,9 per mille. Il rispetto dei due limiti incrementati, come appena illustrato nei due casi precedenti, dovrà essere verificato con riferimento a tutte le fattispecie oggetto della deliberazione comunale, in modo che gli stessi non vengano superati per nessuna di esse. Per scaricare la circolare nella quale, peraltro, al fine di illustrare compiutamente la portata della disposizione in commento, vengono formulati alcuni esempi basati sull'esame delle deliberazioni pervenute al Ministero cliccare su "Accedi al Provvedimento".

 
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MEF: on line il Vademecum per la certificazione dei crediti

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È disponibile sul sito web del MEF http://www.mef.gov.it/certificazionecrediti/ la guida alla certificazione dei crediti. Il Vademecum, dal titolo "Vademecum Breve guida alla certificazione dei crediti", fa seguito agli impegni assunti nel Protocollo sottoscritto il 21 luglio 2014 dal Ministro Padoan, da Cassa Depositi e Prestiti s.p.a e dai rappresentanti di regioni, province, comuni, imprese, ordini professionali e banche. Si comunica che, tenuto conto della normativa in vigore, ai fini della cessione del credito a banche e intermediari finanziari abilitati, per poter beneficiare della garanzia dello Stato, le imprese devono disporre della certificazione del credito stesso. Possono sin d’ora presentare istanza tramite il sito http://certificazionecrediti.mef.gov.it . Per maggiori informazioni cliccare su "Accedi al Provvedimento".

 
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GIURISPRUDENZA

Debiti fuori bilancio: può essere proposto ricorso contro il silenzio serbato dall'Amministrazione sull'istanza diretta ad ottenere il riconoscimento di un debito fuori bilancio

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 4.8.2014

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Nei giudizi sul silenzio dell’Amministrazione, il giudice amministrativo non può in linea di massima andare oltre la declaratoria di illegittimità dell’inerzia e l’ordine di provvedere; di conseguenza, gli resta in generale precluso il potere di accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente, sostituendosi all’Amministrazione stessa e esercitando una giurisdizione di merito di cui egli non è titolare in tale materia; peraltro, egli può sempre nell’ambito del giudizio sul silenzio conoscere dell’accoglibilità dell’istanza nelle ipotesi di manifesta fondatezza, allorché siano richiesti provvedimenti amministrativi dovuti o vincolati per i quali non ci sia da compiere alcuna scelta discrezionale che potrebbe sfociare in diverse soluzioni, fermo restando il limite dell’ impossibilità di sostituirsi all’Amministrazione; e - ancora -nell’ipotesi in cui l’istanza sia manifestamente infondata, sicché risulti del tutto diseconomico obbligare l’Amministrazione a provvedere laddove l’atto espresso non potrebbe che essere di rigetto (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 13 dicembre 2013 n. 5994). In tale contesto, pertanto, può dirsi che l’art. 2 della L. 11 febbraio 2000 n. 205, laddove ha introdotto l’art. 21-bis della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 in materia di ricorso avverso il silenzio serbato dall’amministrazione, poi confluito nell’art. 31 cod. proc. amm., non ha inteso stabilire un rimedio di carattere generale e - quindi - esperibile in tutte le ipotesi di comportamento inerte dell’amministrazione e sempre ammissibile indipendentemente dalla sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, ma soltanto un istituto giuridico relativo all’esplicazione di potestà pubblicistiche correlate alle sole ipotesi di mancato esercizio dell’attività amministrativa discrezionale (cfr., puntualmente, Cons. Stato, Sez. V, 27 marzo 2013 n. 1754). Detto altrimenti, perché sia consentito il ricorso avverso il silenzio dell’Amministrazione è essenziale che esso riguardi l’esercizio di una potestà amministrativa e che la posizione del privato si configuri come interesse legittimo, potendo infatti il silenzio-rifiuto può formarsi esclusivamente in ordine all’inerzia dell’Amministrazione su una domanda intesa ad ottenere l’adozione di un provvedimento ad emanazione vincolata ma di contenuto discrezionale (così Cons. Stato, Sez. V, 26 settembre 2013 n. 4793). Chiarito ciò, ben si evidenzia l’errore di principio in cui è ricaduto il giudice di primo grado, secondo il quale invece - e come si è visto innanzi - la circostanza che il potere di riconoscimento del debito fuori bilancio contemplato dall’art. 194, primo comma, lett. e), del T.U. approvato con D.L.vo 267 del 2000 sia provvedimento non vincolato sotto il profilo sia dell’an, sia del quantum, sottrarrebbe l’eventuale silenzio formatosi al riguardo dal rimedio giurisdizionale proprio del rito del silenzio; e, se è vero che in sede di delibera che disponga il riconoscimento di debiti fuori bilancio per acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui all’art. 191, commi 1, 2 e 3, del T.U. approvato con D.L.vo 267 del 2000, "l’ente locale è tenuto ad esplicitare adeguatamente le ragioni per le quali l’accollo del debito sia stato ritenuto non in contrasto con l’interesse pubblico, dovendo, altresì, motivare adeguatamente sulla riconducibilità dell’acquisizione dei beni e servizi in questione all’espletamento delle funzioni e dei servizi di competenza, nonché sull’utilità e arricchimento per l’ente medesimo", nondimeno "tali valutazioni, appartenendo alla sfera della discrezionalità amministrativa pura, sono incoercibili con l’azione avverso il silenzio, che non consente una sostituzione delle valutazioni del giudice a quelle riservate all’amministrazione … non essendo configurabile un obbligo giuridico dell’ente locale di disporre il riconoscimento del debito fuori bilancio" (così la sentenza impugnata a pag. 4 e ss.). Secondo il giudice di primo grado, pertanto, solo nell’ipotesi in cui l’ordinamento positivo contemplerebbe l’emanazione da parte dell’amministrazione di un atto vincolato sull’an ovvero sul quantum l’eventuale silenzio risulterebbe giudizialmente coercibile: il che - peraltro - non è, posto che – come risulta dalla giurisprudenza dianzi citata, dalla stessa interpretazione letterale dell’art. 31 cod. proc. amm. come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. g), del D.L.vo 15 novembre 2011 n. 195 discende che il rimedio medesimo è esperibile, avuto riguardo alla disciplina contenuta nell’art. 2 della L. 7 agosto 1990 n. 241 e successive modifiche e integrazioni, nonché all’ulteriore disciplina amministrativa e di fonte regolamentare ivi prevista, "decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge", ossia in ogni ipotesi in cui l’ordinamento contempli - come si è detto innanzi - l’adozione di un provvedimento ad emanazione vincolata ma di contenuto discrezionale, e senza che in contrario rilevi che il provvedimento omesso sia riferibile ad un potere contraddistinto da un più o meno ampio grado di discrezionalità. Da quanto sopra discende pure che risulta del tutto inconferente per l’economia di causa la distinzione introdotta dal giudice di primo grado tra il provvedimento di riconoscimento di debito pretesamente vincolato di cui al comma 1, lett.a), del D.L.vo 267 del 2000 e nascente dall’esistenza di "sentenze esecutive" e il provvedimento discrezionale propriamente riguardante gli obblighi derivanti dall’ "acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza": e ciò in quanto non può per certo essere sottratta all’organo consiliare, a ciò competente, la disamina circa l’opportunità di iscrivere le relative poste fuori bilancio, fermo restando che – come espressamente affermato dalla fonte legislativa – ciò deve, per l’appunto, avvenire per gli anzidetti obblighi derivanti dall’avvenuta "acquisizione di beni e servizi", nel limite del debito accertato e nella comprova (e, quindi, con adeguata motivazione) dell’ "utilità" e dell’avvenuto "arricchimento" dell’ente riferiti alle proprie competenze funzionali e di servizi. In tal senso, pertanto, la disciplina contenuta negli artt. 191 e 194 del T.U. approvato con D.L.vo 267 del 2000 impone agli enti locali di valutare e apprezzare eventuali prestazioni rese in loro favore, ancorché in violazione formale delle norme di contabilità; e – come già evidenziato da questa stessa Sezione con sentenza n. 6269 dd. 27 dicembre 2013 – la disciplina medesima presenta ampi tratti di novità rispetto a quella previgente, contenuta nell’art. 35, comma 4, del D.L.vo 25 febbraio 1995 n. 77 e che prevedeva unicamente, in caso di acquisizione di beni e servizi in violazione degli obblighi di contabilità, che "il rapporto obbligatorio intercorre (sse),ai fini della controprestazione, e per ogni effetto di legge, tra il privato fornitore e l’amministratore, funzionario o dipendente che (aveva) consentito la fornitura": e ciò in un contesto nel quale si reputava che l’adozione di atti di riconoscimento di debito a sanatoria di impegni assunti e non registrati costituiva comunque sintomo di non corretta gestione finanziaria e si poneva al di fuori della vigente normativa giuscontabilistica, non offrendo le garanzie poste a presidio degli interessi erariali (così, ad es., Corte dei Conti, Sez. contr., 3 maggio 1991 n. 50). Per effetto dell’art. 4 del D.L.vo 15 settembre 1997 n. 342, trasfuso nell’art. 191 del T.U. approvato con D.L.vo 267 del 2000 è stato - per contro e, per l’appunto - introdotto il principio della validità del rapporto obbligatorio direttamente costituito con l’amministrazione, a condizione peraltro che la prestazione o il bene fornito siano riconoscibili come dei debiti fuori bilancio a’ sensi dell’anzidetto art. 194 del medesimo T.U. e, quindi, che siano passibili di dichiarazione di utilità da parte dell’ente locale, con conseguente previsione di spesa - anche fuori bilancio - nel caso in cui il relativo impegno non sia stato ancora previsto. L’ordinamento persegue in tal modo il fine di garantire il riconoscimento di debiti per prestazioni e servizi resi in favore dell’ente locale che, benché privi di titolo, siano considerati utili per l’amministrazione, recependo al riguardo una progressiva elaborazione giurisprudenziale della Corte di Cassazione (cfr., ad es., Sez. civ. III, 3 agosto 2000 n.10199; Sez. civ. I, 2 aprile 2009 n. 8044 e 26 marzo 2009 n. 7298) e della stessa Corte dei Conti (cfr., ad es., Sez. contr., 28 luglio 1995 n. 101) e stabilendo che sono permanentemente sanabili i debiti derivanti da acquisizioni di beni e servizi, relativi a spese assunte in violazione delle norme giuscontabili per la parte di cui sia accertata e dimostrata l’utilità e l’arricchimento che ne ha tratto l’ente locale, semprechè rientrino nelle funzioni di competenza dell’ente. Il riconoscimento del debito fuori bilancio è diretto esclusivamente a sanare irregolarità di tipo contabile , rispondendo all’interesse pubblico alla regolarità della gestione finanziaria dell’ente, ma non può in alcun modo sopperire alla mancanza di una obbligazione validamente sorta: al contrario, è il diritto, quando controverso oggetto di accertamento da parte dell’autorità giudiziaria, a costituire il presupposto per l’iscrizione fuori bilancio (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 29 dicembre 2009 n. 8953). Il riconoscimento medesimo costituisce un procedimento comunque dovuto, come si desume dall’art. 194 del T.U. approvato con D.L.vo 267 del 2000, il cui esito non è peraltro vincolato e al quale l’amministrazione non può pertanto sottrarsi attraverso una semplice e immotivata comunicazione di un qualunque ufficio, essendo invece necessario un procedimento ad hoc (così, puntualmente, la citata sentenza di Cons. Stato, Sez. V, 27 dicembre 2013 n. 6269), la cui proposta va formulata al responsabile del servizio competente per materia che dovrà accertare l’eventuale, effettiva utilità che l’ente ha tratto dalla prestazione altrui: concetto, questo, di carattere funzionale, essendo l’arricchimento un concetto derivato, ossia teso alla misurazione dell’utilità ricavata (così Cass. civ., Sez. I, 12 luglio 1996 n. 6332). La proposta è seguita da un’attività istruttoria formalizzata dal responsabile anzidetto in una relazione che contiene i riferimenti della situazione debitoria dell’ente eventualmente da riconoscere e che illustra - o meno - la sussistenza dei requisiti oggettivi richiesti per il legittimo riconoscimento di ciascun debito, ovvero l’utilità e l’arricchimento per l’Ente di servizi acquisiti nell’ambito dell’espletamento di servizi di competenza (cfr. sent. n. 6269 del 2013 cit.). Sulla relazione si pronuncia, quindi, l’organo consiliare con propria deliberazione, la cui adozione conclude il procedimento. Tale procedimento è stato – per l’appunto - omesso dalle amministrazioni qui appellate; e questo giudice deve da tale circostanza trarre le dovute conseguenze a tutela della posizione giuridica dell’attuale appellante. Va opportunamente precisato che l’azione avverso il silenzio, di cui all’art. 31 c. proc. amm., è concettualmente scindibile in due domande: la prima, di natura dichiarativa, volta all’accertamento dell’obbligo, in capo all’amministrazione destinataria dell’istanza presentata dal titolare dell’interesse pretensivo, dell’obbligo di definire il procedimento nel termine prescritto dalla disciplina legislativa o regolamentare a sensi dell’art. 2 della L. 7 agosto 1990, n 241; l’altra, inquadrabile nel novero delle azioni di condanna, diretta ad ottenere una sentenza che imponga all’amministrazione inadempiente l’adozione di un provvedimento esplicito (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 28 aprile 2014 n. 2184). In conclusione, va dunque accertata l’illegittimità del silenzio-rifiuto serbato dalla Provincia di sulla richiesta rivolta ad ottenere il riconoscimento, a’ sensi dell’art. 194 del D.L.vo 267 del 2000, del debito correlativo alla pretesa vantata per la somma di € 303.437,54.- (trecentotremilaquattrocentotrentasette/54), oltre interessi e rivalutazione, in riferimento a "lavori di somma urgenza di sistemazione dell’alveo e delle sponde del fiume Tenna per la tutela del campo pozzi di captazione dell’acqua potabile a servizio dell’acquedotto del Tennacola" e dichiara pertanto l’obbligo dei rispettivi organi consiliari di pronunciarsi sulla richiesta medesima, per la parte di rispettiva competenza, entro il termine di giorni 30 (trenta) decorrente dalla comunicazione della presente sentenza, ovvero dalla sua notificazione ove anteriormente eseguita.

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