News 18 Maggio 2017 - Area Amministrativa


Abusi edilizi: nessuna sanzione in caso di inottemperanza a ordini di demolizione di manufatti sottoposti a sequestro penale

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 17.5.2017

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La Sesta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 17 maggio 2'17 ha affermato che "Risulta, in particolare, fondata l’argomentazione, svolta soprattutto nel terzo motivo di appello, con cui la società appellante sostiene l’inapplicabilità delle sanzioni previste per l’inottemperanza a ordini di demolizione di manufatti abusivi, nelle ipotesi, quale quella in esame, in cui l’immobile sia sottoposto a sequestro penale.La questione, quindi, si risolve nella disamina della validità o dell’efficacia dei provvedimenti sanzionatori adottati sulla base del rilievo dell’omessa esecuzione di presupposti ordini di demolizione (o di riduzione in pristino) di opere abusive, che esulano, tuttavia, dalla disponibilità del destinatario dell’ordinanza rimasta inattuata, in quanto sequestrati dal giudice penale.Tale problema, tuttavia, implica anche la soluzione della (logicamente) presupposta questione della validità (e dell’efficacia) dell’ordine di demolizione, per la cui inottemperanza sono state irrogate le misure sanzionatorie previste dall’art. 31 del d.P.R. n.380 del 2001.Il Collegio non ignora che l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, sia amministrativo (cfr. ex multis Cons. St., sez. VI, 28 gennaio 2016, n.283), sia penale (Cass. Pen., sez. III, 14 gennaio 2009, n.9186), ritiene irrilevante la pendenza di un sequestro, ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione, della sua eseguibilità e, quindi, della validità dei conseguenti provvedimenti sanzionatori, sulla base della non qualificabilità della misura cautelare reale quale impedimento assoluto all’attuazione dell’ingiunzione, in ragione della possibilità, per il destinatario dell’ordine, di ottenere il dissequestro del bene ai sensi dell’art.85 disp. att. c.p.p.; ma reputa di dissentire da tale orientamento, per le ragioni di seguito sinteticamente (tenendo conto, per quanto possibile, della forma semplificata della presente sentenza) esposte.Con una prima, e, per certi versi, dirimente, argomentazione, l’ordine di demolizione di un immobile colpito da un sequestro penale dovrebbe essere ritenuto affetto dal vizio di nullità, ai sensi dell’art.21-septies l. n.241 del 1990 (in relazione agli artt. 1346 e 1418 c.c.), e, quindi, radicalmente inefficace, per l’assenza di un elemento essenziale dell’atto, tale dovendo intendersi la possibilità giuridica dell’oggetto del comando.In altri termini, l’ingiunzione che impone un obbligo di facere inesigibile, in quanto rivolto alla demolizione di un immobile che è stato sottratto alla disponibilità del destinatario del comando (il quale, se eseguisse l’ordinanza, commetterebbe il reato di cui all’art. 334 c.p.), difetta di una condizione costituiva dell’ordine, e cioè, l’imposizione di un dovere eseguibile (C.G.A.R.S., Sezioni Riunite, parere n. 1175 del 9 luglio 2013 – 20 novembre 2014, sull’affare n.62/2013).In quest’ordine di idee, l’ordine di una condotta giuridicamente impossibile si rivela, quindi, privo di un elemento essenziale e, come tale, affetto da invalidità radicale, e, in ogni caso, per quanto qui rileva, inidoneo a produrre qualsivoglia effetto di diritto.A tale conclusione si ritiene potersi pervenire con riguardo ai casi in cui – come in quello di specie – l’ordine di demolizione (o di riduzione in pristino stato) sia stato adottato nella vigenza di un sequestro penale (di qualsiasi genere; ma sulla distinzione tra i diversi tipi di sequestro del processo penale si tornerà infra).L’affermazione dell’eseguibilità dell’ingiunzione di demolizione di un bene sequestrato, per quanto tralatiziamente ricorrente nella giurisprudenza amministrativa, non può, infatti, essere convincentemente sostenuta sulla base dell’assunto della configurabilità di un dovere di collaborazione del responsabile dell’abuso, ai fini dell’ottenimento del dissequestro e della conseguente attuazione dell’ingiunzione.Tale argomentazione dev’essere, infatti, radicalmente rifiutata: sia perché riferisce a un’eventualità futura, astratta e indipendente dalla volontà dell’interessato la stessa possibilità (giuridica e materiale) di esecuzione dell’ingiunzione, mentre, come si è visto, l’impossibilità dell’oggetto attiene al momento genetico dell’ordine e lo vizia insanabilmente all’atto della sua adozione; sia perché, assiomaticamente, finisce per imporre al privato una condotta priva di qualsivoglia fondamento giuridico positivo; sia, infine, perché si risolve nella prescrizione di una iniziativa processuale (l’istanza di dissequestro) che potrebbe contraddire le strategie difensive liberamente opzionabili dall’indagato (o dall’imputato) nel processo penale, peraltro interferendo inammissibilmente nell’esercizio di un diritto costituzionalmente protetto, quale quello di difesa (basti porre mente, in proposito, al caso che il mantenimento del sequestro penale –sub specie probatorio, ex art. 253 c.p.p. – risulti funzionale ad assicurare, per il seguito delle indagini o per il dibattimento, la prova che quanto realizzato non fosse abusivo, o non fosse conforme a quanto contestato o ritenuto dalla pubblica accusa, ovvero avesse altre caratteristiche scriminanti o anche solo attenuanti l’illiceità penale del fatto ascritto).Si aggiunga, ancora, che le misure contemplate dall’art. 31, commi 3 e 4-bis, del d.P.R. n.380 del 2001, rivestono carattere chiaramente sanzionatorio e, come tali, esigono, per la loro valida applicazione, l’ascrivibilità dell’inottemperanza alla colpa del destinatario dell’ingiunzione rimasta ineseguita, in ossequio ai canoni generali ai quali deve obbedire ogni ipotesi di responsabilità.Sennonchè, nella situazione considerata, non è dato ravvisare alcun profilo di rimproverabilità nella condotta (necessariamente) inerte del destinatario dell’ordine di demolizione, al quale resta, infatti, preclusa l’esecuzione del comando da un altro provvedimento giudiziario che gli ha sottratto la disponibilità giuridica e fattuale del bene.Come si vede, quindi, l’irrogazione di una sanzione (chè di questo si tratta) per una condotta che non può in alcun modo essere soggettivamente ascritta alla colpa del soggetto colpito dalla sanzione stessa, non può che essere giudicata illegittima per il difetto del necessario elemento psicologico della violazione.Fermo restando il carattere assorbente delle considerazioni appena svolte, resta da aggiungere un argomento, tutt’altro che secondario, di equità (ma, come tosto si dirà, non solo equitativo): non può esigersi – e, giuridicamente, non lo si può soprattutto in difetto di un’espressa previsione di legge in tal senso, stante anche il divieto di prestazioni imposte se non che per legge, ex art. 23 Cost. – che il cittadino impieghi tempo e risorse economiche per ottenere la restituzione di un bene di sua proprietà, ai soli fini della sua distruzione.Si tratta di un’argomentazione la cui valenza logica e intuitiva esime da ogni ulteriore spiegazione, restando immediatamente percepibile l’iniquità dell’imposizione di un dispendioso onere di diligenza, finalizzato solo alla distruzione del bene (ancora) di proprietà del destinatario dell’ingiunzione.Per ulteriori considerazioni critiche in proposito – se il dissequestro, più o meno legittimamente, fosse negato, vi sarebbe anche un onere di gravame? E fino a che grado? O andrebbe riproposta l’istanza? E quando, e quante volte? – può rinviarsi al cit. parere del C.G.A.R.S. n. 62/2013; del quale però merita condividersi la conclusione, nel senso che "la tesi [qui avversata] si appalesa, quindi, poco approfondita in punto di diritto e apoditticamente sostenuta".Essa implica, infatti, l’imposizione di un onere di diligenza per il quale – al di là della sua assertiva invocazione ad opera di alcune prospettazioni giuridiche, che potrebbero forse sembrare più inopinatamente zelanti nella repressione degli abusi edilizi che adeguatamente attente al rispetto dei principi fondanti dell’ordinamento giuridico (ivi incluso quello ex art. 23 Cost., che si è già richiamato supra) – risulterebbe davvero complicato rinvenire un convincente fondamento normativo positivo; che, anzi, sembra da escludere, purché si tenga in adeguata considerazione l’esigenza che le sanzioni (non solo quelle penali: nemo tenetur se detergere; ma anche quelle amministrative) siano, almeno tendenzialmente, strutturate per essere applicate dai pubblici poteri, piuttosto che autoeseguite a proprio danno dallo stesso soggetto destinatario di esse.Nondimeno – sia per l’ipotesi che si ritenesse di poter prescindere dalla più persuasiva prospettazione, che si è sin qui illustrata, che qualifica in termini di nullità il vizio che affligge l’ordinanza di demolizione emanata nella pendenza del sequestro dell’immobile di cui trattasi; sia, comunque, con riferimento ai casi in cui l’ordine demolitorio o ripristinatorio sia stato adottato (e, in tal caso, validamente) in un momento in cui il bene non fosse sequestrato, ma venga invece sequestrato successivamente e nella pendenza del termine assegnato per ottemperare all’ingiunzione de qua – va ulteriormente indagato, per completezza di sistema, il tema dell’incidenza del sequestro penale (se non, in queste ipotesi, sulla validità) sull’efficacia dell’ordine di demolire e, derivativamente, sulla decorrenza o meno del termine a tal fine assegnato fintanto che il sequestro permanga efficace.Limitandocisi in questa sede a un mero richiamo delle argomentazioni dogmatiche più approfonditamente svolte nel più volte cit. parere del C.G.A.R.S. n. 62/2013 – in tema di distinzione tra nullità, come difetto strutturale originario di uno degli elementi essenziali dell’atto giuridico (sub specie, qui, di possibilità dell’oggetto), e inefficacia, allorché tali elementi essenziali (e qui, dunque, la ridetta possibilità), originariamente sussistenti, vengano meno successivamente in modo temporaneo o definitivo, in quest’ultimo caso dandosi adito a una causa estintiva degli efficacia dell’atto (per impossibilità sopravvenuta) e invece nel primo solamente a una temporanea sospensione di tale efficacia – occorre evidenziare che, finché il sequestro perdura, la demolizione (anche se validamente ingiunta: vuoi perché disposta anteriormente al sequestro, ossia in un momento in cui il suo destinatario, essendo in bonis, aveva la possibilità giuridica di ottemperarvi; vuoi, ipoteticamente, perché non si condivida la tesi, invero dogmaticamente più coerente, della nullità per impossibilità giuridica dell’oggetto del provvedimento che abbia ingiunto la demolizione in costanza di sequestro) certamente non può eseguirsi.A questo semplice rilievo consegue necessariamente – e perfino a prescindere dall’incoerente assunto, che pure si è già confutato, secondo cui il destinatario dell’ordine demolitorio sarebbe tenuto ad attivarsi per chiedere il dissequestro ai soli fini della demolizione: giacché certamente non lo si potrebbe pure onerare del fatto del terzo, ossia di ottenere tale risultato entro il termine di 90 giorni normalmente assegnatogli – che, per tutto il tempo in cui il sequestro perdura (e, qui si aggiunge, indipendentemente dalla condotta attiva o passiva serbata dall’autore dell’abuso rispetto al sequestro stesso), la non ottemperanza all’ordine di demolizione non può qualificarsi non iure, appunto a causa della già rilevata oggettiva impossibilità giuridica di procedervi.Ciò non può non implicare, come conseguenza giuridicamente necessaria, l’interruzione o, quantomeno, la sospensione del decorso del termine assegnato per demolire, per tutto il tempo in cui il sequestro rimane efficace.Detto termine, dunque, inizierà nuovamente a decorrere – per intero ovvero per la sua parte residua, secondo che si opti per l’interruzione o per la sospensione di esso in costanza di sequestro – solo allorché il sequestro venga meno, per qualunque ragione.Merita evidenziarsi che l’assunto, qui propugnato, che il destinatario dell’ordine di demolizione non possa considerarsi giuridicamente onerato di richiedere il dissequestro per poter demolire non implica affatto né che ciò gli sia precluso (potrebbe, infatti, avervi interesse, per esempio per azzerare la situazione di abusivismo e poter così richiedere ex novo un titolo edilizio urbanisticamente conforme per riprendere l’attività edificatoria secundum legem); né che il dissequestro non possa essere richiesto all’Autorità giudiziaria penale da parte di chiunque altro vi abbia interesse: ossia, in primis, dalla stessa Amministrazione che abbia ingiunto (prima del sequestro, secondo la tesi qui condivisa) o che intenda ingiungere (non appena venuto meno il sequestro) la demolizione, con l’effetto di far ripartire prima possibile il decorso del termine per demolire e di far produrre, in difetto, le ulteriori conseguenze (acquisitive) che la legge riconnette all’inutile decorso di detto termine; ma anche, nei congrui casi, ai soggetti pubblici e privati controinteressati al mantenimento dell’opera edilizia abusiva, che abbiano comunanza di intenti e di interessi con l’Amministrazione procedente.Infatti, il venir meno del sequestro – da chiunque provocato o indotto, e anche se spontaneamente disposto dall’Autorità giudiziaria procedente – consente ex se all’Amministrazione di ingiungere, o di reiterare, la demolizione; ovvero produce, parimenti in via automatica, l’effetto di far cessare la causa di sospensione (o interruzione) del decorso del termine entro cui deve essere eseguita la demolizione, con ogni ulteriore conseguenza di legge in difetto.Sicché, come ognun vede, si riduce a una mera petizione di principio – non suffragata, però, da adeguati indici normativi a suo supporto – l’assunto che il sistema non possa prescindere dall’onerare il proprietario di richiedere, contra se, il dissequestro al fine di demolire, e che perciò tale onere sia necessariamente insito nel sistema stesso.Tutto all’opposto, non solo di tale onere non è dato rinvenire alcun fondamento positivo – e neppure nell’art. 85 disp. att. al c.p.p., che viene solitamente invocato a tal fine, giacché esso contempla un’ipotesi, e peraltro soltanto "se l’interessato consente", ma non radica alcun obbligo in proposito – ma anzi i principi fondamentali dell’ordinamento sembrano deporre nel senso della sua esclusione: viepiù ove si consideri che la funzionalità dell’istituto in discorso (ossia dell’ordine di demolizione) è comunque assicurata, pur di fronte all’inerzia dell’Autorità giudiziaria procedente, dalla facoltà di attivarsi per richiedere a quest’ultima il dissequestro che deve riconoscersi all’Amministrazione, oltre che a ogni altro soggetto che possa vantare analogo interesse.Beninteso, l’Autorità giudiziaria adita da un’istanza di dissequestro, da chiunque proposta, potrebbe disporlo – benché "ai soli fini della demolizione" – solo laddove il mantenimento del sequestro non sia (più) funzionale alle pertinenti esigenze processuali penali: ossia, fisiologicamente, solo in casi tendenzialmente abbastanza limitati e particolari.Come è noto, infatti, il codice di procedura penale conosce essenzialmente tre tipologie di sequestro: quello (c.d. probatorio penale) ex art. 253 c.p.p., che disciplina "il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato necessarie per l'accertamento dei fatti"; quello (c.d. preventivo) ex art. 321 c.p.p., che è volto a prevenire "che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati"; e quello (c.d. conservativo) ex art. 316 c.p.p., che è volto a evitare "che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese di procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario dello Stato".È del tutto evidente che solo il sequestro preventivo può considerarsi normalmente "cedevole" rispetto alle esigenze della demolizione (giacché essa tendenzialmente elide le conseguenza del reato e ne previene la commissione di ulteriori); laddove, almeno in linea di massima, le esigenze probatorie del sequestro penale e quelle di garanzia del sequestro conservativo dovrebbero essere considerate prevalenti su ogni altra.In tal senso pare in effetti disporre, abbastanza univocamente, l’art. 262 c.p.p., che disciplina la "Durata del sequestro e restituzione delle cose sequestrate" ("1. Quando non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova, le cose sequestrate sono restituite a chi ne abbia diritto, anche prima della sentenza. Se occorre, l'autorità giudiziaria prescrive di presentare a ogni richiesta le cose restituite e a tal fine può imporre cauzione. 2. Nel caso previsto dal comma 1, la restituzione non è ordinata se il giudice dispone, a richiesta del pubblico ministero o della parte civile, che sulle cose appartenenti all'imputato o al responsabile civile sia mantenuto il sequestro a garanzia dei crediti indicati nell'articolo 316. 3. Non si fa luogo alla restituzione e il sequestro è mantenuto ai fini preventivi quando il giudice provvede a norma dell'articolo 321")Dall’esame congiunto dei suoi tre commi pare potersi cogliere, dunque, una comprensibile prevalenza delle esigenze sottese al c.d. sequestro probatorio penale, rispetto alle quali sono accessorie quelle tutelate dal sequestro conservativo; mentre risultano sostanzialmente residuali quelle sottese al sequestro preventivo.Nella misura in cui queste considerazioni colgano nel segno, risulterebbe fortemente svalutata nel sistema la tematica connessa alle istanze di dissequestro; il che costituirebbe un ulteriore argomento esegetico nel senso della fallacia delle tesi che non solo vorrebbero onerare (quantomeno praeter legem) il destinatario dell’ordine demolitorio a richiederlo, ma che tendono altresì a sanzionare l’inottemperanza a tale preteso onere con l’acquisizione. La quale, invece, sembra essere prevista dalla legge solo a fronte di una condotta, parimenti omissiva, ma ben diversa: ossia per chi, ovviamente potendolo giuridicamente fare, non demolisca l’immobile (e non anche per chi, assertivamente tenuto a chiedere al giudice il dissequestro, ometta di formulare istanze in tal senso).Sicché è anche il fondamentale principio di tipicità delle sanzioni a ulteriormente confortare la conclusione cui il Collegio qui perviene.Per approfondire vai alla sentenza.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 17.5.2017

 
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NORMATIVA

Sostegno all’Inclusione Attiva: novità per i comuni interessati

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I comuni di residenza delle famiglie che presentano domanda di Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA) devono provvedere all’accertamento dei requisiti dei richiedenti e al successivo inoltro delle domande all’Istituto.Il messaggio INPS 16 maggio 2017, n. 2019 autorizza alla trasmissione delle domande anche i comuni capofila dei cosiddetti ambiti territoriali. Inoltre, prescrive una serie di procedure per garantire la sicurezza della gestione dati, al fine di contenere il rischio di accesso indebito alle banche dati INPS.Per approfondire vai al messaggio.

 
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GIURISPRUDENZA

Concorsi pubblici: i criteri di valutazione delle prove

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 17.5.2017

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La giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nell’affermare che «nei pubblici concorsi la predeterminazione dei criteri di valutazioni delle prove è connotata da un’ampia discrezionalità, per cui i criteri adottati sfuggono al sindacato giurisdizionale, salvi i casi di manifesta illogicità eirrazionalità» (Cons. Stato, sez. IV, 3 aprile 2014, n. 1596)...La giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nell’affermare che «le valutazioni espresse dalle Commissioni giudicatrici in merito alle prove di concorso, seppure qualificabili quali analisi di fatti (correzione dell’ elaborato del candidato con attribuzione di punteggio o giudizio) e non come ponderazione di interessi, costituiscono pur sempre l’espressione di ampia discrezionalità, finalizzata a stabilire in concreto l'idoneità tecnica e culturale, ovvero attitudinale, dei candidati, con la conseguenza che le stesse valutazioni non sono sindacabili dal giudice amministrativo, se non nei casi in cui sussistono elementi idonei ad evidenziarne uno sviamento logico od un errore di fatto, o ancora una contraddittorietà ictu oculi rilevabile» (Cons. Stato, sez. VI, 29 novembre 2016, n. 5056; sez. VI 9 febbraio 2011 , n. 871).......La mancata indicazione nel verbale dell’orario di chiusura della seduta costituisce mera irregolarità (Cons. Stato, sez. IV, 17 luglio 2013, n. 3754). L’assenza delle altre illegittimità lamentate rende, inoltre, privo di rilevanza il vizio in esame anche rapportandolo, come richiesto dall’appellante, alle altre censure. Per approfondire vai alla sentenza.

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Indennità di buonuscita: l'idoneità di un compenso a far parte della base contributiva

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 17.5.2017

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Per stabilire l'idoneità di un certo compenso a far parte della base contributiva dell'indennità di buonuscita non rileva il carattere sostanziale dello stesso (ossia se abbia o meno natura retributiva), ma esclusivamente il dato formale: vale a dire il regime impresso dalla legge a ciascun emolumento. Pertanto va esclusa la computabilità dell'assegno aggiuntivo dalla base contributiva ai fini della liquidazione dell'indennità di buonuscita, poiché l’emolumento aggiuntivo non risulta contemplato nell’elencazione tassativa delle indennità di cui all'art. 38, II comma, del d.P.R. n. 1032/197. È risalente l’orientamento giurisprudenziale, cui va data continuità (cfr., Cons. Stato, adunanza plenaria, 21 maggio 1996 n. 4 e 17 settembre 1996 n. 18), a mente del quale la natura retributiva di un emolumento, a prescindere dalla sua rilevanza ai fini del trattamento di pensione, non costituisce, da sola, elemento sufficiente per inferirne anche la computabilità ai fini dell'indennità di buonuscita (in termini, Cons. di Stato, Sez. VI, 13 gennaio 1999, n. 16). Infatti la composizione dell’indennità di buonuscita è connessa alla base retributiva la quale, a sua volta, è riservata – nell’individuazione degli elementi strutturali che la compongono – alla valutazione del legislatore, il quale, nel quadro delle complessive esigenze della finanza pubblica, deve bilanciare le esigenze di rilievo sociale che l’indennità è preordinata a soddisfare con l’effettiva disponibilità di risorse economiche. Sicché, in assenza di una espressa previsione normativa integrativa dell'elencazione di cui all'art. 38 – come, in concreto, avvenuto per la tredicesima mensilità (art. 2 della legge n. 75/1980) e per l'indennità integrativa speciale (art. 1 della legge n. 87/1994) – non possono essere inclusi nella base di calcolo dell'i.b.u. altri assegni, ancorché gli stessi, in costanza del rapporto di impiego abbiano concorso a formare il trattamento retributivo dell’attività. Per approfondire vai alla sentenza.

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L'improcedibilità del ricorso in caso di sopravvenienza di un nuovo provvedimento

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La Sesta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza depositata in data 17 maggio 2017 ha affermato "In primo luogo, la sopravvenienza di un nuovo provvedimento, che intervenga sul medesimo oggetto, può senz’altro determinare l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, nel momento in cui a fronte di ciò sia certa e definitiva l’inutilità di una sentenza di merito, anche ai fini di un possibile interesse risarcitorio; l’indagine relativa va però condotta con rigore, per evitare che con ciò si possa eludere l’obbligo di decidere sulla domanda proposta: così la costante giurisprudenza, per tutte C.d.S. sez. IV 12 aprile 2017 n.1700 e sez. V 6 giugno 2012 n.3345. In secondo luogo, a determinare l’improcedibilità non basta però la semplice rinnovazione degli atti impugnati, effettuata al solo fine di dare provvisoria esecuzione ad una sentenza non ancora definitiva -così fra le molte C.d.S. sez. III 2 agosto 2016 n.3504- e lo stesso deve dirsi, secondo logica, per ogni nuova espressione della volontà amministrativa che appunto si fondi soltanto su una sentenza non ancora passata in giudicato. Per determinare l’improcedibilità – come ritenuto sempre fra le molte da C.d.S. sez. V 27 novembre 2015 n.5379- serve invece un nuovo provvedimento, anche non satisfattorio delle richieste dell’interessato, che sia però idoneo a ridefinire l’assetto degli interessi coinvolti.

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Domanda cautelare e definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 17.5.2017

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L’articolo 60 del c.p.a. dispone che "In sede di decisione della domanda cautelare, purchè siano trascorsi almeno 20 giorni dall’ultima notificazione del ricorso, il collegio, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma semplificata, salvo che una delle parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di competenza ovvero regolamento di giurisdizione".Dalla lettura della norma emerge che la preclusione alla assunzione della decisione in forma semplificata deriva in primo luogo dalla circostanza che siano decorsi almeno 20 giorni dall’ultima notificazione del ricorso e dal fatto che una delle parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza ovvero regolamento di giurisdizione.La finalità della norma è, dunque, quella di consentire la decisione definitiva della controversia solo quando sia appieno realizzato il principio del contraddittorio e consentito alle parti il pieno esercizio del diritto di difesa.Per continuare la lettura vai alla sentenza

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L’articolo 60 del c.p.a. dispone che "In sede di decisione della domanda cautelare, purchè siano trascorsi almeno 20 giorni dall’ultima notificazione del ricorso, il collegio, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in ca ... Continua a leggere

 

Appello: è inammissibile la mera riproposizione dei motivi di primo grado senza alcuna confutazione della statuizione del primo Giudice

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 12.5.2017

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Per consolidato orientamento innanzi al Consiglio di Stato la pura e semplice riproposizione dei motivi di ricorso di primo grado (in assenza di una specifica indicazione dei motivi in concreto assorbiti e delle ragioni per cui ciascuno di essi viene riproposto in relazione alle diverse statuizionidella sentenza gravata) si pone in contrasto: con il generale principio della specificità dei motivi di appello; con il principio secondo cui è inammissibile la mera riproposizione dei motivi di primo grado, senza che sia sviluppata alcuna confutazione della statuizione del primo Giudice; con il principio secondo cui l'effetto devolutivo dell'appello non esclude l'obbligo dell'appellante di indicare nell'atto di appello le specifiche critiche rivolte alla sentenza impugnata e le ragioni per le quali le conclusioni cui il primo Giudice è pervenuto non sono condivisibili, non potendo il ricorso in appello limitarsi ad una generica riproposizione degli argomenti dedotti in primo grado (in tal senso –ex multis -: Cons. Stato, V, 31 marzo 2016, n. 1268; id., IV, 24 marzo 2016, n. 1223; id. VI, 19 gennaio 2016, n. 158). Per approfondire scarica la sentenza.

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Il risarcimento del danno per violazione dei termini di conclusione del procedimento

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L’art. 2-bis della l. n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 7, comma 1, lett. c) della l. 18 giugno 2009, n. 69, non ha elevato a distinto bene della vita, suscettibile di un’autonoma protezione mediante il risarcimento del danno, l’interesse procedimentale al rispetto dei termini dell’azione amministrativa, scisso dal riferimento alla spettanza del bene sostanziale al cui conseguimento il procedimento è finalizzato (cfr., fra le tante, Cons. St., sez. III, 12 marzo 2015, n. 1287; Cons. St., sez. IV, 1 luglio 2014, n. 3295; Cons. St., sez. IV, 6 aprile 2016, n. 1371; Cons. St., sez. V, 11 luglio 2016, n. 3059; Cons. St., sez. V, 22 settembre 2016, n. 3920). Del resto, rispetto al principio dell’atipicità dell’illecito civile, si tratta qui di una fattispecie sui generis, specifica e peculiare, da ricondurre alla clausola generale dell’art. 2043 c.c. per l’identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità civile. Di conseguenza l’ingiustizia e la sussistenza del danno non possono, in principio, presumersi iuris tantum, in meccanica relazione al mero fatto temporale del ritardo o del silenzio nell’adozione del provvedimento; in aggiunta il danneggiato deve piuttosto, ai sensi dell’art. 2697 c.c., dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito civile e, quindi, della sua domanda risarcitoria e, in particolare, sia degli elementi oggettivi (ingiustizia, nesso causale, an e quantum del danno), sia dell’elemento soggettivo (dolo o colpa del danneggiante) (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 13 gennaio 2014, n. 63). Così, per quanto qui rileva in particolare, ai fini risarcitori sono richiesti, in aggiunta alla violazione dei termini procedimentali, l’imputabilità della violazione a dolo o colpa dell’Amministrazione, il nesso di causalità tra ritardo e danno patito, nonché la dimostrazione del pregiudizio lamentato (Cons. St., sez. III, 23 aprile 2015, n. 2040; Cons. St., sez. V, 9 marzo 2015, n. 1182; Cons. St., sez. IV, 12 novembre 2015, n. 5143; Cons. St., sez. IV, 26 luglio 2016, n. 3376; Cons. St., sez. V, 22 settembre 2016, n. 3920). Per approfondire scarica la sentenza

 
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Procedimento amministrativo: le due diverse fattispecie previste dal l'art. 21 octies della legge n. 241/90

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L’art. 21-octies, comma secondo, della l. n. 241 del 1990 prevede, nel primo periodo, che «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo nonavrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato» e, nel secondo periodo, che «il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Questa disposizione distingue due diverse fattispecie. La prima è generale e riguarda il caso in cui l’attività amministrativa sia vincolata e l’Amministrazione abbia violato una disposizione che contempla un requisito formale o procedimentale. La seconda ha carattere particolare e riguarda il caso in cui sia violata la disposizione che contempla il requisito procedimentale della comunicazione di avvio del procedimento. Tale ultima fattispecie, contrariamente a quanto sembra presupporre l’appellante principale, si applica in presenza di attività sia vincolata che discrezionale (e anche quando, come nel caso di specie, si tratta di una valutazione di discrezionalità tecnica). La più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, facendo riferimento – per ragioni di efficienza e speditezza – ad un’accezione sostanzialistica della violazione dell’art. 7 della l. n. 241 del 1990, ha affermato che l’interessato che lamenta la violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento ha anche l’onere di allegare e dimostrare che, grazie alla comunicazione, egli avrebbe potuto sottoporre all’Amministrazione elementi che avrebbero potuto condurla a una diversa determinazione da quella che invece ha assunto. «È vero che tale norma pone in capo all’Amministrazione (e non del privato) l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l'esito del procedimento non poteva essere diverso», ma «onde evitare di gravare la p.a. di una probatio diabolica (quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento), risulta preferibile interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione», sicché «solo dopo che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione (che la norma implicitamente pone a suo carico), la p.a. sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato» e che «ove il privato si limiti a contestare la mancata comunicazione di avvio, senza nemmeno allegare le circostanze che intendeva sottoporre all’Amministrazione, il motivo con cui si lamenta la mancata comunicazione deve ritenersi inammissibile» (Cons. St., sez. VI, 29 luglio 2008, n. 3786). Nello stesso senso altre pronunce – Cons. St., sez. V, 18 aprile 2012, n. 2257, Cons. St., sez. V, 5 dicembre 2014, n. 5989, Cons. St., sez. VI, 4 marzo 2015, n. 1060 – hanno posto in rilievo come l’art. 21-octies debba essere interpretato nel senso di «evitare che l’amministrazione sia onerata in giudizio di una prova diabolica, e cioè della dimostrazione che il provvedimento non avrebbe potuto avere contenuto diverso in relazione a tutti i possibili contenuti ipotizzabili, per cui si deve comunque porre previamente a carico del privato l’onere di indicare, quanto meno in termini di allegazione processuale, quali elementi conoscitivi avrebbe introdotto nel procedimento, se previamente comunicatogli, onde indirizzare l'amministrazione verso una decisione diversa da quella assunta». L’onere di allegazione, da parte del privato, deve consistere nella prospettazione di elementi che, implicando valutazioni di merito (amministrativo o tecnico), possono trovare ingresso esclusivamente nel corso del procedimento sostanziale e non anche nel processo davanti al giudice.Gli elementi di legittimità possono, invece, essere allegati anche nel solo processo, con la conseguenza che il giudizio sul vizio procedimentale, se fondatamente lamentato, assorbe il giudizio sulla fondatezza della domanda giudiziale. Se invece la domanda, basata su un siffatto motivo, è infondata, il vizio di mancata comunicazione procedimentale non rileva perché la comunicazione, ove effettuata, comunque non avrebbe potuto condurre all’adozione di un provvedimento diverso – a proposito di una tale doglianza – da quello in concreto adottato (v., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 4 marzo 2015, n. 1060). Per approfondire scarica la sentenza.

 
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L’art. 21-octies, comma secondo, della l. n. 241 del 1990 prevede, nel primo periodo, che «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non ... Continua a leggere

 

Permesso di soggiorno: il requisito dei mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 12.5.2017

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In sede di rinnovo di qualsiasi permesso di soggiorno il D.LGS n.286/1998, art. 4, comma 3 (a cui fa rinvio il successivo art. 5, comma 5), richiede di dimostrare la disponibilità di "mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno", senza quantificare detta soglia di sufficienza; lo stesso comma 5 disciplina la revoca del permesso di soggiorno ordinario nel caso in cui vengono a mancare i requisiti previsti per il suo rilascio, ma fa un'espressa eccezione proprio per il requisito del reddito facendo salvi i casi di temporanea perdita di lavoro e di reddito ove si richiama l'art. 22, comma 9 (al posto del comma 11 per mero errore materiale come dimostra la corrispondente norma dell'art. 13 del regolamento attuativo di cui al DPR 399/1998). Inoltre l'art. 6, comma 5, dello stesso T.U.I. attribuisce all'Autorità di pubblica sicurezza il potere di richiedere agli stranieri "informazioni e atti comprovanti la disponibilità di un reddito, da lavoro o da altra fonte legittima, sufficiente al sostentamento proprio e dei familiari conviventi nel territorio dello Stato", senza specificare quale debba essere il reddito minimo, mentre il regolamento attuativo di cui al DPR n. 394/1999, all'art. 13, comma 2), precisa che "la disponibilità di un reddito, da lavoro o da altra fonte lecita, sufficiente al sostentamento proprio e dei familiari conviventi a carico" può essere accertata d'ufficio sulla base di una dichiarazione temporaneamente sostitutiva resa dall'interessato con la richiesta di rinnovo, escludendo espressamente i casi previsti dal comma 11 dell'art. 22 e cioè i casi in cui la temporanea perdita del posto di lavoro ha una specifica disciplina. Per approfondire scarica la sentenza.

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In sede di rinnovo di qualsiasi permesso di soggiorno il D.LGS n.286/1998, art. 4, comma 3 (a cui fa rinvio il successivo art. 5, comma 5), richiede di dimostrare la disponibilità di "mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno", senza quantificare detta soglia di sufficienza; lo s ... Continua a leggere

 

Albo pretorio comunale: le determinazioni dirigenziali vanno pubblicate per soddisfare le esigenze di trasparenza ma non vi è alcuna regola legislativa che ne comporti l'inefficacia in pendenza di pubblicazione

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 11.5.2017

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Il Consiglio di Stato nella sentenza depositata in data 11 maggio 2017 ha affermato che occorre dare corretta applicazione al principio di diritto espresso dal precedente giurisprudenziale (Cons. Stato, V, 15 marzo 2006, n. 1370): quest’ultimo, infatti, aveva ad oggetto la possibilità di riconoscere validità legale – ai fini della pubblicità notizia del provvedimento e dunque della decorrenza dei termini di impugnazione anche per i terzi cui non fosse stato notificato – alla pubblicazione sull’albo pretorio comunale di una determinazione dirigenziale, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 124 del d.lgs 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico degli enti locali).In questi termini si veda anche Cons. Stato, V, 3 febbraio 2015, n. 515, che ribadisce il principio secondo cui, se la necessaria pubblicità dell'azione degli enti locali richiede di applicare ai provvedimenti monocratici le stesse fondamentali regole di pubblicità degli atti degli organi collegiali, ciò non vuol dire che per gli stessi valgano anche le disposizioni che riguardano il conseguimento dell'efficacia dei provvedimenti: per il principio di legalità, infatti, soltanto agli atti emanati dagli organi individuati dall'articolo 134, d.lgs 267 del 2000, si applicano le sue relative disposizioni e non anche agli atti disciplinati dal precedente articolo 124.Di conseguenza, gli atti degli organi di governo (consiglio e giunta comunali) sono subordinate ai tempi della loro pubblicazione, dato l 'interesse collettivo che rivestono; all'opposto, le determinazioni dirigenziali (costituendo provvedimenti volti a realizzare gli interessi specifici affidati alle cure dell'amministrazione e consistenti in decisioni destinate a generare, modificare distinguere situazioni giuridiche specifiche o quanto meno a negarne la nascita, la modificazione o l'estinzione) devono anch'esse essere pubblicate per soddisfare le esigenze di trasparenza dell'attività amministrativa, ma non vi è alcuna regola legislativa che ne comporti l'inefficacia in pendenza di pubblicazione".Per approfondire scarica la sentenza.

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Il risarcimento del danno a carico della Pubblica amministrazione non è conseguenza automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 11.5.2017

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La Quinta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza depositata in data 11 maggio 2017 ha affermato che "Il risarcimento del danno a carico della Pubblica amministrazione non è conseguenza automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale, richiedendosi la positiva verifica, oltre che della lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall'ordinamento, della sussistenza della colpa e del dolo dell'Amministrazione e del nesso causale tra l'illecito e il danno subito (ex multis, Cons. Stato, III, 9 giugno 2014, n. 2896).". Per approfondire vai alla sentenza.

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Condanna alle spese processuali: il principio della soccombenza

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"In tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle stesse (Cass. Civ. Sez. I, 23/2/2012, n. 2736). Nel caso di specie, il TAR ha addebitato le spese di lite alla parte ricorrente in quanto, sulla base di un giudizio non sindacabile nel merito, ha ritenuto che, considerato il complessivo oggetto della lite, quest’ultima risultasse sostanzialmente soccombente, atteso che il ricorso aveva avuto esito favorevole solo per una limitatissima parte (Cass. Civ., Sez. III, 27/1/2013, n. 1193).". È quanto ribadito dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 11 maggio 2017. Per approfondire vai alla sentenza

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Decorrenza dei termini di impugnazione: la conoscenza dell’atto da parte del difensore non vale come prova della piena conoscenza della parte rappresentata

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 11.5.2017

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Per costante giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. V, 26 luglio 2016, n. 3374; Cons. Stato, sez. IV, 13 marzo 2014, n. 1203) la conoscenza dell’atto da parte del difensore non vale come prova della piena conoscenza della parte rappresentata, con conseguente irrilevanza ai fini del dies a quo del termine decadenziale di rito stabilito per impugnare. Per approfondire vai alla sentenza.

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Silenzio-inadempimento della P.A.: per escludere la configurabilità non basta l'avvio del procedimento

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 11.5.2017

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"Al fine di escludere la configurabilità del silenzio-inadempimento non basta l’avvio del procedimento, essendo al contrario necessario che lo stesso venga nei termini concluso mediante l’adozione di un provvedimento espresso (cfr. art. 2 legge 7 agosto 1990, n. 241)". È quanto affermato dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 11 maggio 2017. Per approfondire vai alla sentenza

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"Al fine di escludere la configurabilità del silenzio-inadempimento non basta l’avvio del procedimento, essendo al contrario necessario che lo stesso venga nei termini concluso mediante l’adozione di un provvedimento espresso (cfr. art. 2 legge 7 agosto 1990, n. 241)". È quanto affermato dalla Quin ... Continua a leggere

 
 
 
 
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