News 20 Luglio 2016 - Area Amministrativa


NORMATIVA

Frode in processo penale e depistaggio: in Gazzetta Ufficiale la legge n. 133/2016 con i nuovi reati

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Entrano in vigore il 2 agosto 2016 le disposizioni contenute nella legge 11 luglio 2016 n. 133 che introducono nel codice penale i nuovi reati di frode in processo penale e depistaggio. Per saperne di più scarica la legge.

 
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GIURISPRUDENZA

Conferimento incarichi dirigenziali e giurisdizione: termini dimezzati per l'appello al Consiglio di Stato

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Avevano proposto ricorso dinanzi al TAR per la Campania invocando l'annullamento della delibera della Giunta della Regione Campania n. 731/2012 avente ad oggetto "Avvocatura regionale-adempimenti" e con ricorso per motivi aggiunti l’annullamento della deliberazione della Giunta della regione Campania n. 308/2014 avente ad oggetto l’interpello per il conferimento di incarichi dirigenziali. L’adito tribunale, con la sentenza poi impugnata, ha declinato la giurisdizione a favore del giudice ordinario, rilevando che la res iudicandaverte su un selezione interna per titoli tra pubblici dipendenti finalizzata non alla nomina a un posto o alla progressione verticale, bensì all’attribuzione di mansioni di pertinenza di coloro che sono in possesso della medesima qualifica (c.d. passaggio orizzontale); sicché tale selezione non consiste in un concorso pubblico, né in un concorso interno per la progressione verticale, non incidendo sulla posizione di ruolo dei controinteressati, che rimane immutata. Inoltre, si tratta del conferimento di incarichi dirigenziali attribuite dall’art. 63, comma 1, d.lgs. 165/2001 alla giurisdizione del giudice ordinario. Impugnata la sentenza, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato con pronuncia del 20 luglio 2016 n. 3262 ha dichiarato l'appello irricevibile per tardività affermando che: "Occorre rilevare che, una volta emessa la sentenza da parte del primo giudice, la disciplina in sede d’appello segue un autonomo procedimento segnato anche dal tenore della sentenza adottata in primo grado. Pertanto, nel caso di sentenza declinatoria della giurisdizione il procedimento è quello della camera di consiglio ai sensi dell’art. 87 c.p.a. Altrimenti dovrebbe ritenersi che la disciplina del procedimento seguita in primo grado vincoli anche quella del grado d’appello, ma questa conclusione è smentita non solo dai richiami letterali presenti negli artt. 87 e 105 c.p.a., ma anche dalla presenza di discipline differenziate tra il primo e secondo grado ad esempio nel giudizio elettorale o in quello in materia di contratti pubblici. Deve, pertanto, confermarsi l’orientamento granitico di questo Consiglio secondo il quale nel giudizio d'appello proposto contro la sentenza di primo grado declinatoria della giurisdizione, si applica, ai sensi dell'art. 105, comma 2, D. Lgs. n. 104/2010 (CPA), il procedimento in camera di consiglio previsto dall'art. 87, comma 3, CPA, a norma del quale, tra l'altro, tutti i termini (tranne, nei giudizi di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti) e dunque incluso quello per proporre appello, sono dimezzati (cfr. ex plurimis, Cons. St. Sez. III, 7 luglio 2015, n. 3389).

 
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Processo amministrativo: i termini perentori per il deposito di documenti ed i poteri di acquisizione d'ufficio del giudice

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La disciplina della produzione documentale nel processo amministrativo è previsto l'articoli 73, comma 1, e 54, comma 1, c.p.a.: "Le parti possono produrre documenti fino a quaranta giorni liberi prima dell'udienza, memorie fino a trenta giorni liberi e presentare repliche, ai nuovi documenti e alle nuove memorie depositate in vista dell'udienza, fino a venti giorni liberi"; e "la presentazione tardiva di memorie o documenti può essere eccezionalmente autorizzata, su richiesta di parte, dal collegio, assicurando comunque il pieno rispetto del diritto delle controparti al contraddittorio su tali atti, qualora la produzione nel termine di legge sia risultata estremamente difficile". Al riguardo la giurisprudenza amministrativa ha puntualizzato che "i termini previsti dall'art. 73 comma 1, cod. proc. amm. per il deposito in giudizio di documenti (fino a quaranta giorni liberi prima dell'udienza) sono perentori e, in quanto tali, non possono essere superati neanche ove sussistesse accordo delle parti, essendo il deposito tardivo di memorie e documenti ammesso in via del tutto eccezionale nei soli casi di dimostrazione dell'estrema difficoltà di produrre l'atto nei termini di legge, siccome previsto dall'art. 54 comma 1, dello stesso cod. proc. amm." (Cons. Stato, sez IV, n. 916 del 2013); comunque, "nel caso di produzione fuori termine da parte dell'Amministrazione di documenti che, attenendo alla causa, possono essere acquisiti d'ufficio dal giudice, tali documenti possono essere trattenuti, ma fatta salva la facoltà dell'interessato di chiedere termini per controdedurre" (così Cons. Stato, sez. III, n. 6129 del 2012; inoltre, sul carattere perentorio del termine di 40 e di 30 giorni liberi prima dell’udienza, per produrre documenti e per depositare memorie v. anche Cons. Stato, III, n. 1335 del 2015).

 
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Personale della Polizia di Stato: Sì alla destituzione in caso d'inadempimento reiterato di obbligazioni contrattuali

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Il Capo della Polizia irrogava ad un Sovrintendente della Polizia di Stato la sanzione disciplinare della destituzione dal servizio, inflittagli a causa dei reiterati riprovevoli comportamento tenuti anche fuori dal servizio, che (unitamente alle numerose pregresse sanzioni disciplinari) denotavanomancanza di senso del decoro e del dovere e ledevano fortemente il prestigio del Corpo della P.S. Dal procedimento disciplinare era emerso che l’interessato nel 2013, debitore di diverse mensilità del canone di locazione dell’appartamento in cui viveva, nonché delle spese accessorie delle utenze dei servizi, aveva saldato quanto dovuto alla proprietaria solo dopo la notifica del provvedimento di sfratto, emesso dal giudice civile a conclusione di apposito giudizio instaurato dalla proprietaria. Poiché, però, il sovrintendente, comunque, era rimasto debitore del pagamento delle spese accessorie per le utenze, la proprietaria dell’appartamento, non riuscendo ad ottenere il rimborso dell’importo delle bollette pagate, aveva presentato un esposto all’Amministrazione, chiedendole di intervenire presso il dipendente. Il provvedimento disciplinare faceva presente che, seppure il comportamento consistente nel "contrarre debiti senza onorarli" è sanzionato dal d.P.R. n. 737/1981 (Regolamento recante le disposizioni in materia di procedimento disciplinare dei dipendenti della P.S.) all’art. 4, n. 4, con la sola pena pecuniaria, tuttavia, nel caso di specie, l’interessato risultava reiteratamente recidivo, avendo già riportato 30 sanzioni disciplinari, (di cui 5 giorni di consegna di rigore, 8 richiami scritti, 14 pene pecuniarie di diversa entità, 3 deplorazioni e 4 sospensioni disciplinari) e, quindi, riteneva sussistenti i presupposti per la sanzione della destituzione, poiché tali comportamenti erano valutati incompatibili con la permanenza in servizio. Il Consiglio di Stato con la sentenza del 18 luglio 2016 n. 3199 ha accolto l'appello del Ministero dell'Interno e respinto il ricorso proposto dal Sovrintendente contro la sanzione di destituzione inflitta in quanto sotto il profilo sostanziale, poi, la sanzione disciplinare irrogata, considerato il quadro complessivo del curriculum di servizio dell’appellato, appare proporzionata alla mancanza ai doveri di servizio addebitata al medesimo. "Infatti, pur considerando che l’inadempienza alle obbligazioni contrattuali (ai fini disciplinari) è punita con la pena pecuniaria (che nel sistema delle sanzioni disciplinari del personale di P.S. è di minor rilevanza rispetto alla deplorazione, alla sospensione ed alla destituzione), tuttavia il d.P.R. n. 737/1981, in caso di recidiva (tanto più se specifica e reiterata), prevede la possibilità di applicare le sanzioni di livello superiore, compresa la destituzione. Sotto questo profilo, nella fattispecie, si rileva che, dei 30 precedenti disciplinari a carico dell’interessato, alcuni riguardano negligenze nell’adempimento dei compiti di servizio, mentre una decina riguardano lo stesso tipo di inosservanza dei doveri di servizio: si tratta cioè di sanzioni inflitte in ragione del mancato pagamento di crediti (ovvero emissione di assegni a vuoto e vicende simili), che in 3 casi è stato sanzionato con la sospensione dal servizio (due volte per 2 mesi ed una volta per 6 mesi), sanzione di livello immediatamente inferiore alla destituzione, mentre, sotto il profilo della mancanza di senso dell’onore, si rileva che, tra l’altro, nel 1991 e nel 1993 nei confronti dell’appellato erano state adottate anche due sanzioni pecuniarie a seguito di due condanna ai sensi art.570 c.p.( pena sospesa) per violazione degli obblighi di assistenza familiare al coniuge ed al figlio minore. Sussiste in pieno, dunque, il presupposto della destituzione, di cui all’art. 7. n. 6, del d.P.R. n. 737/1981".

 
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Il Capo della Polizia irrogava ad un Sovrintendente della Polizia di Stato la sanzione disciplinare della destituzione dal servizio, inflittagli a causa dei reiterati riprovevoli comportamento tenuti anche fuori dal servizio, che (unitamente alle numerose pregresse sanzioni disciplinari) denotavano ... Continua a leggere

 

ANAC: il Consiglio di Stato boccia la delibera che sottopone le Università non statali e cd libere agli obblighi di trasparenza e pubblicità

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La Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha depositato in data 11 luglio 2016 un'interessante sentenza (la n. 3043) con la quale ha deciso l’appello proposto dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (di seguito anche solo ANAC) per ottenere la riforma della sentenza n. 8374/20015, con la quale il T.a.r. per il Lazio ha accolto il ricorso proposto in primo grado proposto da alcune Università e, per l’effetto, ha annullato la delibera ANAC 7 ottobre 2014, n. 144, recante "Obblighi di pubblicazione concernenti gli organi di indirizzo politico nelle pubbliche amministrazioni", nella parte in cui ha ritenuto che anche le Università c.d. libere (oltre alle Università statali) siano sottoposte alla disciplina in materia di obblighi di trasparenza e pubblicità di cui al decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33. In particolare la sentenza appellata ha accolto il ricorso ritenendo che le Università c.d. libere non rientrino nella nozione di "amministrazioni pubbliche" di cui all’art. 11, comma 1, d.lgs. n. 33 del 2013 (che, a sua volta, rinvia alla nozione di "amministrazioni pubbliche" di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165). Il Consiglio di Stato ha rigettato l'appello con motivazione che viene di seguito espressamente riportata: 7. Innanzitutto, sul piano dei principi, anche in considerazione del fatto che la sentenza di primo grado affronta la questione profusamente, il Collegio ritiene di dover ribadire – richiamando a tal fine le considerazioni già svolte da questa Sezione, proprio con riferimento alla c.d. Università libere, nella sentenza 26 maggio 2015, n. 2660 – che l’individuazione dell’ente pubblico debba avvenire in base a criteri non "statici" e "formali", ma "dinamici" e "funzionali". Ciò implica che il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico muta a seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato. La nozione di ente pubblico nell’attuale assetto ordinamentale non può, dunque, ritenersi fissa ed immutevole. Non può ritenersi, in altri termini, che il riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi fini, ne implichi automaticamente e in maniera automatica la integrale sottoposizione alla disciplina valevole in generale per la pubblica amministrazione. Al contrario, l’ordinamento si è ormai orientato verso una nozione "funzionale" e "cangiante" di ente pubblico. Si ammette senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica. 8. Giova precisare che la c.d. nozione funzionale di ente pubblico che qui si accoglie non contrasta con la previsione contenuta nell’art. 4 della legge n. 70 del 1975, in base alla quale, come ricordato dal T.a.r., "nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge". La nozione "funzionale" e "dinamica" non predica, infatti, che un soggetto possa essere qualificato come "pubblico" a prescindere dall’esistenza di una base legislativa che sottoponga quel soggetto ad un regime pubblicistico. Al contrario, alla base della qualificazione funzionale di ente pubblico ci deve essere sempre un fondamento normativo da cui derivano, per quell’ente, obblighi e doveri, oppure prerogative e poteri, di natura pubblicistica. 9. Nel settore degli appalti pubblici, ad esempio, ciò che fa dell’organismo di diritto pubblico (ad onta della veste formale che può essere privatistica) un soggetto equiparato alla pubblica amministrazione (e, quindi, sostanzialmente e funzionalmente un ente pubblico) è proprio la disciplina legislativa che espressamente lo sottopone al regime dell’evidenza pubblica. Con la conseguenza che l’organismo di diritto pubblico diviene pubblica amministrazione non sempre e comunque (in maniera fissa e immutevole), ma solo nello svolgimento di quel tratto di attività esplicitamente sottoposto ad una disciplina di diritto amministrativo. Il che, peraltro, consente di giustificare, anche sul piano costituzionale, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo che non avrebbe spazio se dovesse predicarsi la natura privatistica dell’organismo di diritto pubblico, perché si avrebbe una controversia tra due soggetti (il partecipante alla gara e la stazione appaltante) entrambi privati. L’equiparabilità dell’organismo di diritto pubblico alla pubblica amministrazione rappresenta ormai un risultato interpretativo assodato, eppure non vi è alcuna norma legislativa che espressamente istituisca (ove si aderisse a un’interpretazione formalistica dell’art. 4 legge n. 70 del 1975) l’organismo di diritto pubblico come ente pubblico. Al fine di predicare l’equiparazione si ritiene sufficiente l’esistenza di una norma che (in questo caso espressamente) lo rende destinatario di obblighi di diritto amministrativo. Parimenti, è altrettanto pacifico che la sottoposizione dell’organismo di diritto pubblico alla disciplina dell’ente pubblico non valga sempre e comunque, qualsiasi attività esso svolta. Si tratta al contrario, di una equiparazione settoriale, funzionale e dinamica, perché strettamente legata all’affidamento dei contratti. Quando svolge altre attività, l’organismo di diritto pubblico dismette la sua veste pubblicistica e soggiace di regola al diritto privato. Esso è, quindi, un ente pubblico dinamico, funzionale e cangiante. 10. Questa connotazione funzionale non caratterizza soltanto l’organismo di diritto pubblico, ma rappresenta ormai un connotato di molti altri soggetti. Sempre più di frequente il legislatore sottopone certi soggetti, prescindendo dalla veste formale che essi possono avere, ad obblighi di natura amministrativa o attribuisce loro poteri di natura amministrativa. Si pensi, solo per fare qualche esempio: al gestore del servizio pubblico rispetto alla disciplina del diritto di accesso ai documenti amministrativi (art. 23 legge 7 agosto 1990, n. 241); alle società strumentali o titolari di funzioni amministrative esternalizzate, sottoposte alle norme procedimento amministrativo ex art. 29 della legge n. 241 del 1990 (se si tratta di società con totale o prevalente capitale pubblico) o ai soli principi ex art. 1, comma 1, ter legge n. 241 del 1990 negli altri casi; alle società a controllo pubblico rispetto all’obbligo di reclutare il personale nel rispetto dei principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei principi di cui all’art. 35, comma 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (secondo quanto previsto dall’art. 19 dello schema di decreto legislativo recante il "Testo unico delle società a partecipazione pubblica" che nella sostanza ribadisce quanto già previsto, a legislazione vigente, dall’art. 18 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modifiche, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133). Quando un ente viene dalla legge sottoposto a regole di diritto pubblico, quell’ente, limitatamente allo svolgimento di quell’attività procedimentalizzata, diviene, di regola, "ente pubblico" a prescindere dalla sua veste formale. Deve essere ribadito che lo diviene non in maniera statica ed immutevole, ma dinamica e mutevole, perché dismette quella veste quando svolge altre attività non procedimentalizzate. 11. Si tratta di una conclusione che trova riscontro (e un fondamento normativo generale) nell’art. 7, comma 2, del Codice del processo amministrativo, il quale, recependo a sua volta una nozione funzionale e cangiante di pubblica amministrazione, statuisce espressamente che "per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto del principio del procedimento amministrativo". Il che implica che, come regola generale, la giurisdizione amministrativa segue la procedimentalizzazione dell’attività e prescindere dalla veste formale del soggetto la cui attività è procedimentalizzata. Sotto tale profilo, può leggersi come un’eccezione che conferma la regola, senza, però, contraddirla nella sua valenza di principio, la previsione contenuta nell’art. 19, comma 4, ultimo periodo, del già menzionato schema di decreto legislativo recante il "Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica", approvato dal Consiglio dei Ministri in attuazione dell’articolo 2 della legge 7 agosto 2015, n. 124, che, pur procedimentalizzando le procedure di reclutamento del personale delle società a controllo pubblico, dispone, in deroga a quanto previsto dall’art.7, comma 2, Cod. proc. Amm. che "Resta ferma la giurisdizione ordinaria sulla validità dei provvedimenti e delle procedure di reclutamento del personale", risolvendo così, per tabulas, un dibattito giurisprudenziale che aveva visto su posizioni contrapposte, in punto di giurisdizione, il Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, ordinanza 23 novembre 2010, n. 5379; Sez. VI, ordinanza 20 dicembre 2010, n. 5808 ) e le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Cass.Sez. Un. Ord. 22 dicembre 2011, n. 28329). 12. In tutti gli esempi richiamati la qualificazione pubblicistica, seppur dinamica e funzionale, avviene comunque sulla base di un dato normativo che sottopone il soggetto ad obblighi pubblicistici, in ossequio, quindi, a quanto previsto dall’art. 4 della legge n. 70 del 1975. Non sempre, tuttavia, il campo di applicazione soggettivo dei regimi pubblicistici previsti dal legislatore è puntualmente delineato. In alcuni casi, infatti, il legislatore, anziché indicare analiticamente i soggetti sottoposti al campo di applicazione della relativa disciplina, fa rinvio ad una nozione generale di pubblica amministrazione. È quello che accade nel caso oggetto del presente giudizio. Il campo di applicazione soggettivo degli obblighi in materia di trasparenza dettati dal decreto legislativo n. 33 del 2013 è, infatti, delineato dall’art. 11, comma 1, il quale fa rinvio alle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che, a sua volta, stabilisce: "Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane. e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300". La disposizione menziona, nell’elenco, l’"ente pubblico non economico", senza però fornire alcun criterio definitorio ulteriore per la sua esatta individuazione. E poiché nell’ordinamento manca una nozione generale fissa e immutevole di "ente pubblico", sorge il problema della sua delimitazione e della possibilità di includervi anche le c.d. Università libere. Proprio in questi casi – quando cioè il legislatore menziona l’ente pubblico come destinatario di una disciplina pubblicistica, ma senza fornire espliciti criteri per stabilire in che misura possano considerarsi, a quei fini, enti pubblici anche soggetti che, sebbene formalmente privati, presentano alcuni indici di pubblicità – sorgono le maggiori incertezze interpretative. 13. Il criterio utilizzato dal T.a.r. per risolvere la questione, a prescindere dalla pur sussistente condivisibilità nel caso in oggetto del risultato cui concretamente giunge (le Università libere non sono enti pubblici ai fini del decreto trasparenza) non è, in linea generale, condivisibile. La premessa del ragionamento del T.a.r. presenta, infatti, un elemento di criticità. Valorizzando la previsione di cui all’art. 4 legge n. 70 del 1975, il T.a.r. presuppone l’esistenza di uno scenario che, in realtà, l’ordinamento non conosce più da tempo (e forse non ha mai conosciuto). Uno scenario in cui legislatore attribuisce univocamente e formalmente la qualifica di ente pubblico ad una cerchia delimitata di soggetti, i quali, in virtù della qualificazione pubblicistica formalmente ricevuta, soggiacciono in maniera fissa ed immutevole, ad ogni tipo di disciplina dedicata all’ente pubblico. È uno scenario che non corrisponde all’attuale assetto ordinamentale, caratterizzato da una crescente complessità, in cui, anche per rispondere alla corrispondente complessità dei bisogni da soddisfare, si fa spesso ricorso alla c.d. "ibridazione" delle forme giuridiche e si attenuano i confini tra diritto pubblico e diritto privato. Forme giuridiche privatistiche vengono così utilizzate per perseguire interessi pubblicistici e, all’opposto, figure soggettive pubblicistiche vengono sempre spesso sottoposte a regimi di diritto privato. Significativa conferma di questa fungibilità delle forme giuridiche è fornita proprio dall’art. 1 della legge n. 241 del 1990. L’articolo che apre la disciplina generale del procedimento amministrativo prevede, infatti, al comma 1-bis, la c.d. amministrazione secondo strumenti di diritto privato ("La pubblica amministrazione, nell’adozione degli atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme del diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente") e al comma 1-ter, quasi simmetricamente, l’attività amministrativa procedimentalizzata svolta da soggetti privati ("I soggetti preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1"). 14. In questo contesto, un approccio meramente formalistico non pare adeguato all’evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha interessato la nozione di pubblica amministrazione. Risulta, al contrario, preferibile un criterio che, valorizzando opzioni ermeneutiche che hanno trovato spesso riscontro nella giurisprudenza comunitaria, nell’ambito della quale la nozione di "pubblica amministrazione" (spesso invocata dai trattati anche per delimitare il campo di operatività delle libertà fondamentali) si allarga e si restringe in funzione dalla ratio dell’istituto e dell’esigenza sostanziale da soddisfare, privilegiando più la sostanza che la forma e risolvendo i casi incerti dando rilievo centrale ai criteri teleologico e sistematico. Senza che in ciò debba rilevarsi alcuna violazione in questo del principio di legalità sancito dall’ancora vigente art. 4 della legge n. 70 del 1975, perché tra i criteri di interpretazione della legge l’art. 12 delle preleggi richiamano espressamente, specie per sopperire a carenze del dato testuale/letterale, proprio il criterio teleologico ("l’intenzione del legislatore") e il sistema normativo nel suo complesso ("secondo la connessione di esse"). 15. Muovendo da queste premesse teoriche si può ora affrontare nel dettaglio la questione controversa nel presente giudizio. Il Collegio ritiene che, rispetto all’applicazione degli obblighi in materia di trasparenza e di pubblicità (ai fini che rilevano nel presente giudizio e, dunque, con specifico riferimento agli "obblighi di pubblicazione concernenti gli organi di indirizzo politico", stante il divieto ex art. 34, comma 2, c.p.a. di pronunciare su poteri non ancora esercitati) debba escludersi la qualificazione delle c.d. libere Università in termini di ente pubblici. 16. Tale conclusione è imposta, in primo luogo, dall’art. 33 Cost. che, al comma 1, riconosce la libertà di insegnamento, al comma 3, stabilisce il diritto di "enti e privati" di istituire scuole e istituti di educazione, e, all’ultimo comma, riconosce alle Università "il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato". La citata previsione costituzionale comporta non solo che i privati possano promuovere l’istituzione di centri di istruzione, ma anche che a questi centri istituiti da privati debba essere garantita una natura sostanzialmente privata, per rispettare i principio di "autonomia ordinamentale" e di "libertà" che ad essi la Costituzione garantisce. L’art. 33 Cost. preclude, pertanto, alla legge di operare una sostanziale "pubblicizzazione" delle Università non statali, imponendo ad esse obblighi, anche in materia di trasparenza e pubblicità, preordinati ad introdurre una forma di controllo pubblicistico e collettivo, che contrasterebbe con la natura sostanzialmente privata che effettivamente le connota. Lo stesso riferimento alle "leggi dello Stato" nell’art. 33, ultimo comma, Cost. non vale a fondare una riserva pubblica dell’istruzione universitaria, ma vale semmai a giustificare un intervento normativo sui criteri per la definizione dei corsi di laura e sui requisiti per la docenza, ai fini del conferimento, da parte delle Università non statali, di titoli di studio con valore legale. 17. A conforto di tale conclusione, assume rilievo, sempre in un’ottica di sistema l’art. 1 della legge 29 luglio 1991, n. 243 che stabilisce che le Università non statali legalmente riconosciute "operano nell’ambito delle norme dell’art. 33, ultimo comma, della Costituzione e delle leggi che le riguardano, nonché dei principi generali della legislazione in materia universitaria in quanto compatibili". Tale disposizione avvalora la conclusione secondo cui le Università non statali legalmente riconosciute soggiacciono alla disciplina che ad esse fa espresso riferimento. L’applicazione ad esse della disciplina prevista per le Università statali può avvenire alla duplice condizione che si tratti di disciplina espressione di un principio generale della legislazione in materia universitaria (condizione positiva) e che il relativo principio sia compatibile con il rispetto del principio costituzionale del pluralismo e della libertà di iniziativa privata nel campo dell’istruzione (condizione negativa). Nel caso del decreto legislativo n. 33 del 2013 entrambe le citate condizioni non risultano integrate: da un lato, infatti, la disciplina in materia di pubblicità e trasparenza non è espressione di un principio generale specificamente afferente alla materia universitaria (si tratta semmai di un principio generale riferito all’intero settore dell’attività amministrativa); e dall’altro, e soprattutto, tale disciplina implica l’introduzione di forme controllo (pubblicistico e collettivo) che contraddicono il principio costituzionale della libertà di iniziativa dei privati nel settore dell’insegnamento. 18. Non rilevano in senso contrario i c.d. indici di pubblicità richiamati dall’ANAC nel suo appello. 18.1. Per quanto riguarda la legittimazione a rilasciare titolo di studi aventi valore legale, analoga prerogativa è riconosciuta ad altri soggetti privati (per esempio le scuole paritarie) che, pacificamente, non sono sottoposti alle disposizioni in materia di pubblicità e trasparenza. 18.2. L’esistenza di poteri statali di controllo e di vigilanza non assumere rilievo decisivo in quanto si tratta di poteri comunque specificamente previsti da puntuali disposizioni legislative preordinate ad assicurare il corretto assolvimento, nel rispetto di adeguati standard qualitativi, del servizio di interesse generale cui le stesse Università sono preposte. Nel caso di specie, invece, la disciplina in dettata dal decreto legislativo n. 33 del 2013 è preordinata ad assicurare più che la qualità dell’istruzione universitaria, una generale esigenza di trasparenza e pubblicità che connota specificamente l’ente pubblico e trascende, non trovando in essa adeguata giustificazione, la missione specifica assegnata alle libere Università. Del resto, l’impossibilità di desumere dalla mera esistenza di poteri di controllo e di vigilanza amministrativa la pubblicizzazione del soggetto vigilato e, dunque, la sua equiparazione all’ente pubblico, trova conferma nella considerazione che forme di controllo anche più significativo sono variamente previste nei confronti di enti la cui natura privatistica (e la cui esclusione dal campo di applicazione del decreto trasparenza) non è in discussione (si pensi, per fare solo qualche esempio, ai penetranti poteri di controllo amministrativo sulle fondazioni di diritto privato, o ai soggetti privati che operano nei c.d. mercati regolati, specie in materia di credito, risparmio ed assicurazione. 18.3. Il reclutamento del personale docente delle Università non statali secondo criteri analoghi a quelli del personale docente delle Università statali, con la previsione di requisiti omogenei nella docenza, è misura di garanzia degli standard qualitativi degli atenei non statali, e trova, quindi, specifica giustificazione nel servizio di interesse generale che esse svolgono, ma non basta per desumerne una integrale pubblicizzazione. 18.4. Non rilevano in senso contrario neanche gli orientamenti giurisprudenziali che, in alcune occasioni (in particolare ai fini del riparto della giurisdizione sulle controversie concernenti il rapporto di impiego o della sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti per le controversie aventi ad oggetto la responsabilità di amministratori e dipendenti), hanno affermato la loro equiparazione agli enti pubblici, dando rilevanza gli scopi, alla struttura organizzativa e ai poteri amministrativi ritenuti del tutto analoghi a quelli delle Università statali (così testualmente, ad esempio, Cass. Sez. Un., 11 marzo 2004, n. 5054, riferita alla L.U.I.S.S.). Come già rilevato nella citata sentenza Cons. Stato, sez. VI, n. 2660/2014, tali arresti giurisprudenziali non possono essere invocati per sostenere, sic et simpliciter, una completa equiparazione, ad ogni fine, tra Università private ed enti pubblici. La nozione cangiante di ente pubblico, ampiamente esaminata in precedenza, impedisce, infatti, di estendere automaticamente la qualifica pubblicistica riconosciuta a un ente in determinati ambiti, al fine di giustificare automaticamente la sua integrale soggezione alla disciplina di diritto pubblico. 18.5. La presenza negli organi di governo delle Università non statali di soggetti designati dal MIUR non è, a sua volta, significativa, trattandosi di presenza marginale e non in grado di alterare le ordinarie dinamiche di gestione privata delle Università non statali. 18.6. Né assume rilievo l’esistenza di fonti di finanziamento di natura pubblicistica, atteso che anche sotto questo profilo si tratta di una quota di finanziamento quantitativamente esiguo, a fronte del prevalente finanziamento con capitali privati. 18.7. Lo stesso decreto legislativo n. 33 del 2013 peraltro opera una distinzione, rilevante ai fini del suo ambito applicativo, tra ente pubblico tout court ed enti privati che svolgono attività di pubblico interesse. Per questi ultimi, ricorrendo tutte le condizioni previste, l’art. 11 del decreto legislativo n. 33 del 2013, così come modificato dall’art. 24-bis del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, prevede che le disposizioni in materia di pubblicità e di trasparenza si applichino non integralmente, ma limitatamente all’attività di pubblico interesse. 19. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello proposto dall’ANAC deve essere respinto e, per l’effetto, va confermata, sia pure con diversa motivazione, la sentenza di primo grado."

 
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La Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha depositato in data 11 luglio 2016 un'interessante sentenza (la n. 3043) con la quale ha deciso l’appello proposto dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (di seguito anche solo ANAC) per ottenere la riforma della sentenza n. 8374/20015, con la quale il T.a. ... Continua a leggere

 

Procedimento elettorale: l'iscrizione nell'elenco delle persone eleggibili all'ufficio di presidente di seggio non costituisce condizione essenziale per tale nomina

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Nella vicenda giunta all'attenzione della Terza Sezione del Consiglio di Stato si controverte di una presunta irregolarità della nomina di alcuni Presidenti di seggio e di alcuni scrutatori. I Giudici di Palazzo Spada con sentenza del 11 luglio 2016 n. 3019 hanno affermato che "Le irregolarità denunciate a sostegno della censura introdotta con tale motivo di ricorso appaiono, infatti, generiche, inconcludenti e, anche qui, irrilevanti, quand’anche dimostrate, ai fini dell’invocato giudizio di illegittimità delle operazioni elettorali contestate. Basti, al riguardo, ribadire che l'iscrizione nell'elenco delle persone eleggibili all'ufficio di presidente di seggio non costituisce condizione essenziale per tale nomina, essendo sufficiente, ai fini della legittimità di quest’ultima, che il soggetto possieda le qualità previste dall'art. 20, comma 2, del d.p.r. n. 570/1960 (Cons. St., sez. V, 26 agosto 2010, n. 5963) e non risultando che l’appellante ne abbia contestato, nella fattispecie, il difetto".

 
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Elezioni: i titolari del potere di autenticazione delle firme

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Nel giudizio in esame l’appellante asserisce l’invalidità del procedimento di autenticazione delle firme, per essere state validate da un funzionario di un Comune diverso rispetto a quello di svolgimento della relativa competizione elettorale. Il Consiglio di Stato con sentenza del 11.7.2016 n. 3019 ha richiamato il principio di diritto sancito dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 22 del 9 ottobre 2013 secondo cui i pubblici ufficiali menzionati dall’art. 14 della l. n. 53/1990 sono titolari del potere di autenticare le sottoscrizioni esclusivamente all'interno del territorio di competenza dell'ufficio di cui sono titolari o ai quali appartengono (come nel caso di specie è pacificamente avvenuto, essendo le firme state autenticate da un funzionario incaricato del Comune di Pozzuoli, presso il medesimo Comune). Tale principio è stato, poi, recentemente precisato, con argomentazioni che devono intendersi qui integralmente richiamate, nel senso che, oltre al suddetto vincolo territoriale, non può ritenersi sussistente anche il vincolo della "pertinenza della competizione elettorale", sia per la mancanza di una norma che espressamente lo preveda, sia per non vanificare la ragione giustificativa del potere di autenticazione, che dev’essere identificata nell’esigenza di "agevolare e semplificare lo svolgimento del procedimento elettorale" (cfr. Cons. St., sez. III, 16 maggio 2016, n. 1990; sez. III, 23 maggio 2016, n. 2141).

 
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Procedimento elettorale: non possono comportare l’integrale annullamento delle operazioni le mere irregolarità, ossia quei vizi da cui non derivi alcun pregiudizio per le garanzie o la compressione della libera espressione del voto

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In base a un condiviso orientamento la radicale invalidità delle operazioni elettorali può essere ravvisata solo quando la mancanza di elementi o di requisiti essenziali impedisca il raggiungimento dello scopo che connota il singolo atto, mentre non possono comportare l’integrale annullamento delleoperazioni le mere irregolarità, ossia quei vizi da cui non derivi alcun pregiudizio per le garanzie o la compressione della libera espressione del voto (in tal senso - ex plurimis -: Cons. Stato, III, 23 maggio 2016, n. 2119; id., V, 15 maggio 2015, n. 2920). È questo il principio da ultimo ribadito dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 15 luglio 2016 n. 3166 nella quale si precisa altresì che del resto, essendo il procedimento elettorale preordinato alla formazione e all'accertamento della volontà degli elettori (anche in considerazione della rilevanza costituzionale della disciplina del diritto di voto - art. 48 Cost. -), è da ritenere che producano tale effetto invalidante solo quelle anormalità procedimentali che impediscano l'accertamento della regolarità delle operazioni elettorali con effettiva e radicale diminuzione delle garanzie di legge. Le altre anormalità, invece, quali le omissioni di adempimenti formali ovvero le irregolarità comunque inidonee ad alterare in odo irrimediabile il canone della genuinità del voto nel suo complesso costituiscono delle mere irregolarità tutte le volte che non incidano negativamente sulla finalità che il procedimento persegue, id est l'autenticità, la genuinità e la correttezza degli adempimenti (arg. ex Cons. Stato, V, 19 giugno 2012, n. 3557).

 
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Astreinte: la misura e la decorrenza della penalità di mora

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Con sentenza il Tribunale ordinava all’Amministrazione di eseguire il decreto della Corte d’Appello col quale era stato riconosciuto alla parte oggi appellata l’indennizzo previsto dalla legge n. 89 del 2001 ( c.d. legge Pinto) a causa della violazione dei termini di ragionevole durata del processo. Con la medesima sentenza il Tribunale ha condannato l’Amministrazione al pagamento di penalità di mora ( c.d. astreinte). La sentenza, nel capo appunto relativo a tali penalità, è stata impugnata con l’atto di appello all’esame dall’Amministrazione la quale sostiene che il Tribunale ha errato nel condannare la P.A. al pagamento delle penalità. In via gradata l’appellante sostiene che ha errato il Tribunale nell’individuare la misura e la decorrenza delle stesse. Il Consiglio di Stato Sezione IV con la sentenza del 13.7,2016 n. 3104 ha ritenuto fondato l'appello nei limiti sotto indicati. Come evidenziato dalla Giurisprudenza, "Nell'ambito del giudizio di ottemperanza la comminatoria delle penalità di mora di cui all'art. 114, comma 4, lett. e), del c.p.a., è ammissibile per tutte le decisioni di condanna di cui al precedente art. 113, ivi comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni di natura pecuniaria" ( cfr. Ap n. 15 del 2014). Ferma restando l'assenza di preclusioni astratte sul piano dell'ammissibilità, in concreto le allegate difficoltà del bilancio pubblico non possono giustificare una totale esenzione dell’Amministrazione inadempiente dalle penalità di mora, vista anche l’attuale possibilità del ricorso al conto sospeso. Quanto esposto induce a disattendere i rilievi mossi al riguardo dall’appellante. E’ invece nel giusto l’ Amministrazione quando deduce, in sostanza e tenuto conto dell’insieme delle argomentazioni difensive, che la sentenza impugnata ha comunque errato nell’individuare la misura e decorrenza delle penalità. Per quanto riguarda la misura delle penalità, la Giurisprudenza della Sezione reputa conforme a equità il parametro dell’interesse legale peraltro ora esplicitamente indicato dall’art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a., come modificato dalla legge n. 208 del 2015. Per quanto riguarda la decorrenza, si ricorda che la penalità di mora consiste in uno strumento per indurre l'Amministrazione ad eseguire tempestivamente l'ordine di pagamento formulato dal giudice dell’ottemperanza: la penalità non è quindi comminabile per gli inadempimenti pregressi alla sentenza che ordina l'esecuzione del giudicato, ma deve decorrere dal giorno della comunicazione o notificazione della stessa, in quanto recante l'ordine di pagamento. ( cfr. IV Sez. n. 1444 del 2016). Tanto del resto risulta anche chiarito dall’art. 1 comma 781 della citata legge n. 208 del 2015.

 
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Giudizio revocatorio: l’errore di fatto che consente di rimettere in discussione il decisum del giudice

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La Quarta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza dell'11 luglio 2016 n. 3077 ha richiamato il principio, più volte ribadito in giurisprudenza, secondo cui l’errore di fatto che consente di rimettere in discussione il decisum del giudice è solo quello che non coinvolge l’attività valutativa dell’organo decidente, ma tende invece ad eliminare l’ostacolo materiale frapposto fra la realtà del processo e la percezione che di questa il giudice abbia avuto, ostacolo promanante da una omessa percezione e sempreché il fatto oggetto di asserito errore non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza impugnata per revocazione abbia pronunciato (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. III, 16 marzo 2015, nr. 1358). Deve trattarsi, quindi, di una semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale deve apparire con immediatezza e di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 dicembre 2007, nr. 6774; id., sez. IV, 23 settembre 2008, nr. 4607; id., 20 luglio 2007, nr. 4097; id., 16 settembre 2008, nr. 4316), onde evitare che il giudizio revocatorio, ad onta del suo carattere di rimedio eccezionale, possa essere trasformato in un terzo grado del giudizio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24 gennaio 2011, nr. 503). Più specificamente, la lettura e l’interpretazione dei documenti di causa appartiene all’insindacabile valutazione del giudice e non può essere censurata quale errore di fatto previsto dall’art. 395, nr. 4, c.p.c., salvo trasformare lo strumento revocatorio in un inammissibile terzo grado di giudizio; ciò in quanto l’errore di fatto deducibile in sede di revocazione non è ravvisabile qualora si assuma che il giudice abbia omesso di esaminare, su questione oggetto di discussione tra le parti, le prove documentali esibite o acquisite d’ufficio, ovvero abbia proceduto a una erronea e incompleta valutazione delle medesime, risolvendosi siffatta doglianza in una censura di errore di giudizio rientrante nella valutazione complessiva delle produzioni documentali, esorbitante in quanto tale dall’ambito della revocazione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 2 febbraio 2015, nr. 460; id., 12 giugno 2012, nr. 3420).

 
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