News 10 Giugno 2015 - Area Amministrativa


NORMATIVA

Processo Amministrativo: in G.U. la disciplina della dimensione dei ricorsi e degli altri atti difensivi nel rito appalti

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È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 128 del 5.6.2015 il decreto 25 maggio 2015 del Segretariato Generale della Giustizia Amministrativa contenente la "Disciplina della dimensione dei ricorsi e degli altri atti difensivi nel rito appalti". Per maggiori informazioni vai all'articolo pubblicato su www.ilquotidianodellapa.it Link diretto: http://www.ilquotidianodellapa.it/_contents/news/2015/giugno/1433928774806.html

 
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È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 128 del 5.6.2015 il decreto 25 maggio 2015 del Segretariato Generale della Giustizia Amministrativa contenente la "Disciplina della dimensione dei ricorsi e degli altri atti difensivi nel rito appalti". Per maggiori informazioni vai all'articolo pubbl ... Continua a leggere

 

La riforma delle misure cautelari personali: le novità introdotte dalla legge n. 47/2015

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La legge 16 aprile 2015, n. 47, in vigore dall’8 maggio 2015, ha introdotto una serie di modifiche di enorme rilievo in materia di misure cautelari personali. Già ad una prima lettura, l’impatto della riforma appare estremamente significativo, in quanto destinato ad abbattere - almeno nelle intenzioni del legislatore - ogni persistente costrutto inquisitorio che, nonostante gli interventi demolitori succedutisi nel tempo ad opera della normativa e della giurisprudenza, era ancora riconoscibile nella disciplina e soprattutto nella prassi applicativa della misura cautelare della custodia in carcere. Ad onor del vero, va detto da subito che alla base della novella legislativa, più della volontà di affermare l’etica costituzionale del garantismo penale, si è imposta l’esigenza quanto mai pragmatica di far fronte al problema del sovraffollamento carcerario, alla stregua dei moniti incalzanti ribaditi dalle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia) e della Corte costituzionale (9 ottobre 2013, n. 279). Questa ineludibile realtà di fatto non svilisce, però, la portata di una legge che ridefinisce integralmente, nella sostanza, i parametri essenziali della carcerazione ante iudicium: l’istituto giuridico che più di ogni altro tormenta la coscienza dei giuristi e dei cittadini più sensibili al tema delle garanzie processuali e della tutela dell’indagato-presunto innocente (si v. al riguardo, fra tutti, L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 566 ss.). L’"attualità" del pericolo di fuga o di reiterazione del reato: un nuovo presupposto per l’applicazione della misura cautelare personale. Gli artt. 1 e 2 della legge n. 47/2015 hanno modificato incisivamente l’art. 274, lett. b) e c), c.p.p., imponendo all’Autorità giudiziaria la verifica, ai fini dell’eventuale applicazione di una misura cautelare personale, della «attuale» sussistenza del «concreto» pericolo di fuga e/o del pericolo di reiterazione del reato o di altri gravi delitti. Tutti i parametri normativi di cui all’art. 274 c.p.p. sono stati così conformati al requisito della "attualità" dell’esigenza cautelare già fissato con riferimento al "pericolo di inquinamento delle prove" (art. 274, lett. a), c.p.p.). La relazione parlamentare che ha accompagnato l’approvazione della legge in esame non dà adito ad alcun dubbio circa la finalità del "ritocco" normativo in forza del quale l’ipotizzato "pericolo di fuga", per legittimare l’adozione di una misura cautelare, dovrà risultare d’ora in poi «non solo concreto, ma anche attuale, nel senso che il rischio che la persona possa fuggire deve essere imminente», così come la valutazione del "pericolo di reiterazione del reato" dovrà dar conto «di una valutazione più stringente dell’effettiva pericolosità del prevenuto» (Servizio Studi Camera dei Deputati, AC n. 631). Divieto di affermare la sussistenza del pericolo di fuga o di reiterazione del delitto esclusivamente in ragione della gravità del titolo di reato per cui si procede. La novella legislativa impedisce inoltre il ricorso ad uno dei più ricorrenti argomenti giustificativi delle misure cautelari personali, stabilendo che le situazioni di concreto ed attuale pericolo di fuga o di commissione di nuovi reati non possono essere più desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato contestato. Troppo spesso, in effetti, l’esigenza cautelare è stata accreditata sic et simpliciter, al di là di specifiche evidenze di fatto, sulla base della "massima di comune esperienza" che induce a postulare una maggiore propensione alla fuga o una più spiccata pericolosità sociale nei soggetti su cui pendono contestazioni per le quali sono previste le sanzioni penali più pesanti. D’ora in avanti, la verifica dei presupposti cautelari dovrà essere sempre fondata su dati e riscontri diretti e pregnanti, riconducibili alla posizione propria del singolo indagato, e non solo su inferenze deduttive di cui pure non si disconosce il rilievo. Il carcere come extrema ratio. L’art. 3 della legge n. 47/2015 ribadisce come la scelta di applicare la più afflittiva delle misure cautelari (la custodia in carcere) sia una soluzione estrema da adottarsi solo in caso di inadeguatezza di ogni altro mezzo di contenimento e controllo dell’indagato. Il novellato comma 3 dell’art. 275 c.p.p. prevede che la misura inframuraria «può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultano inadeguate». L’Autorità giudiziaria viene dunque sollecitata a combinare al meglio le diverse opzioni cautelari, evitando il più possibile il ricorso alla restrizione carceraria e preferendo, laddove parimenti efficace, ogni soluzione alternativa. L’intendimento del legislatore viene reso addirittura esplicito con l’art. 275, comma 3 bis, c.p.p. (come introdotto dall’art. 4, comma 3, legge n. 47/2015) che impone al giudice, nel disporre la custodia cautelare in carcere, di «indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto» la misura degli arresti domiciliari monitorati attraverso l’uso del braccialetto elettronico. Nuovi limiti alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere. La normativa de qua recepisce espressamente i princìpi di diritto enunciati in più occasioni dalla Consulta (si v., da ultimo, Corte costituzionale 25 febbraio 2015, n. 48) e limita ulteriormente l’alveo delle situazioni in cui trova applicazione la presunzione iuris et de iure di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere. Nella disciplina previgente, la restrizione carceraria era una scelta cautelare obbligata con riguardo ad una pluralità di reati (contemplati dall’art. 51 c.p.p. come richiamato dall’art. 275 c.p.p.) fra cui diverse fattispecie associative (associazione a delinquere "semplice", attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti ecc.). La novella legislativa, con la modifica del terzo comma dell’art. 275 c.p.p., mantiene la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare - fatta salva ovviamente l’accertata insussistenza di esigenze cautelari - soltanto con riferimento al delitto di associazione mafiosa (art. 416 bis c.p.), associazione sovversiva (art. 270 c.p.) ed associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 270 bis c.p.). Vengono pertanto escluse dal novero delle contestazioni penali per cui non sono poste alternative alla custodia cautelare in carcere, non poche fattispecie di reato fra cui si segnalano, fra gli altri, i reati aggravati dalla modalità mafiosa e finanche il concorso esterno in associazione mafiosa, nonché le diverse forme di violenza sessuale e pedopornografia. In presenza di gravi indizi di colpevolezza relativi a queste particolari ipotesi delittuose, «è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure» (art. 275, comma 3, c.p.p. come modificato dall’art. 4, comma 1, della legge n. 47/2015). Quest’ultimo lemma esclude quindi ogni automatismo ed amplia lo spazio per l’applicazione, anche in relazione ad alcuni fra i più deplorevoli reati previsti dal nostro ordinamento, di misure cautelari personali alternative al carcere. Nuovi provvedimenti in caso di trasgressione di "lieve entità" alle prescrizioni degli arresti domiciliari. Gli artt. 5 e 6 della legge n. 47/2015 sollecitano, di fatto, una maggiore tolleranza da parte dell’Autorità giudiziaria rispetto alle violazioni più frequenti e banali degli obblighi restrittivi connessi agli arresti domiciliari (si pensi, ad esempio, alla persona agli arresti domiciliari che viene sorpresa, per esigenze momentanee e per mera superficialità, in una pertinenza immediatamente esterna all’abitazione). Prevede infatti il nuovo art. 276, comma 1 ter, c.p.p. che «in caso di trasgressione alle prescrizioni degli arresti domiciliari concernenti il divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora, il giudice dispone la revoca della misura e la sostituzione con la custodia cautelare in carcere, salvo che il fatto sia di lieve entità». Persino con riferimento «a chi sia stato condannato per il reato di evasione nei cinque anni precedenti al fatto per il quale si procede», la novella legislativa si mostra assai più indulgente, escludendo comunque la custodia cautelare in carcere allorché giudice ritenga, sulla base di specifici elementi, che il fatto sia di lieve entità e che le esigenze cautelari possano essere egualmente soddisfatte con la misura degli arresti domiciliari (nuovo art. 284, comma 5 bis, c.p.p.). Le modifiche in tema di motivazione dell’ordinanza applicativa delle misure cautelari. La riforma in esame nega definitivamente la possibilità, da parte del giudice delle indagini preliminari, di motivare per relationem il provvedimento custodiale attraverso una ricezione de plano delle argomentazioni del pubblico ministero. Il nuovo art. 292, comma 2, lett. c) e lett. c bis), c.p.p. impone al giudice non solo la mera «esposizione» ma anche «l’autonoma valutazione» delle specifiche esigenze cautelari, degli indizi che giustificano in concreto la misura personale nonché delle argomentazioni difensive. È importante intendere la portata di questa modifica normativa alla stregua di quanto parallelamente disposto dall’art. 11 della legge n. 47/2015 che, intervenendo sul comma 9 dell’art. 309 c.p.p., dispone in maniera perentoria che «il tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa». Viene dunque stigmatizzata a garanzia dell’indagato la prassi, talora rinvenibile in alcune pronunce del gip, di pedissequo "appiattimento" del giudice rispetto alle richieste ed alle ricostruzioni del pubblico ministero. La fondamentale modifica dell’art. 309, comma 9, c.p.p. preclude inoltre ogni "potere integrativo" da parte del Tribunale del Riesame in caso di provvedimento annullabile per carenza oggettiva di motivazione, o per motivazione meramente apparente perché suffragata da generiche "clausole di stile" o, per l’appunto, per assenza di una «autonoma valutazione» delle esigenze cautelari richiamate nella richiesta della Procura della Repubblica. Il nuovo diritto a comparire innanzi al Tribunale del Riesame da parte dell’indagato ristretto anche fuori distretto. Davvero notevoli sono le novità introdotte dalla legge n. 47/2015 al procedimento innanzi al Tribunale del Riesame. Nella nuova formulazione, il comma 8 bis dell’art. 309 c.p.p. prevede che l’imputato che ne fa esplicita richiesta ha diritto di comparire personalmente all’udienza camerale in cui si discuterà della misura cautelare a suo carico. Sino ad oggi, l’indagato detenuto fuori distretto non aveva alcun diritto ad essere sentito in udienza, ma solo quello ad essere interrogato dal magistrato di sorveglianza. La possibilità di chiedere il differimento dell’udienza del riesame da parte dell’imputato. Col nuovo comma 9 bis dell’art. 309 c.p.p., il legislatore attribuisce all’imputato la possibilità, sinora inedita, di chiedere entro due giorni dalla notificazione dell’avviso, un differimento della data dell’udienza del riesame, «da un minimo di cinque ad un massimo di dieci giorni se vi siano giustificati motivi». In tal caso, il termine per la decisione e quello per il deposito dell’ordinanza sono prorogati nella stessa misura. La ratio di tale disposizione va rinvenuta nella voluntas legis di consentire alla difesa di prepararsi al meglio al delicato confronto giudiziale circa i presupposti della misura cautelare personale. Tempi stringenti per il deposito della motivazione da parte del Tribunale del Riesame e divieto di rinnovazione dell’ordinanza cautelare, in caso di violazione dei termini di deposito. La riforma pone dei vincoli perentori per contenere, entro tempi certi e prestabiliti, l’iter del riesame della misura cautelare personale. Stabilisce in tal senso il nuovo comma 10 dell’art. 309 c.p.p. che se la trasmissione degli atti da parte dell’autorità giudiziaria procedente non avviene entro cinque giorni dalla richiesta di riesame della misura cautelare (art. 309, comma 5, c.p.p.) o se la decisione in merito da parte del «tribunale del luogo nel quale ha sede la corte di appello o la sezione distaccata della corte di appello nella cui circoscrizione è compreso l’ufficio del giudice che ha emesso l’ordinanza» (art. 309, comma 7, c.p.p.) non perviene entro il termine inderogabile di dieci giorni dalla ricezione di tali atti (art. 309, comma 9, c.p.p.), l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia e, «salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate», non può essere rinnovata. Allo stesso modo, la misura cautelare decade inesorabilmente e non può essere rinnovata (diversamente da quanto è sin qui avvenuto nella prassi giurisprudenziale) se il deposito delle motivazioni del Tribunale del Riesame non ha luogo nel termine perentorio di trenta giorni dalla decisione, fatti salvi «i casi in cui la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni» allorché «il giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione» (nuovo art. 309, comma 10, c.p.p.). Tempi analoghi vengono imposti dal legislatore (art. 12 legge n. 47/2015) anche per quanto concerne il procedimento di appello, di cui all’art. 310 c.p.p., avverso le ordinanze in materia di misure cautelari personali (in questo ambito si intendono, com’è noto, i provvedimenti non strettamente concernenti la fase applicativa della misura cautelare coercitiva che esulano dal contesto applicativo di cui al citato art. 309 c.p.p.). Radicalmente diverse appaiono, però, in sede di appello ex art. 310 c.p.p., le conseguenze derivanti dalla violazione dei termini di legge, posto che in questo giudizio impugnatorio l’indicazione stringente dei tempi procedimentali sembra avere carattere meramente ordinatorio poiché la novella legislativa non ha riprodotto, nell’art. 310 c.p.p., le severissime disposizioni concernenti la perdita di efficacia della misura cautelare. L’ingiustificata inosservanza dei termini di decisione e deposito dell’ordinanza da parte del giudice a quo, a seguito dell’annullamento con rinvio della misura cautelare coercitiva ad opera della Corte di Cassazione, determina invece senza ombra di dubbio, ai sensi del nuovo art. 311, comma 5 bis, c.p.p., le rigide conseguenze di immediata decadenza del provvedimento cautelare. Le altre novità legislative. La legge 16 aprile 2015, n. 47 ha profondamente innovato il regime delle misure cautelari anche sotto altri profili, tutt’altro che marginali. Non si può fare a meno di accennare, a tal proposito, alle modifiche introdotte al sistema delle misure cautelari interdittive per le quali è oggi previsto un termine di durata massima di dodici mesi, fatta salva la possibilità di rinnovo per eventuali esigenze probatorie (nuovo art. 308, comma 2, c.p.p.). L’art. 7 della legge de qua ha inteso inoltre salvaguardare l’"effetto sorpresa" connesso all’adozione della misura della "sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio" (per la quale era previsto, dal previgente art. 289, comma 2, c.p.p., un obbligo propedeutico di interrogatorio dell’indagato), stabilendo che l’eventuale audizione del prevenuto deve avvenire, così come previsto per ogni altra misura coercitiva extracarceraria o interdittiva (art. 294, comma 1 bis, c.p.p.), solo successivamente all’esecuzione o notifica del provvedimento, entro il termine di dieci giorni. L’art. 11, comma 6 della riforma estende invece al procedimento di riesame dei provvedimenti di sequestro, le prescrizioni imposte dall’art. 309, comma 9 e 9 bis (come novellati dalla legge n. 47/2015) circa l’onere di autonoma valutazione delle richieste del pubblico ministero e circa la facoltà dell’indagato di chiedere il differimento dell’udienza per giustificati motivi. Viene, da ultimo, ampliato il quadro delle situazioni per le quali è possibile autorizzare i genitori detenuti o internati, ai sensi dell’art. 21 ter dell’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354), a visitare o ad assistere un proprio figlio. Sino ad oggi una simile opportunità era limitata solo ai casi di figli minori in gravi condizioni di salute o in imminente pericolo di vita oppure necessitanti di visite specialistiche per patologie particolarmente preoccupanti. Con la riforma in esame, questo beneficio viene esteso anche ai detenuti o internati con figli anche maggiorenni affetti da handicap grave (non necessariamente in pericolo di vita) ed ai detenuti o internati con coniuge o convivente affetto da disabilità permanente. Testo completo Dottrina

 
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La legge 16 aprile 2015, n. 47, in vigore dall’8 maggio 2015, ha introdotto una serie di modifiche di enorme rilievo in materia di misure cautelari personali. Già ad una prima lettura, l’impatto della riforma appare estremamente significativo, in quanto destinato ad abbattere - almeno nelle intenzi ... Continua a leggere

 
GIURISPRUDENZA

Processo: il difetto di giurisdizione non può essere eccepito in appello dal ricorrente che in primo grado ha esso stesso adìto il giudice amministrativo

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 5.6.2015

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Nel giudizio in esame dove l’odierno appellante eccepisce il difetto di giurisdizione nonostante con il ricorso di primo grado ha esso stesso adìto il giudice amministrativo, il Consiglio di Stato ha ritenuto privo di interesse ad impugnare la statuizione affermativa della giurisdizione del giudiceamministrativo poiché difetta il requisito della soccombenza sulla questione pregiudiziale di giurisdizione che, a sua volta, è l’indefettibile presupposto per radicare l’interesse all’impugnazione Ad ogni modo, aggiunge il Collegio, secondo il più recente, ormai prevalente, orientamento di questo Consiglio di Stato, l’originario ricorrente non può eccepire, in secondo grado, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo dallo stesso adìto in prima istanza, pena la trasgressione del divieto di venire contra factum proprium – paralizzabile con l’exceptio doli generalis seu presentis, nella specie sollevata dall’Amministrazione appellata – e del principio generale che vieta ogni condotta integrante abuso del diritto e del processo, lesiva dei principi di correttezza e buona fede (v., ex plurimis, Cons. St., Sez. III, 7 aprile 2014, n. 1630; Cons. St., Sez. VI, 8 febbraio 2013, n. 703; Cons. St., Sez. V, 7 febbraio 2012, n. 656). Né, nel caso di specie, ricorrono i presupposti, alla cui presenza la Corte regolatrice ha ritenuto ammissibile la proposizione, in appello, dell’eccezione di carenza di giurisdizione anche da parte dell’originario ricorrente che abbia adìto il giudice amministrativo, ossia, che una delle parti resistenti avesse sollevato e coltivato l’eccezione in esame nel giudizio di primo grado, e che la materia del contendere fosse connotata da una particolare complessità incidente sull’individuazione del giudice munito di giurisdizione (ad es., dalla proposizione di domande tra di loro connesse astrattamente riconducibili all’ambito di cognizione di plessi giurisdizionali tra di loro diversi): presupposti, che soltanto sarebbero idonei a giustificare il ripensamento della linea difensiva dell’originario ricorrente e la necessità di un chiarimento della questione di giurisdizione, e, quindi, ad escludere un’ipotesi di abuso del processo (v. Cass. Civ., Sez. Un., 19 giugno 2014, n. 13940).

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Controversie per il conferimento incarichi di dirigente di struttura complessa: l'individuazione del giudice competente

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 5.6.2015

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Forma oggetto dell’appello in esame, la sentenza del TAR per l’Emilia Romagna, sede di Bologna con cui è stato dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo il ricorso avverso gli atti di affidamento dell’incarico quinquennale di direttore dell’Unità operativa diNeurochirurgia dell’ASL di Cesena, proposto da un partecipante alla relativa procedura selettiva. Il Consiglio di Stato Sez. III nella sentenza del 5.6.2015 ha ritenuto fondato l’appello deve ritenersi fondato alla luce del precedente della Sezione di cui alla sentenza 24 marzo 2014 n. 1402. In particolare, con tale pronuncia è stato dato atto preliminarmente che in tema di conferimento di incarichi di dirigente medico di secondo livello, ora dirigente di struttura complessa, per pacifica giurisprudenza anche delle Sezioni unite della Corte di cassazione la controversia appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario ogniqualvolta si possa escludere che la procedura per il conferimento di detto incarico abbia natura di procedura concorsuale, mentre quando siano presenti elementi idonei a ricondurla appunto ad una procedura concorsuale, ancorché atipica, spetta alla residuale giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo in materia di procedure concorsuali per l’assunzione di dipendenti della pubbliche amministrazione ai sensi dell’art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001. Esaminata poi la fattispecie ivi in trattazione, gli elementi in parola sono stati ravvisati nell’intervenuta valutazione delle istanze in base a prefissati criteri valutativi e di una griglia di punteggio, che hanno dato luogo al computo numerico di ogni singolo titolo ed alla compilazione di schede riepilogative della valutazione dei curricula con attribuzione di punteggi per ciascun candidato, suddivisi per "totale anzianità", "totale curriculum" e "totale generale", nonché alla formazione di un elenco di nominativi ciascuno con il relativo punteggio, il quale, pur non tradottosi in una graduatoria, è stato utilizzato dal direttore generale per l’individuazione del dirigente medico da preporre alla struttura complessa sulla base della "graduatoria" stessa e non di una scelta di carattere essenzialmente fiduciario demandata alla sua responsabilità manageriale. Di qui la ritenuta sussistenza di giurisdizione del giudice amministrazione in applicazione del premesso principio di riparto.

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Procedimento disciplinare a carico del dipendente pubblico: gli effetti della sentenza penale irrevocabile e la motivazione per relationem del provvedimento disciplinare

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 5.6.2015

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Ai sensi dell’art. 653, co. 1 bis, cod. proc. pen., la sentenza penale irrevocabile di condanna esplica efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare quanto all'accertamento della sussistenza del fatto e della sua illiceità penale ed all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, con conseguente preclusione di ogni correlativo potere di differente valutazione della rilevanza penale del fatto in questione in sede disciplinare, ma fermo restando che il medesimo fatto va apprezzato nel diverso contesto disciplinare. Al riguardo si osserva che, secondo consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato, l'Amministrazione è titolare di un'ampia discrezionalità in ordine alla valutazione dei fatti addebitati al dipendente, circa il convincimento sulla gravità delle infrazioni addebitate e sulla conseguente sanzione da infliggere, in considerazione degli interessi pubblici che devono essere tutelati attraverso tale procedimento. In tale quadro, il provvedimento disciplinare sfugge ad un pieno sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, non potendo in nessun caso quest'ultimo sostituire le proprie valutazioni a quelle operate dall'Amministrazione, salvo che le valutazioni siano inficiate da travisamento dei fatti ovvero il convincimento non risulti formato sulla base di un processo logico e coerente (cfr. Cons. St., sez. III, 2 luglio 2014 n. 3324 nonché, ex multis, sez. IV, 9 maggio 2014 n. 2381)....D’altronde, sotto un aspetto più generale, è ben noto che la motivazione del provvedimento disciplinare non deve contenere una contestazione analitica della tesi difensiva, essendo sufficiente che l'Amministrazione abbia esplicitato, ancorché sinteticamente, l'autonomo percorso valutativo seguito nel corso dell'iter disciplinare svoltosi in contraddittorio con il soggetto interessato, per il resto dovendo ritenersi che il provvedimento sia legittimamente motivato per relationem agli atti ed alla documentazione sottostante (cfr., ad es., Cons. St., sez. V, 21 gennaio 2011 n. 425).

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 5.6.2015

 
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Ai sensi dell’art. 653, co. 1 bis, cod. proc. pen., la sentenza penale irrevocabile di condanna esplica efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare quanto all'accertamento della sussistenza del fatto e della sua illiceità penale ed all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, con conseguent ... Continua a leggere

 

L’università italiana non può opporre all’istanza di trasferimento degli studenti provenienti da università straniere per gli anni di corso successivi al primo il solo fatto del mancato superamento dei test di accesso

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 4.6.2015

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Oggetto del giudizio è il provvedimento con il quale l’Università degli Studi dell'Aquila aveva respinto la richiesta di trasferimento avanzata da studente italiano iscritto presso un’università straniera per non avere superato in Italia l’esame di ammissione al corso di laurea in Medicina e Chirurgia. Il primo giudice, accogliendo il ricorso, annullava il suddetto provvedimento. L’Università degli Studi dell’Aquila proponeva appello sostenendo la necessità del previo superamento del test di accesso previsto dalla normativa nazionale. Il Consiglio di Stato Sez. VI nella sentenza del 4.6.2015 ha rigettato l'appello rilevando che la questione posta dall’appello è stata oramai risolta dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 28 gennaio 2015, che ha stabilito che è illegittima la delibera con la quale il Consiglio di Corso di laurea in medicina e chirurgia di una università italiana respinge l’istanza avanzata da alcuni studenti iscritti al primo anno di studi di Facoltà di medicina di una università straniera, volta ad ottenere il trasferimento presso l’università italiana con iscrizione ad anno successivo al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia con la motivazione che gli studenti, provenendo da università straniere, non avrebbero superato in Italia l’esame di ammissione al corso di laurea in medicina e chirurgia, requisito essenziale previsto dal manifesto degli studi. Infatti, la possibilità di transitare al secondo anno o ad anni successivi della facoltà di medicina e chirurgia di una università italiana non può, sulla base della vigente normativa nazionale ed europea, essere condizionata all’obbligo del test di ingresso previsto per il primo anno, che non può essere assunto come parametro di riferimento per l’attuazione del "trasferimento" in corso di studi, salvo il potere/dovere dell’università di concreta valutazione, sulla base di appositi parametri, del "periodo" di formazione svolto all’estero e salvo altresì il rispetto ineludibile del numero dei posti disponibili per il trasferimento, così come fissato dall’università stessa per ogni anno accademico in sede di programmazione, in relazione a ciascun anno di corso. E’ stato superato pertanto l’orientamento giurisprudenziale anche della Sezione secondo il quale, la disciplina recante la programmazione a livello nazionale degli accessi non farebbe distinzioni tra il primo anno di corso e gli anni successivi (artt. 1, comma 1, e 4 l. 2 agosto 1999, n.264, in rapporto alle previsioni del d.m. 22 ottobre 2004, n.270 recante il regolamento dell’autonomia didattica degli atenei), per il quale il rilascio del nulla osta al trasferimento da atenei stranieri e l’iscrizione agli anni di corso successivi al primo richiederebbero comunque il previo superamento della prova nazionale di ammissione prevista dall’art. 4 citato (ai fini appunto dell’ammissione), sia per l’immatricolazione al primo anno accademico, sia, come dedotto dall’università odierna appellante, per l’iscrizione ad anni successivi in conseguenza del trasferimento. Secondo il precedente dell’Adunanza Plenaria, sul piano sistematico: 1) a livello di formazione primaria e secondaria, le uniche disposizioni in materia di trasferimenti si rinvengono ai commi 8 e 9 dell’art. 3 del d.m. 16 marzo 2007 in materia di "Determinazione delle classi di laurea magistrale", che, senza alcun riferimento a requisiti di ammissione, disciplinano il riconoscimento dei crediti già maturati dallo studente; 2) l’art. 4 l. 2 agosto 1999, n.264 subordina l’ammissione ai corsi i cui accessi sono programmati a livello nazionale (art. 1) o dalle singole università (art. 2), al "previo superamento di apposite prove di cultura generale, sulla base dei programmi della scuola secondaria superiore, e di accertamento della predisposizione per le discipline oggetto dei corsi medesimi"; 3) la locuzione "ammissione" contenuta nella norma sopra citata fa riferimento al solo "primo accoglimento dell’aspirante nel sistema universitario"; 4) nel definire "modalità e contenuti delle prove di ammissione ai corsi di laurea ad accesso programmato a livello nazionale a.a.2012-2013", il d.m. 28 giugno 2012 usa indifferentemente i termini di "ammissione" ed "immatricolazione", facendo riferimento quest’ultimo allo studente che si iscriva al primo anno di corso. Mentre sul piano giuridico, ha rilevato l’Adunanza Plenaria, i test di accesso mirano a valutare la preparazione di colui che, terminata la scuola superiore, deve ancora entrare nell’università per quelli già inseriti nel sistema (e cioè iscritti ad università italiane o straniere) non si tratta più di accertare, ad un livello di per sé presuntivo, l’esistenza di una "predisposizione" di tal fatta, quanto, semmai, di valutarne l’impegno complessivo di apprendimento dimostrato dallo studente con l’acquisizione dei crediti corrispondenti alle attività formative compiute. Una limitazione, da parte degli Stati membri, all’accesso degli studenti provenienti da università straniere per gli anni di corso successivi al primo della facoltà di medicina e chirurgia, si porrebbe in contrasto con il principio comunitario di libertà di circolazione. Pertanto, l’università italiana non può opporre all’istanza di trasferimento il solo fatto del mero mancato superamento dei test di accesso, ma deve in concreto valutare il periodo formativo svolto all’estero e tenere conto dei posti disponibili per i trasferimenti.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 4.6.2015

 
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Oggetto del giudizio è il provvedimento con il quale l’Università degli Studi dell'Aquila aveva respinto la richiesta di trasferimento avanzata da studente italiano iscritto presso un’università straniera per non avere superato in Italia l’esame di ammissione al corso di laurea in Medicina e Chirur ... Continua a leggere

 
 
 
 
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