
News 23 Dicembre 2015 - Area Amministrativa
Apprendistato: in G.U. il decreto sugli standard formativi e criteri generali

È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 296 del 21.12.2015 il decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali recante "Definizione degli standard formativi dell'apprendistato e criteri generali per la realizzazione dei percorsi di apprendistato, in attuazione dell'articolo 46, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81".
È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 296 del 21.12.2015 il decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali recante "Definizione degli standard formativi dell'apprendistato e criteri generali per la realizzazione dei percorsi di apprendistato, in attuazione dell'articolo 46, com ... Continua a leggere
Trasparenza nella Sanità: prima in Italia l'Ulss 10 del Veneto che utilizza il servizio gratuito di Gazzetta Amministrativa

È stato presentato il "Rapporto sullo stato di attuazione delle azioni adottate dalla sanità pubblica in materia di trasparenza ed integrità". L'indagine è frutto della collaborazione tra Agenas (Agenzia Nazionale per i servizi sanitari regionali) e Libera e si propone di fornire un primo feedbackalle Regioni, alle Aziende ed Enti del Servizio sanitario nazionale sulle azioni intraprese in questi ultimi anni sui temi della trasparenza, dell’etica e della legalità dalle stesse Strutture del Servizio sanitario nazionale. Il primato della più trasparente in Italia è dell'Ulss 10 del Veneto Orientale. Nel comunicato diramato dalla prima in classifica emerge che nella corposa analisi di 70 pagine è stata posta la lente sui siti web delle aziende sanitarie per rilevare le informazioni pubblicate così come previsto dalla normativa sulla trasparenza (D.lgs. 33/2013 attuativo della legge 190/2012). Il risultato è che, in termini generali, il nord Italia adempie alle normativa con un tasso di pubblicazione di informazioni al 77%, il centro al 70% e il sud al 60%. Più nel dettaglio il Veneto si avvicina dall’80% e tra le aziende sanitarie l’Ulss 10 ha soddisfatto tutti i 24 criteri analizzati, ottenendo l’adempimento alla normativa pari al 100%. A seguire, nella "top ten" di AGENAS, le ASL di Brescia, Chiavarese, Parma, Imola, Triestina, Bassa Friulana, Modena, Bologna e Cesena con percentuali di adempimento comprese tra il 91,7% ed il 95,8%. In coda alla classifica aziende ospedaliere di Roma, di Reggio Calabria, del barese con percentuali comprese tra il 12,5% ed il 29,2%. "Tale risultato è frutto di un lavoro di gruppo, ossia di tante persone che lavorano in questa azienda e che credono nella trasparenza e nella legalità – commenta il direttore generale della Ulss 10, Carlo Bramezza - . Al fianco della normativa che impone alla pubblica amministrazione la pubblicazione di dati e informazioni visibili a tutti, è fondamentale che nelle aziende siano presenti valori come etica e legalità e che vi sia la massima collaborazione a vari livelli, dai collaboratori ai dirigenti. Ringrazio tutte le strutture operative che a vario titolo hanno contribuito a farci ottenere un grande risultato che ritengo un punto di partenza per continuare a migliorare nel tempo". Per la pubblicazione dei dati riguardanti l’amministrazione trasparente, l’Azienda Sanitaria Ulss10 ha scelto una piattaforma online messa a disposizione gratuitamente dalla Gazzetta Amministrativa e integrata al portale internet aziendale". Nel comunicato diramato dall'Agenas viene precisato che "Il percorso intrapreso dal sistema sanitario in materia di etica, trasparenza ed integrità registra una sempre maggiore applicazione, a significare che l'attuazione della normativa non è più concepita come un mero adempimento burocratico ma come presa di coscienza delle organizzazione sanitarie dell'importanza della trasparenza come leva strategica per consentire il miglioramento ed un concreto cambiamento culturale di tutti gli operatori sanitari, tanto più che si tratta di un settore che per funzione sociale è tra i più vicini alla persona in un momento di vulnerabilità e fragilità". È quanto afferma Francesco Bevere, Direttore Generale di Agenas a margine della presentazione del "Rapporto sullo stato di attuazione delle azioni adottate dalla sanità pubblica in materia di trasparenza ed integrità", frutto della collaborazione tra Agenas e Libera. Per il Presidente dell'ANAC, Raffaele Cantone: "Il diritto alla salute è pretesa primaria delle persone, assicurata dalla Costituzione italiana. Il valore del diritto alla salute come "interesse della collettività" ne esalta il significato di diritto fondamentale e amplifica la sua dimensione di principio supremo dell'ordinamento. In un terreno così delicato il contrasto alla corruzione assume un ruolo centrale e va, in primo luogo, inteso come cultura della trasparenza che consente la verifica costante degli strumenti, dei tempi e dei modi di attuazione dei trattamenti sanitari". Per approfondire accedi al "Rapporto sulla Trasparenza".
È stato presentato il "Rapporto sullo stato di attuazione delle azioni adottate dalla sanità pubblica in materia di trasparenza ed integrità". L'indagine è frutto della collaborazione tra Agenas (Agenzia Nazionale per i servizi sanitari regionali) e Libera e si propone di fornire un primo feedback ... Continua a leggere
Corte dei Conti: il parere sulla nuova norma che prevede la possibilità di assicurare gli amministratori senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica
segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della deliberazione della Corte dei Conti

Il Sindaco del Comune di Cremenaga ha richiesto un parere in merito all'interpretazione dell'art. 86, comma 5, primo periodo del d. lgs. n. 267 del 2000, così come novellato dall'art. 7 bis, comma 1, del d.l. 19 giugno 2015, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 125. Segnatamente, atteso che, ai sensi del novellato comma 5, primo periodo, dell'art. 86 TUEL, "gli enti locali di cui all'articolo 2 del presente testo unico, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, possono assicurare i propri amministratori contro i rischi conseguenti all'espletamento del loro mandato", si chiede se "il tenore della nuova norma in commento permette all'ente di farsi carico di detti oneri" in considerazione dell'inciso introdotto nel predetto articolo "senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica". Il comma 5, primo periodo, dell'art. 86 del d. lgs. n. 267 del 2000 - che recitava "i comuni, le province, le comunità montane, le unioni di comuni e i consorzi fra enti locali possono assicurare i propri amministratori contro i rischi conseguenti all'espletamento del loro mandato" è stato novellato dall'art. 7 bis, comma 1, del d.l. 19 giugno 2015, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 125 e recita attualmente che "gli enti locali di cui all'articolo 2 del presente testo unico, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, possono assicurare i propri amministratori contro i rischi conseguenti all'espletamento del loro mandato". La Corte dei Conti, Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia nella deliberazione n. 452/2015/PAR del 9.12.2015 afferma che "La modificazione avvenuta consiste, per quanto di interesse ai fini del presente parere, nell'inserimento della locuzione "senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica" nel precedente testo legislativo, che già facoltizzava gli enti locali, seppur individuandoli non per categoria, come avviene attualmente, ma per singola tipologia, ad assicurare i propri amministratori contro i rischi conseguenti all'espletamento del loro mandato. Tralasciando il profilo relativo ai rischi assicurabili, non oggetto del presente parere, per la cui individuazione si rimanda alla normativa in vigore e alla giurisprudenza sulla medesima formatasi, si tratta di individuare la portata del suddetto inciso. Al riguardo la Sezione osserva che il vincolo in esso contenuto impone che la suddetta copertura assicurativa non comporti nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, essendo quindi finalizzato ad evitare che la stipulazione di polizze contro i rischi derivanti dal mandato di amministratore possa provocare un incremento generale delle spese afferenti alla finanza pubblica nel suo complesso. Nella prospettiva del singolo ente locale il vincolo non può che essere parametrato alle spese precedentemente sostenute dall'ente locale, individuando l'aggregato più idoneo a fungere da parametro di riferimento. A tal fine la Sezione ritiene di poterlo individuare nelle spese di funzionamento dell'ente, in quanto, da un lato, comprensivo delle spese afferenti al mandato degli amministratori ma, dall'altro lato, non così ampio da ricomprendere anche le uscite destinate a soddisfare le finalità pubbliche il cui perseguimento è demandato all'Amministrazione. Tale aggregato interessa, infatti, tutte quelle voci di spese preordinate a garantire l'esistenza dell'apparato comunale e il suo funzionamento ed esclude invece quelle voci di spesa per loro natura destinate all'espletamento dei compiti di cui l'ente è intestatario, preordinati ad assicurare e contemperare gli interessi dei soggetti a cui l'azione pubblica è rivolta. Così individuato il termine di raffronto per la valutazione del nuovo o maggiore onere di cui all'inciso in esame e tralasciando gli aspetti relativi alla tipologia di rischi assicurabili, non oggetto del presente parere, la Sezione ritiene che non sia consentita, sulla base del novellato art. 86, comma 5, primo periodo, l'introduzione o l'aumento della spesa per la voce in esame allorquando la stessa determinerebbe un innalzamento delle spese relative all'organizzazione e al funzionamento complessivamente sostenute dall'ente locale rispetto a quanto risulta nel rendiconto relativo al precedente esercizio, essendo invece possibili eventuali compensazioni interne. Tale impostazione risulta altresì in linea con la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, che considera rispettosi dell'autonomia di spesa di regioni ed enti locali i soli vincoli alle politiche di bilancio da cui sia possibile desumere un limite complessivo, "lasciando agli enti stessi ampia libertà di allocazione fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa" (Corte costituzionale n. 139/2012)".
segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della deliberazione della Corte dei Conti
Il Sindaco del Comune di Cremenaga ha richiesto un parere in merito all'interpretazione dell'art. 86, comma 5, primo periodo del d. lgs. n. 267 del 2000, così come novellato dall'art. 7 bis, comma 1, del d.l. 19 giugno 2015, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 125. S ... Continua a leggere
Revocazione: la scoperta sopravvenuta di documenti decisivi e la prova sull'impossibilità di acquisirli prima della sentenza

Nel giudizio in esame una Società ha impugnato per revocazione una sentenza del Consiglio di Stato che aveva confermato il rigetto del ricorso proposto contro gli atti del Sindaco di un Comune che aveva disposto di assumere direttamente la gestione del servizio pubblico di erogazione del servizio di acqua potabile e connesso servizio di depurazione, ordinando alla Società in questione, che gliele aveva affittati, di consegnare gli impianti di fognatura e depurazione e gli impianti di emungimento di acqua dei pozzi, gli impianti di potabilizzazione e distribuzione dell’acqua del Comune. L’odierna ricorrente per revocazione, assume di essere venuta in possesso solo recentemente, di tre documenti che comproverebbero l’erroneità della sentenza del Consiglio di Stato e ne ha chiesto, quindi, la revocazione, con conseguente accoglimento del ricorso proposto in primo grado avanti al T.A.R., affermando, la responsabilità per i fatti illeciti a carico del Sindaco, quale ufficiale di Governo, e del Prefetto, e condannando il Ministero dell’Interno al risarcimento dei danni tutti, patrimoniali e non patrimoniali, subiti e subendi nella misura di € 5.722.923,00 o nella diversa somma ritenuta di giustizia. La Terza Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 9.12.2015 n. 5595 ha rigettato l'impugnazione rilevando, per quanto qui d'interesse, come la ricorrente, senza nulla allegare né dimostrare nel ricorso, specificamente, né in ordine a tale procedimento penale né in ordine alle concrete modalità del ritrovamento, si è riservata di fornire ulteriori dati su tale procedimento, dati, tuttavia, nel forniti nel prosieguo di questo giudizio. Ritiene il Collegio che, in difetto di qualsivoglia rigorosa prova (o, comunque, anche di un principio di prova), da parte della ricorrente, circa l’impossibilità di acquisire tali documenti, prima del giudizio, e delle indagini esperite dalla ricorrente stessa per il ritrovamento, il ricorso per revocazione non si sottragga ad una preliminare, irrimediabile, declaratoria di inammissibilità. Il ricorrente che deduce la scoperta sopravvenuta di documenti decisivi ha, infatti, l’onere di provare l’impossibilità di produrre in giudizio tale prova per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario. Al riguardo - conclude il Consiglio di Stato - non è sufficiente un generico accenno al rinvenimento dei documenti dopo la sentenza, ma è necessario indicare quali indagini siano state esperite per il ritrovamento, al fine di consentire la valutazione della diligenza con la quale esse siano state compiute e, quindi, l’accertamento dell’assenza di colpa in cui si concreta il concetto di forza maggiore, di cui all’art. 395, n. 3, c.p.c., ed è necessario, altresì, indicare la data del recupero del documento (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 30.7.1982, n. 621; Cons. St., sez. VI, 29.1.2008, n. 241). In particolare, precisa il Collegio, nel caso di specie tale onere probatorio non è stato minimamente assolto, non avendo la ricorrente nemmeno indicato le modalità del ritrovamento, né basta a sopperire tale grave carenza probatoria l’affermazione, del tutto apodittica, che si tratterebbe di atti amministrativi interni, poiché non si tratta né di atti secretati né di atti riservati, che non sarebbe stato possibile acquisire, con l’ordinaria diligenza, nel lungo giudizio, durato molti anni, definito dalla sentenza qui impugnata, soprattutto considerando che si tratta di atti risalenti nel tempo (1999-2000) e, comunque, ostensibili con una ordinaria richiesta di accesso agli atti. La ricorrente, ad ogni modo, non ha indicato né le modalità del ritrovamento né provato l’impossibilità di acquisire tali documenti prima della sentenza, senza dimostrare, perciò, l’assenza di colpa nella quale si sostanzia, come detto, la forza maggiore, e nemmeno ha specificato quale sarebbe il procedimento penale in corso, al di là del generico riferimento alla mancata restituzione, fino ad oggi, dell’acquedotto locale dalla stessa ricorrente, e in quale modo, nell’ambito di tale procedimento, sia venuta a conoscenza di tali documenti, in ipotesi prima non conosciuti né conoscibili.
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Operazioni elettorali, il voto "si ok" e le sottolineature: quando le espressioni inutili e sovrabbondati rendono riconoscibile il voto

La Quinta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 27.11.2015 n. 5379 ha analizzato, tra l'altro, la cesura con la quale l'appellante lamenta la mancata assegnazione al candidato sindaco del voto espresso nella seconda sezione con la scheda elettorale recante la scritta "si ok". Il T.A.R. ha escluso l'attribuibilità del voto in quanto la scheda risultava priva del crocesegno e recava la dicitura "si ok", ritenendo tale espressione un segno di riconoscimento. Con la decisione impugnata il Tribunale non si è pronunciato su di un profilo che non gli era stato devoluto, ma ha esplicitato i motivi per cui la scheda era da annullare, in presenza di una espressione non solo inutile e sovrabbondate, ma tale da rendere obiettivamente riconoscibile il voto. Il Consiglio di Stato ha confermato la tesi del Giudice di Prime cure rilevando che il voto, per come espresso, non può che essere nullo, atteso che il principio della salvaguardia della validità del voto di lista o di preferenza contenuto in una scheda, che deve essere ammesso tutte le volte in cui si può desumere la volontà effettiva dell'elettore (c.d. univocità del voto), trova un limite non solo nei casi classici di schede non conformi a legge o non recanti la firma di uno scrutatore o il bollo della sezione ma, anche, di schede che, come nel caso di specie, presentano scritture o segni tali da far ritenere, in modo inoppugnabile, che l'elettore abbia voluto far riconoscere il proprio voto (cfr. articoli 64 e 69 Testo unico n. 570/1960). Inoltre nel presente giudizio l'appellante ha altresì lamentato l'erroneità della sentenza laddove i giudici di prime cure hanno confermato la validità della scheda con voto attribuito al candidato sindaco, recante una sottolineatura sopra la dicitura "candidato alla carica di sindaco". Ad avviso del Consiglio di Stato la censura è infondata, atteso che il tratto di penna presente sulla scheda risulta manifestamente superfluo ai fini dell'espressione del voto, ma non può ragionevolmente ritenersi un segno volontario di riconoscimento, così da condurre all'annullamento della scheda. Nel caso di specie sussistono, invero, le condizioni per appellarsi al noto principio del "favor voti", in base al quale, in sede di scrutinio, la validità del voto contenuto in una scheda deve essere ammessa ogni qualvolta sia possibile desumere quale sia la effettiva volontà dell'elettore, fermo restando che la nullità del voto si verifica solo quando dall'esame obiettivo della scheda emerge che i segni e le incertezze grafiche apposti conducono a ritenere che l'irregolare compilazione sia preordinata al riconoscimento dell'autore (Cons. Stato, sez. V, 17 marzo 2015, n. 1376).
La Quinta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 27.11.2015 n. 5379 ha analizzato, tra l'altro, la cesura con la quale l'appellante lamenta la mancata assegnazione al candidato sindaco del voto espresso nella seconda sezione con la scheda elettorale recante la scritta "si ok". Il T.A.R ... Continua a leggere
Diritto di accesso alle cartelle esattoriali: Equitalia deve conservare e consentire la visione delle cartelle anche oltre il periodo quinquennale se il credito portato ad esecuzione non sia stato recuperato

La Quarta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 3011.2015 n. 5410 ha esaminato la vicenda che vede un contribuente aver avanzato istanza di accesso ad una serie di cartelle di pagamento, molte delle quali ancora rientranti nel periodo quinquennale previsto dall’art. 26, co 4, del D.P.R.n. 602/1973.Il citato articolo dispone, infatti, che "Il concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell'avvenuta notificazione o l'avviso di ricevimento ed ha l'obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell'amministrazione".Nella sentenza attenzionata il Collegio ha richiamato la costante giurisprudenza a tenore della quale "il contribuente vanta un interesse concreto ed attuale all’ostensione di tutti gli atti relativi alle fasi di accertamento, riscossione e versamento, dalla cui conoscenza possano emergere vizi sostanziali procedimentali tali da palesare l’illegittimità totale o parziale della pretesa impositiva (in tal senso, l’art. 22, comma 1, lett. b) l. n. 241 del 1990) (cfr. Cons. Stato, sez. VI, sent. 15 febbraio 2012, n. 766) e come "l’accesso ai documenti non può essere soddisfatto dall’esibizione di un documento che l’amministrazione e non il privato ricorrente giudica equipollente. Elemento fondamentale dell’actio ad exhibendum è la conformità del documento esibito dal privato all’originale" (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sent. 12 maggio 2014, n. 2422).Sulla base di tali principi il Consiglio di Stato ha riconosciuto il diritto del contribuente ad ottenere la visione delle cartelle per le quali ancora non fosse trascorso il periodo quinquennale di conservazione, non potendo essere considerate equipollenti gli eventuali estratti delle iscrizioni a ruolo messi a disposizione da Equitalia Sud e dalle quali non può in alcun modo desumersi la pretesa erariale portata ad esecuzione, con una significativa lesione delle prerogative riservate al contribuente dal nostro ordinamento.La società contribuente, con il proprio ricorso, ha altresì chiesto che fossero esibite anche le cartelle di pagamento anteriori al periodo quinquennale previsto dal ricordato art. 26 del D.P.R. 602/1973, osservando come la pretesa erariale si prescriva nel termine di dieci anni, periodo nel quale la pretesa può essere portata ad esecuzione, con conseguente obbligo di conservazione degli atti presupposti, tra i quali la cartella di pagamento.Ritiene il Collegio che la disposizione di cui all’art. 26 cit. comporti per il Concessionario un mero obbligo minimo di conservazione delle cartelle per un quinquennio e non un termine massimo di conservazione delle stesse, non potendo, d’altra parte, incidere sul termine decennale di prescrizione ordinaria.Costituisce, infatti, precipuo interesse dell’esattore, nonché preciso onere improntato alla diligenza, conservare, in caso di mancata riscossione dei tributi nel quinquennio e in occasione di rapporti giuridici ancora aperti e non definiti, la copia della cartella oltre i cinque anni, per tutto il periodo in cui il credito portato ad esecuzione non sia stato recuperato, in modo da conservarne prova documentale ostensibile, anche a richiesta dei soggetti legittimati, nelle varie fasi di definizione del rapporto, onde poter compiutamente esercitare le prerogative esattoriali.Permane, pertanto, in capo ad Equitalia, l’obbligo di conservare gli atti relativi alle pretese esattoriali, tra i quali assume rilievo principale la cartella di pagamento, con conseguente obbligo di ostensione alla richiesta del contribuente, che solo in tal modo, non essendo trascorso il periodo decennale di prescrizione, potrà esercitare gli strumenti di tutela messi a disposizione dall’ordinamento.
La Quarta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 3011.2015 n. 5410 ha esaminato la vicenda che vede un contribuente aver avanzato istanza di accesso ad una serie di cartelle di pagamento, molte delle quali ancora rientranti nel periodo quinquennale previsto dall’art. 26, co 4, del D.P.R. ... Continua a leggere
Concorsi pubblici: le conseguenze dell'omessa o incompleta indicazione di un titolo di studio in sede di compilazione del modulo

La giurisprudenza non ha mancato di rilevare che l'omessa o incompleta indicazione di un titolo di studio in sede di compilazione del modulo, anche se conseguenza di mera svista dell'istante, determina una vera e propria carenza della domanda, nella parte relativa all'indicazione del titolo in questione, e non una semplice indicazione erronea o imprecisa (da ultimo Cons. Stato, III, 1 febbraio 2010, n. 348) Questo è il principio ribadito dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 27.11.2015 n. 5381 nella quale, inoltre, è stato osservato che, in materia di concorsi finalizzati all'accesso a posti di pubblico impiego, l'esclusione del candidato dal concorso, per mancanza dei requisiti previsti dal bando, non è provvedimento che consegue ad un sub-procedimento avente connotati di autonomia e specialità rispetto all'unico procedimento concorsuale finalizzato alla selezione dei vincitori, sicché l'amministrazione si riserva sempre la facoltà di verificare in capo a ciascun candidato il possesso dei requisiti previsti nel bando. Pertanto, anche l'eventuale evoluzione del procedimento selettivo verso la fase delle prove d'esame, e il superamento delle stesse da parte del candidato, non sono di per sé sintomatici del positivo scrutinio dei requisiti di ammissione, operazione che può essere postergata fino all'approvazione della graduatoria, con la conseguenza che nessun onere di comunicazione di avvio del procedimento può profilarsi, ex art. 7, l. 7 agosto 1990 n. 241, in relazione alla esclusione di un candidato dalla selezione per la riscontrata carenza di un requisito partecipativo (Cons. Stato, sez. V, 17.2.2009, n. 865).
La giurisprudenza non ha mancato di rilevare che l'omessa o incompleta indicazione di un titolo di studio in sede di compilazione del modulo, anche se conseguenza di mera svista dell'istante, determina una vera e propria carenza della domanda, nella parte relativa all'indicazione del titolo in ques ... Continua a leggere
Il giudizio di ottemperanza non può essere proposto da soggetti che non sono stati parte nel processo: il caso dei diplomati di scuola magistrale entro gli anni 2001-2002

Il giudizio di ottemperanza ha la finalità di dare esecuzione alle statuizioni contenute nella sentenza resa all’esito del giudizio di cognizione. Il perimetro, soggettivo e oggettivo, del giudizio di ottemperanza non può essere più ampio di quello del giudizio di cognizione (si v. artt. 112 e seguenti Cod. proc. amm.). Il ricorso per ottemperanza non può, pertanto, essere proposto da soggetti che non sono stati parte del processo di cognizione e conseguentemente, avendo riguardo a quanto rileva in questa sede, non si può utilmente impiegare lo strumento dell’ottemperanza per ottenere una estensione soggettiva del giudicato. Ciò vale anche per il ricorso per chiarimenti, di cui all’art. 112, u.c., in relazione al quale trovano applicazione gli stessi presupposti oggettivi e soggettivi del ricorso per ottemperanza. Sulla base di tale premessa il Consiglio di Stato Sez. VI nella sentenza del 24.11.2015 n. 5333 ha esaminato la fattispecie in virtù della quale il ricorso è stato proposto al fine di ottenere l’estensione degli effetti dell’annullamento disposto con la citata sentenza n. 1973 del 2015 anche a soggetti diversi da coloro che hanno proposto l’impugnazione dell’atto ministeriale e che si trovano nella medesima situazione di quest’ultimi. Più precisamente I ricorrenti hanno conseguito il diploma di scuola magistrale entro gli anni scolastici 2001-2002. Il Consiglio di Stato, con parere dell’11 settembre 2013, n. 3813, reso su ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, ha chiaramente riconosciuto natura di titolo abilitante a tutti gli effetti al diploma magistrale conseguito entro il predetto anno scolastico. Tale parere è stato poi recepito con la decsione di cui al d.P.R. 25 marzo 2014. Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con sentenza 16 aprile 2015, n. 1973, ha affermato che i soggetti in possesso di tale diploma hanno diritto ad esseri inseriti nelle graduatorie provinciali ad esaurimento. Tale sentenza ha, conseguentemente, annullato il decreto n. 235 del 2014 del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Nel presente giudizio, quindi, i ricorrenti chiedono che il giudicato di cui alla predetta sentenza n. 1973 del 2015 venga esteso anche ad essi in quanto essendo stato annullato un atto regolamentare, la sua caducazione deve avere effetti erga omnes. In via subordinata, si chiede che la Sezione fornisca chiarimenti, ai sensi dell’art. 112, ultimo comma, Cod. proc. amm., in ordine alla portata della suddetta sentenza e, in particolare, se essa abbia una portata oggettiva generale ovvero se il giudicato esplichi effetti limitati ai soli ricorrenti in quel giudizio. Il Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile il ricorso evidenziando la mancanza di simmetria soggettiva tra le parti dei processi di cognizione ed esecuzione. Né per pervenire ad una diversa conclusione - conclude il Collegio - può richiamarsi, come fanno i ricorrenti, la natura normativa dell’atto regolamentare, il cui annullamento produrrebbe effetti erga omnes. A prescindere dalla questione relativa alla effettiva natura dell’atto annullato con la sentenza n. 1973 del 2015, in ogni caso, rimane ferma l’inutilizzabilità processuale dello strumento dell’ottemperanza. Non potendosi, si ribadisce, chiedere l’"esecuzione" di un ordine non contenuto nella sentenza della cui "esecuzione" si tratta.
Il giudizio di ottemperanza ha la finalità di dare esecuzione alle statuizioni contenute nella sentenza resa all’esito del giudizio di cognizione. Il perimetro, soggettivo e oggettivo, del giudizio di ottemperanza non può essere più ampio di quello del giudizio di cognizione (si v. artt. 112 e segu ... Continua a leggere
Soppressione di un ente pubblico ed interruzione o successione nel processo amministrativo: il caso delle Agenzie fiscali (dogane e monopoli)

Nell’esaminare la questione dell’interruzione del processo a seguito della soppressione di un ente pubblico, già in passato, il Consiglio di Stato ha rilevato la specificità delle "situazioni, corrispondenti a mero riassetto di un apparato organizzativo necessario della pubblica amministrazione…inrapporto al quale può configurarsi non successione a titolo universale nel senso proprio del termine, ma una successione nel munus: fenomeno di natura pubblicistica, concretizzato nel passaggio di attribuzioni fra amministrazioni pubbliche, con trasferimento della titolarità sia delle strutture burocratiche che dei rapporti amministrativi pendenti ma senza una vera soluzione di continuità e, quindi, senza maturazione dei presupposti dell’evento interruttivo." (Cons. Stato, Sez. VI: sentenza 3 luglio 2014, n. 3369; ordinanza 11 settembre 2014, n. 4630). Sulla base di questa premessa il Consiglio di Stato Sez. VI nella sentenza del 24.11.2015 n. 5329 ha risolto la problematica concreta che vede impugnato un provvedimento adottato nel 1990, prima della modifica dell’assetto organizzativo del Ministero delle finanze, ripartito in Agenzie dotate di personalità giuridica autonoma, con l’attribuzione all’Agenzia delle dogane e dei monopoli della competenza sulla materia cui afferisce il caso in controversia. Il Collegio ha evidenziato che "La fattispecie di successione nel munus si riscontra nel caso in esame, considerato che, ai sensi del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59), le agenzie fiscali (delle entrate, delle dogane e dei monopoli) sono state istituite "Per la gestione delle funzioni esercitate dai dipartimenti delle entrate, delle dogane, del territorio e di quelle connesse svolte da altri uffici del ministero" (delle finanze) e che "Alle agenzie fiscali sono trasferiti i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze che vengono esercitate secondo la disciplina dell’organizzazione interna di ciascuna agenzia." (art. 57)." Di conseguenza la ricorrente non aveva alcun onere di integrare il contraddittorio nei confronti dell’Agenzia delle dogane stante la successione dell’Agenzia delle dogane nella posizione processuale di parte resistente nel giudizio in esame instaurato nei confronti del Ministero delle finanze.
Nell’esaminare la questione dell’interruzione del processo a seguito della soppressione di un ente pubblico, già in passato, il Consiglio di Stato ha rilevato la specificità delle "situazioni, corrispondenti a mero riassetto di un apparato organizzativo necessario della pubblica amministrazione…in ... Continua a leggere