News 9 Giugno 2014 - Area Amministrativa


NORMATIVA

Dichiarazione dei redditi dei politici: non è sufficiente pubblicare il quadro riepilogativo della dichiarazione, on line va la copia dell'ultima dichiarazione con oscuramento dei dati sensibili

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Sull’assolvimento dell’obbligo di pubblicazione di cui all’art. 14, c. 1, lett. f), del d.lgs. n. 33/2013, l'Autorità Anticorruzione con orientamento n. 14/2014 precisa che non è sufficiente la pubblicazione del quadro riepilogativo della dichiarazione dei redditi, tenuto conto che l’art. 2, n. 2),della legge n. 441/1982, a cui la citata lett. f) rinvia, fa espresso riferimento alla copia dell’ultima dichiarazione dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche. Tuttavia, è necessario limitare, con appositi accorgimenti a cura dell’interessato o dell’amministrazione, la pubblicazione dei dati sensibili contenuti nella stessa dichiarazione.

 
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Sull’assolvimento dell’obbligo di pubblicazione di cui all’art. 14, c. 1, lett. f), del d.lgs. n. 33/2013, l'Autorità Anticorruzione con orientamento n. 14/2014 precisa che non è sufficiente la pubblicazione del quadro riepilogativo della dichiarazione dei redditi, tenuto conto che l’art. 2, n. 2), ... Continua a leggere

 

Pensioni e rapporti di lavori dipendenti: l'A.N.AC precisa che non devono essere pubblicati on line in quanto già resi trasparenti attraverso la pubblicazione della dichiarazione dei redditi

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L'A.N.AC chiarisce nell'orientamento n. 13/2014 che tra gli altri incarichi con oneri a carico della finanza pubblica, che devono essere pubblicati ai sensi dell’art. 14, c. 1, lett. e), del d.lgs. n. 33/2013, non rientrano i rapporti di lavoro dipendente e pensionistici, considerato che non si tratta di "incarichi" e tenuto conto che i dati relativi alla posizione lavorativa o pensionistica sono già resi trasparenti attraverso la pubblicazione della dichiarazione dei redditi disposta dall’art. 14, c. 1, lett. f), del d.lgs. n. 33/2013.

 
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Amministrazione Trasparente: tutte le attività svolte in qualità di libero professionista dal titolare di incarico politico vanno pubblicate on line se la spesa grava sulla finanza pubblica

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L'Autorità Anticorruzione con orientamento n. 12/2014 ha chiarito che gli altri incarichi con oneri a carico della finanza pubblica che devono essere pubblicati ai sensi dell’art. 14, c. 1, lett. e), del d.lgs. n. 33/2013 comprendono le attività svolte in qualità di libero professionista dal titolare di incarico politico, laddove la relativa spesa gravi sulla finanza pubblica. Ad esempio, vi rientrano gli incarichi conferiti da parte di amministrazioni statali, Regioni, Province e Comuni, quali difesa in giudizio, consulenza tecnica etc., qualora sia previsto un compenso.

 
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L'Autorità Anticorruzione con orientamento n. 12/2014 ha chiarito che gli altri incarichi con oneri a carico della finanza pubblica che devono essere pubblicati ai sensi dell’art. 14, c. 1, lett. e), del d.lgs. n. 33/2013 comprendono le attività svolte in qualità di libero professionista dal titola ... Continua a leggere

 
GIURISPRUDENZA

Mantenimento in servizio oltre il 65° anno di età: e' sufficientemente motivato un diniego di trattenimento in servizio che si fondi sulla sola valutazione della scarsità delle risorse finanziarie

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 30.5.2014

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L’art. 16, co. 1, del d. lgs. 30 dicembre 1992 n. 503 (nel testo modificato dall’art. 72, co. 7, d. l. 25 giugno 1998 n. 112, conv. in l. 6 agosto 2008 n. 133), recante "Prosecuzione del rapporto di lavoro", prevede "È in facoltà dei dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici di permanere in servizio, con effetto dalla data di entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992, n. 421, per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo per essi previsti. In tal caso è data facoltà all'amministrazione, in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, di trattenere in servizio il dipendente in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal dipendente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell'efficiente andamento dei servizi. La disponibilità al trattenimento va presentata all'amministrazione di appartenenza dai ventiquattro ai dodici mesi precedenti il compimento del limite di età per il collocamento a riposo previsto dal proprio ordinamento. I dipendenti in aspettativa non retribuita che ricoprono cariche elettive esprimono la disponibilità almeno novanta giorni prima del compimento del limite di età per il collocamento a riposo. La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. VI, 24 ottobre 2013 n. 5148; 27 luglio 2011, n. 4501; 24 gennaio 2011, n. 479) ha già più volte affermato che la ratio dell’art. 16 citato è essenzialmente di contenimento finanziario. La disposizione non contempla più un diritto soggettivo alla permanenza in servizio del pubblico dipendente, ma prevede che l’istanza, che egli ha facoltà di presentare, sia valutata discrezionalmente dall’amministrazione (la quale ha facoltà, non obbligo) di accoglierla, e possa trovare accoglimento solo in concreta presenza degli specifici presupposti individuati dalla disposizione, i primi dei quali legati ai profili organizzativi generali dell’amministrazione medesima ("in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali") e i seguenti alla situazione specifica soggettiva e oggettiva del richiedente( " in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti"). E’, quindi, in relazione alle esigenze organizzative e funzionali dell’amministrazione che va incentrata la scelta, non richiedendosi, ove tali esigenze non vengano ravvedute, una speciale esternazione circa la particolare esperienza professionale dell’interessato. Da quanto esposto consegue che le valutazioni di ordine finanziario – ritenute dalla sentenza impugnata insufficienti a sorreggere il diniego di mantenimento in servizio – al contrario ben possono motivare il rigetto dell’istanza dell’interessato al trattenimento. E ciò sia in quanto tali esigenze si connettono pienamente a quelle organizzative e funzionali, che proprio sulla disponibilità finanziaria trovano la propria concreta conformazione; sia in quanto è la ratio stessa della norma (già evidenziata dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato) a richiedere alle singole amministrazioni una valutazione in ordine alle proprie disponibilità economiche, onde definire quelli che sono i migliori e più efficienti assetti organizzativi e far fronte ai compiti ad esse affidati dall’ordinamento. Ne consegue che ben può essere ritenuto sufficientemente motivato un diniego di trattenimento in servizio che si fondi (anche solo) sulla valutazione della scarsità delle risorse finanziarie, ovvero sulla migliore allocazione delle medesime, in luogo della prosecuzione del pagamento del trattamento retributivo, conseguente al trattenimento biennale in servizio. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 30.5.2014

 
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L’art. 16, co. 1, del d. lgs. 30 dicembre 1992 n. 503 (nel testo modificato dall’art. 72, co. 7, d. l. 25 giugno 1998 n. 112, conv. in l. 6 agosto 2008 n. 133), recante "Prosecuzione del rapporto di lavoro", prevede "È in facoltà dei dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economic ... Continua a leggere

 

Revoca della licenza di porto di pistola per uso personale: la presentazione di denunce-querele che evidenzino situazioni di rischio legittimano il provvedimento del prefetto di revoca senza necessità di verificare la veridicità dei fatti

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 30.5.2014

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Il Consiglio di Stato ha annullato la sentenza del TAR che aveva ritenuto illegittimo il provvedimento adottato dal Prefetto di Brindisi di revoca della licenza di porto di pistola per uso personale. L’atto della Prefettura si basa sulla nota della Questura di Brindisi che a sua volta riporta due denunce-querele sporte dal figlio nei confronti del suo genitore, per i reati di minacce ed atti persecutori. La sentenza appellata, tuttavia, ha giudicato illegittimo il provvedimento in quanto dalle allegazioni del ricorrente ha tratto il convincimento che le tali denunce-querele presentate dal figlio siano infondate e non veritiere. A questo scopo si è basato essenzialmente sulle dichiarazioni rese nelle forme di cui all’art. 391-bis c.p.p. (investigazioni difensive ad iniziativa di parte) dalla signora B.G. (la ex moglie dell’appellato) la quale ha smentito di essere stata vittima di maltrattamenti e minacce da parte dell’ex marito, prendendo posizione in favore di quest’ultimo nel contrasto con il comune figlio (l’autore delle querele). In buona sostanza, dalla motivazione della sentenza si evince che secondo il T.A.R. l’autorità di pubblica sicurezza, una volta avuta notizia delle denunce-querele presentate da M.G. contro il padre non avrebbe potuto adottare alcun provvedimento a carico di quest’ultimo, senza avere prima svolto adeguate indagini circa la fondatezza delle querele stesse e la verità dei fatti ivi rappresentati; mentre se lo avesse fatto avrebbe constatato che quelle denunce erano infondate. Il Consiglio di Stato osserva che la decisione del T.A.R. è frutto del fraintendimento della natura e dello scopo dei provvedimenti del genere di quello impugnato, e conseguentemente del tipo di istruttoria che l’autorità di pubblica sicurezza deve svolgere prima di adottarli. In materia vi è giurisprudenza ampiamente consolidata, con riferimento vuoi all’art. 39, t.u.l.p.s. (che concerne il divieto di detenzione di armi) vuoi all’art. 43 (diniego della licenza di porto d’armi) vuoi ancora all’art. 11 (revoca delle licenze di polizia in generale). Prescindendo dai casi nei quali i provvedimenti in questione sono vincolati (es.: condanne penali per determinati reati), il potere ampiamente discrezionale conferito dalla legge all’autorità di p.s. non ha la funzione di sanzionare delitti ovvero comportamenti comunque illeciti, bensì quella di prevenire i sinistri – non necessariamente intenzionali – conseguenti all’uso inappropriato delle armi. Comunemente si ritiene che a giustificare il provvedimento basti una situazione oggettiva di rischio ancorché, in ipotesi, incolpevole o addebitabile ad un soggetto diverso dal proprietario delle armi e titolare delle relative licenze. Nel caso in esame, le due denunce-querele presentate da M.G. contro il padre descrivono una situazione radicata e annosa di grave conflitto per ragioni tanto affettive quanto economiche, e vi si afferma in modo esplicito e circostanziato che il padre del querelante avrebbe espresso minacce di morte. Supposto che il contenuto delle due denunce sia veridico, vi sarebbe materia più che sufficiente per giustificare la revoca del porto d’armi. La casistica giurisprudenziale è univoca in tal senso. E le cronache confermano che in questa materia la prudenza non è mai troppa, tanto sono frequenti i fatti di sangue originati da analoghe situazioni conflittuali persino fra congiunti. La decisione del T.A.R., tuttavia, afferma che l’autorità di p.s., avuta notizia delle due denunce e del loro contenuto, non avrebbe dovuto limitarsi a prenderne atto e a provvedere di conseguenza, ma al contrario avrebbe dovuto aprire un’istruttoria (procedendo anche ad assumere testimonianze) al fine di appurare se quelle denunce fossero o meno veridiche. Questo assunto non può essere condiviso. Atti di denuncia-querela come quelli di cui si discute hanno come destinataria naturale l’autorità giudiziaria penale. E’ compito di quest’ultima valutarne la veridicità e la fondatezza, con gli opportuni strumenti d’indagine, fino a procedere per calunnia contro il denunciante, ove ne sia il caso. Non è invece compito dell’autorità di p.s. nell’esercizio dei poteri inerenti al controllo delle armi, non avendo in quella sede né i mezzi né la competenza per sceverare le ragioni e i torti del conflitto in corso fra i privati interessati. Tanto meno è compito del giudice amministrativo di legittimità. Sicché le ponderose argomentazioni difensive svolte anche in questo grado dall’appellato risultano non tanto infondate quanto non pertinenti nel presente giudizio, come rivolte a dimostrare che nel contenzioso fra l’appellato e il figlio le ragioni sono tutte dalla parte del primo e i torti tutti da quella del secondo (il quale ultimo peraltro non può replicare non essendo parte del giudizio).

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 30.5.2014

 
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Il Consiglio di Stato ha annullato la sentenza del TAR che aveva ritenuto illegittimo il provvedimento adottato dal Prefetto di Brindisi di revoca della licenza di porto di pistola per uso personale. L’atto della Prefettura si basa sulla nota della Questura di Brindisi che a sua volta riporta due d ... Continua a leggere

 

Indennità di buonuscita: in assenza di specifica attribuzione normativa, l’amministrazione pubblica non ha il potere di fissazione di un termine, decorso il quale i soggetti privati decadono dall’esercizio di poteri e facoltà loro riconosciuti dalla legge

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 30.5.2014

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Nella vicenda giunta innanzi alla Sesta Sezione del Consiglio di Stato si controverte della legittimità della delibera di liquidazione dell’indennità di buonuscita a carico dell’ENPAS, nella parte in cui questa ha determinato gli oneri di riscatto in riferimento allo stipendio in godimento al momento della cessazione dal servizio per quiescenza anziché da quello precedente, in godimento al momento di presentazione della domanda. La tesi dell’amministrazione si fonda per un verso, sulla prescrittività della circolare ministeriale del 1966 ed, in particolare, sulla perentorietà del termine del 28 febbraio 1967, indicato per il completamento della documentazione da allegare alla domanda di riscatto; per altro verso, sulla presunzione di conoscenza di circolari dell’amministrazione da parte dei suoi dipendenti, derivante dal mero invio della circolare alla sede di svolgimento della prestazione lavorativa. Quanto a tale ultimo aspetto, il Collegio deve immediatamente rilevare come la "presunzione di conoscenza", indicata dall’appellante amministrazione, risulta priva di base normativa e, ove anche esistesse una norma che ciò preveda (ma tale norma non è stata indicata dall’appellante), quest’ultima sarebbe di dubbia legittimità costituzionale, non essendo manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale della stessa per violazione, quantomeno, degli artt. 24, 113 e 97 Cost. Ne consegue che, in difetto di prova di conoscenza della circolare (e dunque del termine da essa indicato) da parte dell’appellata, l’amministrazione non è legittimata a contestare alla medesima il mancato completamento della documentazione nel termine prescritto e, dunque, l’impossibilità di esame della istanza di riscatto. Ferme le considerazioni ora svolte, il Collegio osserva che è pacifico che – posta la facoltà dei dipendenti pubblici di riscattare ai fini dell’ìndennità di buonuscita determinati periodi di servizio ovvero gli studi universitari – la misura del contributo dovuto è determinato con riferimento alla retribuzione erogata all’atto della domanda, non potendo gravare sul dipendente il tempo del procedimento e, a maggior ragione, gli eventuali ritardi dell’amministrazione (per il caso di specie, v. DM 4 luglio 1966, indicato anche dalla parte appellante). Se è vero che può ritenersi il dipendente tenuto ad allegare la documentazione relativa ai servizi per i quali si chiede il riscatto (ma questo solo ante l. n. 241/1990, posto che l’art. 18 della medesima impone al responsabile del procedimento di acquisire i dati rilevabili da archivi di pubbliche amministrazioni), è altrettanto vero che il difetto di allegazione deve intendersi come fatto impeditivo all’esame della domanda, ma non già della individuazione della data di riferimento per la parametrazione della misura del contributo dovuto. E ciò a prescindere dal dovere dell’amministrazione (ai sensi dell’art. 97 Cost. e della l. n. 241/1990), di indicare all’istante le eventuali integrazioni documentali necessarie ai fini dell’emanazione del provvedimento finale. Infine, occorre osservare che, in assenza di specifica attribuzione normativa, l’amministrazione pubblica non ha il potere di fissazione di un termine, decorso il quale i soggetti privati decadono dall’esercizio di poteri e facoltà loro riconosciuti dalla legge. D’altra parte, la circolare ministeriale n. 454/1966, non indica il termine del 28 febbraio 1967 come perentorio, ma avverte solo che "le domande che non perverranno debitamente documentate e completamente istruite" . . ."non potranno essere esaminate". La circolare, quindi, indica un impedimento alla conclusione procedimentale, ma non introduce alcuna decadenza dalla facoltà di richiedere il riscatto, né, tantomeno, individua al momento del completamento della documentazione il dies di riferimento per il computo del contributo dovuto, da parametrare alla misura della retribuzione a quella data erogata.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 30.5.2014

 
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Nella vicenda giunta innanzi alla Sesta Sezione del Consiglio di Stato si controverte della legittimità della delibera di liquidazione dell’indennità di buonuscita a carico dell’ENPAS, nella parte in cui questa ha determinato gli oneri di riscatto in riferimento allo stipendio in godimento al momen ... Continua a leggere

 

Risarcimento dei danni per i ritardi della P.A.: in caso di omessa tempestiva impugnazione del provvedimento, il pregiudizio subito per il sopravvenire di una nuova normativa non può essere imputato all'amministrazione

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV del 29.5.2014

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In base al vecchio brocardo "diligenti bus aura succurrunt" deve ricordarsi la regola della non rilevanza di un legittimo nocumento per il sopravvenire di una nuova normativa per la mancata impugnazione del provvedimento o comunque con la tempestiva utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall'ordinamento, per cui l'omessa attivazione degli strumenti di tutela giurisdizionale costituisce una condotta valutabile sia in sede di merito. Del resto analogamente la giurisprudenza ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza di un pregiudizio ha escluso la rilevanza risarcitoria dei danni evitabili ex art. 30, comma 3, c.p.a. e dei principi di cui all'art. 1227, comma 2, c.c. (cfr. da ultimo Consiglio di Stato sez. IV 26 marzo 2012 n. 1750; Consiglio di Stato sez. V 09 ottobre 2013 n. 4968). Si deve poi considerare che qui non vi è alcun reale elemento, neanche di carattere indiziario per poter ritenere che i ritardi siano il frutto di sviatori ed indebiti comportamenti degli uffici e non invece il frutto di imprecisioni ed approssimazioni nella redazione dei progetti e degli atti da parte della stessa appellante. Per continuare nella lettura della sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Le dichiarazioni sostitutive di notorietà, della parte interessata e di terzi, non hanno alcun "valore" certificativo o probatorio nei confronti della pubblica amministrazione e non possono avere alcuna rilevanza, neppure indiziaria, nel processo civile o amministrativo

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV del 29.5.2014

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Ai sensi dell’art. 63,I° co. e dell’art. 64,I co. del c.p.a. spetta al ricorrente, l'onere della prova che sono nella sua piena disponibilità (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 10/01/2014 n. 46. Consiglio di Stato sez. III 13/09/2013 n. 4546). Nello specifico poi, la prova circa il tempo di ultimazione delle opere edilizie è stato sempre posto sul privato, e non sull'Amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto (cfr. infra multa Consiglio di Stato Sez. VI 20 dicembre 2013 n. 6159; Consiglio di Stato sez. V 20 agosto 2013 n. 4182; Consiglio di Stato sez. V 15 luglio 2013 n. 3834; Consiglio di Stato Sez. VI 01 febbraio 2013 n. 631). Per questo deve poi sottolinearsi l’assoluta inconferenza delle dichiarazioni difensive del Comune che in primo grado avrebbe dichiarato di non essere in grado di opporre prove contrarie alle autodichiarazioni dell’appellante. Ciò anche perché nessun rilievo probatorio possono peraltro avere le dichiarazioni sostitutive di notorietà, né della parte interessata e né di terzi , le quali non hanno alcun "valore" certificativo o probatorio nei confronti della pubblica amministrazione e non possono avere alcuna rilevanza, neppure indiziaria, nel processo civile o amministrativo (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 27/05/2010 n.3378; Consiglio di Stato sez. IV, 3 Agosto 2011 n. 4641; da Consiglio di Stato, Sez. IV 21 Ottobre 2013 n. 5109; Consiglio di Stato sez. IV 15 gennaio 2013 n. 211; Consiglio di Stato sez. IV 27/12/2011 n.6861; Cass. Civ., sez. III, 28 aprile 2010 n. 10191) In difetto di tali prove, resta infatti integro il potere dell'amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso ed il suo dovere di irrogare la sanzione prescritta (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 23/01/2013 n.414). Ne caso in esame poi la dichiarazione sostitutiva era assolutamente inidonea a dimostrare della risalenza dei manufatti ad un’epoca precedente il 1940, perché era in ogni caso relativa ad un predetto rustico in quanto essendo stato realizzato senza titolo prima dell'entrata in vigore della legge n. 10 del 1977, avrebbe comunque dovuto esser oggetto della legge 28 febbraio 1985 n. 47 ai sensi degli artt. 33 e 40, primo comma.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV del 29.5.2014

 
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Ai sensi dell’art. 63,I° co. e dell’art. 64,I co. del c.p.a. spetta al ricorrente, l'onere della prova che sono nella sua piena disponibilità (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 10/01/2014 n. 46. Consiglio di Stato sez. III 13/09/2013 n. 4546). Nello specifico poi, la prova circa il tempo di ultimazi ... Continua a leggere

 

Giudizio elettorale: non è consentito al giudice amministrativo di procedere autonomamente, in mancanza di una puntuale censura, alla correzione di tutti gli errori, ancorché materiali, che possano emergere dal giudizio

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 28.5.2014

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Come anche recentemente ribadito dalla Quinta Sezione (17 febbraio 2014, n. 755), nel giudizio elettorale il giudice amministrativo non esercita una giurisdizione di diritto obiettivo e non può rieffettuare alcun calcolo, se non in sede di esame di censure ritualmente proposte. Per quanto i giudizi elettorali rientrino nella giurisdizione tradizionalmente definita "estesa al merito", nella quale cioè al giudice amministrativo sono attribuiti poteri di intervento aggiuntivi ed ulteriori rispetto a quello puramente demolitorio, che è connaturale alla giurisdizione amministrativa di legittimità (Cons. Stato, sez. V, 29 ottobre 2012, n. 5504), tuttavia essi, oltre a non presentarsi come espressione di una giurisdizione di diritto obiettivo, non concernono neppure la tutela di diritti soggettivi perfetti, basandosi piuttosto, anche al fine di contemperare tutti gli interessi in conflitto, sul principio di certezza dei rapporti di diritto pubblico, con la conseguenza che i poteri esercitabili dal giudice sono necessariamente circoscritti nell'ambito costituito dall'oggetto del giudizio, così come delimitato dal ricorrente attraverso la tempestiva indicazione degli specifici vizi da cui sono affette le operazioni elettorali e, in particolare, dell'atto di proclamazione degli eletti che le conclude (Cons. Stato, sez. V, 28 settembre 2005, n. 5201; 6 luglio 2002, n. 3735). Poiché pertanto non è consentito al giudice amministrativo di procedere autonomamente, in mancanza di una puntuale censura, alla correzione di tutti gli errori, ancorché materiali, che possano emergere dal giudizio (Cons. St., sez. V, 6 luglio 2002, n. 3735), non avendo l’originario ricorrente, all’esito della verificazione disposta, proposto motivi aggiunti (malgrado la espressa riserva formulata nel ricorso introduttivo del giudizio), onde estendere le censure di illegittimità del verbale di proclamazione degli eletti anche nella parte in cui i voti spettanti alla lista San Nicandro 2.0 nella sezione elettorale n. 9 erano in realtà 33 e non 32, il tribunale non avrebbe potuto autonomamente attribuire tale ulteriore voto, mancando al riguardo una specifica censura ed una corrispondente specifica domanda giudiziale (né potendo a tanto essere sufficiente quella contenuta nel ricorso introduttivo del giudizio).

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 28.5.2014

 
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Come anche recentemente ribadito dalla Quinta Sezione (17 febbraio 2014, n. 755), nel giudizio elettorale il giudice amministrativo non esercita una giurisdizione di diritto obiettivo e non può rieffettuare alcun calcolo, se non in sede di esame di censure ritualmente proposte. Per quanto i giudiz ... Continua a leggere

 

Attività di insegnante nel doposcuola: il servizio di doposcuola svolto dall’insegnante a titolo precario non integra il requisito di insegnamento corrispondente a posto di ruolo, e pertanto non costituisce requisito per l’ammissione al concorso riservato di cui all’art. 12 l. n. 417/1989, per l’immissione nei ruoli magistrali degli insegnanti della scuola elementare

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

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Secondo un consolidato orientamento del Consiglio di Stato (cfr. da ultimo C.d.S., sez. VI, 23 dicembre 2010, n. 9334, da cui è tratto il passaggio di seguito riportato), "non sono riconducibili nell'area prescrittiva del richiamato art. 2, comma quarto, della legge n. 124 del 1999 e dell'ordinanzaministeriale di essa attuativa, servizi resi presso le istituzione scolastiche, e però con compiti non riconducibili alle ore curriculari e agli ordinari programmi di insegnamento. Fra questi rientrano le c.d. attività parascolastiche, che hanno funzione di supporto, di assistenza, sorveglianza e ricreazione degli allievi. Quanto precede è del resto reso significativo dalla lettera dell'art. 2, comma quarto, della legge n. 124 del 1999, ove è precisato che "il servizio deve essere prestato per insegnamenti corrispondenti a posti di ruolo o relative classi di concorso con il possesso dello specifico titolo di studio richiesto". Si tratta di previsione che trova la sua ragione d'essere nella specifica funzione assegnata alle graduatorie permanenti di assicurare la provvista di personale da nominare in ruolo nella misura del 50% dei posti che si rendano annualmente disponibili. Il personale inserito nelle graduatorie permanenti deve aver quindi reso un adeguato periodo di "effettivo" insegnamento ai fini dell'acquisizione dell'affinamento e dell'esperienza professionale, che è elevato dalla norma a non eludibile presupposto per lo stabile conferimento dei compiti di docente di ruolo. Il carattere eccezionale della disciplina sull'indizione della speciale sessione di abilitazione preclude, inoltre, ogni applicazione estensiva oltre le ipotesi normativamente previste (cfr. in fattispecie analoghe Cons. Stato, VI, 21 marzo 2006, n. 1481; 10 marzo 2004, n. 1211; 7 agosto 2003, n. 4560)" (così la sentenza n. 9334/2010 cit.). Questo Consiglio, in altre parole, ha già chiarito, con giurisprudenza dalla quale non vi è motivo di discostarsi per il caso in esame, che dalla normativa citata risulta evidente la necessità di un servizio di "effettivo insegnamento", il quale si deve riferire ad insegnamenti corrispondenti a posti di ruolo o classi di concorso. E tale principio è stato affermato anche con specifico riferimento all'attività di insegnante nel doposcuola, statuendosi che in presenza di un servizio siffatto non può ritenersi integrato il requisito di cui si tratta, "non essendovi in tal caso un insegnamento corrispondente a posto di ruolo" (C.d.S., VI, 18 agosto 2010, n. 5877). Nel senso della non valutabilità ai fini predetti dell’insegnamento nel doposcuola, per la ragione indicata, è dunque "la giurisprudenza di questo Consesso, formatasi sia in relazione al concorso riservato di cui alla l. n. 124/1999 (di cui è processo) (cfr. Cons. St., sez. VI, 10 marzo 2004 n.1212: <>), sia in relazione all’analoga formulazione dell’art. 2, co. 10, lett. b), in combinato con l’art. 11, commi 1 e 3 bis, d.l. 6 novembre 1989, n. 357, conv. nella l. 27 dicembre 1989, n. 417 (cfr. Cons. St., sez. VI, 3 giugno 1998 n. 899: <>)" (così C.d.S., VI, 30 gennaio 2007, n. 344). Per scaricare gratuitamente la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

 
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Secondo un consolidato orientamento del Consiglio di Stato (cfr. da ultimo C.d.S., sez. VI, 23 dicembre 2010, n. 9334, da cui è tratto il passaggio di seguito riportato), "non sono riconducibili nell'area prescrittiva del richiamato art. 2, comma quarto, della legge n. 124 del 1999 e dell'ordinanza ... Continua a leggere

 

Demansionamento del lavoratore: il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione del danneggiato sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

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Il Consiglio di Stato, Sezione V, nel giudizio in esame ha ribadito i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa e dalla Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da illecita attività provvedimentale dell’amministrazione (cfr. ex plurimis e da ultimo, Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2013, n. 23993; sez. un., 23 marzo 2011, n. 6594; sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576 e 582; Cons. Stato, ad. plen., 19 aprile 2013, n. 7; ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3; sez. III, 19 marzo 2014, n. 1357; sez. V, 17 gennaio 2014, n. 183; sez. V, 31 ottobre 2013, n. 5247; sez. V, 21 giugno 2013, n. 3408; sez. III, 30 maggio 2012, n. 3245; sez. IV, 22 maggio 2012, n. 2974; sez. IV, 2 aprile 2012, n. 1957; sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482; cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), in forza dei quali: a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e che non consente di configurare la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius; b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta, evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza), grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto l’illegittimo esercizio della funzione pubblica; c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della p.a.; d) al di fuori del settore degli appalti (governato da autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di rilevante complessità del fatto, della influenza determinante dei comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da successiva declaratoria di incostituzionalità della norma applicata dall’amministrazione; e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non); il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto; al contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale; in quest’ottica, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano — ad una valutazione ex ante — del tutto inverosimili. Per quanto poi concerne l’aspetto che qui segnatamente rileva, ossia il nesso causale tra l’illecito e il danno subito, va parimenti rimarcato che l’onnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., pur nelle ipotesi in cui consegue alla violazione di diritti inviolabili della persona (ad es. il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.), costituisce pur sempre un’ipotesi di danno-conseguenza, il cui ristoro è in concreto possibile solo a seguito dell’integrale allegazione e prova in ordine alla sua consistenza materiale ed in ordine alla sua riferibilità eziologica alla condotta del soggetto asseritamente danneggiante. Ne consegue, quindi, che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, da parte di colui che si pretende danneggiato, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. In una con i principi elaborati dalle sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. le celebri sentenze gemelle sez. un., nn. 26973, 26974, 26975 del 2008, successivamente si vedano gli affinamenti elaborati da Cass. civ., sez. III, 2228 del 2012) e dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (n. 7 del 2013 cit.), si rileva che mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno non patrimoniale - da intendersi come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul "fare areddittuale" del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendo il soggetto medesimo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, potendo peraltro anche in tale evenienza assumere precipuo rilievo la prova per presunzioni; ne discende che il prestatore di lavoro, che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di c.d. danno biologico), subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, posto che tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo e che pertanto non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, nel mentre incombe al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base all’anzidetta regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ. (.....) La giurisprudenza da tempo assegna ai provvedimenti cautelari emanati dal giudice amministrativo la funzione di escludere o, comunque, di mitigare il danno insito nel provvedimento impugnato, posto che la tutela cautelare è diretta alla temporanea salvaguardia della posizione del deducente, onde consentirgli - qualora risultasse vincitore nel merito - di trarre l’utilità sostanziale offerta dalla decisione, producendo in via temporalmente anticipata nella sua sfera giuridica benefici omogenei e comunque non superiori rispetto a quelle che la sentenza potrà procurare (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 27 marzo 1995 n. 191); e, proprio in dipendenza di ciò, e anche a prescindere dall’espressa statuizione al riguardo contenuta dal susseguentemente intervenuto art. 30, cod. proc. amm., la medesima giurisprudenza ha ricavato dai principi contenuti dall’art. 1227, secondo comma, cod. civ., la regola della possibile non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli strumenti di tutela cautelare previsti dall’ordinamento (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 9 ottobre 2013 n. 4968). Nel caso in esame il demansionamento lamentato dal ricorrente non è in fatto avvenuto proprio poiché il tempestivo accesso da lui fatto allo strumento di tutela cautelare ha impedito l’assunzione da parte sua dei compiti non rispondenti alla qualifica ricoperta, tanto che il suo rientro in servizio è incontestabilmente avvenuto nella stessa posizione occupata al momento del primo provvedimento di rimozione illegittimamente emanato nei suoi confronti. In questo modo, pertanto, l’intervento del giudice adito in primo grado ha fatto sì che il prestigio personale e professionale del ricorrente non fossero vulnerati anche nel lasso di tempo intercorrente tra la proposizione dei ricorsi e la loro definizione nel merito: e proprio tale circostanza rende dunque inaccoglibile una domanda risarcitoria che ha per oggetto beni della vita che si intendevano per certo colpire mediante una sequela di azioni amministrative illegittime; beni che, peraltro, non sono stati di fatto compromessi nella loro integrità proprio perché gli effetti di tali azioni sono stati repentinamente caducati ope iudicis. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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Il Consiglio di Stato, Sezione V, nel giudizio in esame ha ribadito i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa e dalla Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da illecita attività provvedimentale dell’amministrazione (cfr. ex plurimis e da ultimo, Cass. civ., sez. III ... Continua a leggere

 

Concorsi pubblici: la problematica dell'equipollenza dei titoli professionali e l'esclusione in particolare per quella di "infermiere generico" con quella dell’ "ausiliario – operatore socio assistenziale" (ASA o OSA) ovvero dell’OTA, dell’OSS o dell’OSSC

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Il Consiglio di Stato ha ribadito nella sentenza in esame che il bando costituisce la lex specialis del pubblico concorso, da interpretare in termini strettamente letterali, con la conseguenza che le regole in esso contenute vincolano rigidamente l’operato dell'Amministrazione, obbligata alla loroapplicazione senza alcun margine di discrezionalità: e ciò in forza sia dei principi dell’affidamento e di tutela della parità di trattamento tra i concorrenti, la quale sarebbe per certo pregiudicata ove si consentisse la modifica delle regole di gara cristallizzate nella lex specialis medesima, sia del più generale principio che vieta la disapplicazione del bando quale atto con cui l’amministrazione si è originariamente auto vincolata nell’esercizio delle potestà connesse alla conduzione della procedura selettiva (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 10 aprile 2013 n. 1969). Da ciò discende pertanto discende che le clausole del bando di concorso per l’accesso al pubblico impiego non possono essere assoggettate a procedimento ermeneutico in funzione integrativa, diretto ad evidenziare in esse pretesi significati impliciti o inespressi (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 19 novembre 2012 n. 5825), ma vanno interpretate secondo il significato immediatamente evincibile dal tenore letterale della parole e dalla loro connessione (cfr. art. 12, primo comma, disp. prel. cod. civ.). Soltanto qualora il dato testuale presenti evidenti ambiguità deve essere prescelto dall’interprete il significato più favorevole all’ammissione del candidato alle prove, essendo conforme al pubblico interesse - e sempreché non si oppongano a ciò interessi pubblici diversi e di maggior rilievo - che alla procedura selettiva partecipi il più elevato numero di candidati (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 10 novembre 2003 n.7134). Nel caso di specie, tuttavia, il su riportato punto 3, lett. g) del bando concorsuale, laddove inderogabilmente imponeva ai partecipanti di possedere il titolo di "ausiliario socio-assistenziale" senza contemplare equipollenze o deroghe al riguardo, introduceva nella lex specialis una disposizione normativa del tutto inequivoca nel suo significato letterale e, perciò, di stretta interpretazione, sia per la commissione giudicatrice, sia per questo stesso giudice, con conseguente impossibilità per l’interprete di utilizzare al riguardo le tecniche ermeneutiche dell’estensione e dell’analogia (cfr. artt. 14 e 12 disp. prel. cod. civ.). Per il vero, la giurisprudenza afferma pure che, nell’evenienza di mancata specificazione di equipollenza tra titoli professionali richiesti per l’ammissione al pubblico concorso - e, quindi, di univoca ed espressa volontà della P.A. di limitare l’accesso ai soli titoli indicati nella lex specialis - le previsioni del bando medesimo debbano essere integrate dall’interprete nel senso di consentire la partecipazione per i possessori di titoli equipollenti ex lege: ma ciò, per l’appunto, avviene nelle sole ipotesi in cui si rinvengano nell’ordinamento norme di legge cc.dd. "autoesecutive" , le quali puntualmente e direttamente sanciscano l’equipollenza tra i titoli anzidetti, e non necessitino pertanto per la loro concreta applicazione dell’intermediazione di altre disposizioni normative dello stesso grado o di grado subordinato, ovvero di provvedimenti amministrativi (così Cons. Stato, Sez. V, 3 giugno 2010 n.3484). Sul punto necessita pertanto un’indagine sulla figura dell’ "infermiere generico" e sulle figure professionali ad esso contigue sviluppatesi nel tempo, al fine di acclarare se nell’ordinamento sussiste tra di esse un’equiparazione ex lege nel senso ora indicato. Come correttamente ha puntualizzato la stessa appellante, la disciplina della figura professionale dell’ "infermiere generico" si rinviene ab initio nella L. 23 giugno 1924 n. 1267 sulle arti ausiliarie delle professioni sanitarie e nel suo regolamento di esecuzione approvato con R.D. 31 maggio 1928 n. 334; essa peraltro è stata resa ben distinta e resa subordinata rispetto a quella dell’infermiere professionale dapprima per effetto dell’art. 4 del R.D. 2 maggio 1940 n. 100 (cfr. ivi: "L’attività degli infermieri generici dev’essere limitata alle seguenti mansioni, per prescrizione del medico, nell'ambito ospedaliero, sotto la responsabilità dell’infermiera professionale …") e, poi, per effetto dell’art. 6 del D.P.R. 14 marzo 1974 n. 225 (cfr. ivi: "L’infermiere generico coadiuva l’infermiere professionale in tutte le sue attività e su prescrizione del medico provvede direttamente alle seguenti operazioni …"). La figura dell’infermiere generico è, ormai da tempo, divenuta di fatto "ad esaurimento", come a ragione ha denotato dalla stessa appellante. Infatti, per effetto della progressiva attuazione all’interno del nostro ordinamento dell’Accordo europeo sull’istruzione e formazione delle infermiere, adottato a Strasburgo il 25 ottobre 1967 e reso operante nel nostro ordinamento con L.15 novembre 1973 n. 795, l’accesso alla qualifica di "infermiere professionale" è stato riservato ai soli titolari di diploma di laurea triennale in scienze infermieristiche, ferma peraltro restando l’equipollenza con la laurea medesima dei diplomi di "infermiere professionale" conseguiti nel precedente ordinamento presso le scuole infermieristiche già istituite presso gli enti ospedalieri (cfr. al riguardo la L. 19 novembre 1990 n. 341, l’art. 6, comma 3, del D.L.vo 30 dicembre 1992 n. 504 e succ. mod., l’art. 4 della L. 26 febbraio 1999 n. 42 nonché il D.M. 14 settembre 1994 n. 73). Tali scuole hanno quindi proseguito la loro attività secondo i programmi approvati ai sensi della L. 29 ottobre 1954 n. 1046 con D.M. 15 febbraio 1972 soltanto per la formazione degli infermieri generici, la cui utilizzazione nel contesto delle strutture del Servizio sanitario nazionale è progressivamente risultata recessiva, anche e soprattutto in dipendenza dell’incentivazione data dal legislatore alla riqualificazione del titolo di infermiere generico in quello di infermiere professionale mediante la frequenza di appositi corsi organizzati dalle Regioni ovvero presso le Università (cfr., rispettivamente, la L. 3 giugno 1980 n. 243, nonché l’art. 80, ultimo comma, della L. 11 luglio 1980 n. 312) e, da ultimo, dalla soppressione delle scuole anzidette disposta in via generale dall’art. 3 della predetta L. 243 del 1980. Nell’ambito personale non medico, è stata quindi istituita e collocata in posizione inferiore rispetto a quella dell’infermiere professionale una nuove figura di operatori professionali: l’ "operatore tecnico assistenziale" (OTA), istituito per effetto dell’art. 40, comma 3, del D.P.R. 28 novembre 1990 n. 384, con percorso formativo approvato con D.M. 26 luglio 1991 n.295 e affidato alle Regioni mediante corsi professionali organizzati ai sensi dell’art. 14 della L. 21 dicembre 1978 n. 845 per il tramite delle aziende sanitarie locali (cfr. art. 2 D.M. 295 cit.). Ai sensi del mansionario allegato al D.P.R. 384 del 1990, l’OTA svolge la propria attività sia all’interno delle strutture sanitarie, pubbliche che private coadiuvando l’infermiere professionale in tutte le attività assistenziali, dirette ed indirette, ed assicurando anche prestazioni di natura domestico alberghiera relative alla degenza, il trasporto dei materiali e attività igienico-sanitarie Inoltre, su prescrizione assicura interventi di natura assistenziale agli utenti direttamente per le attività che gli competono. Nel contempo, il riordino del sistema assistenziale pubblico e privato introdotto dalla L. 8 novembre 2000 n. 328 e dal D.L.vo 4 maggio 2001 n. 207 nonché dalla relativa legislazione regionale di attuazione e dalla sua separazione per effetto del D.M. 8 agosto 1985 con le strutture proprie del Servizio sanitario nazionale (ma comunque con esse correlato in sede di distretto socio sanitario: cfr. artt. 3-quater e 3-quinquies del D.L.vo 20 dicembre 1992 n. 502, aggiunti per effetto dell’art. 3, comma 1, del D.L.vo 19 giugno 1999 n. 229) ha parimenti favorito l’istituzione di nuove figure professionali operanti nelle strutture assistenziali pubbliche e private accreditate: e ciò in evoluzione a quella, risalente nel tempo, dell’ "ausiliario socio-assistenziale" (ASA), poi correntemente denominato "operatore socio-assistenziale" (OSA), istituito ab origine nell’ambito sanitario con D.M. 10 febbraio 1984 quale figura "nuova atipica" o di "dubbia iscrizione" nei ruoli del personale del S.S.N. ai sensi dell’art. 1, quarto comma, del D.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761 ma ben presto diffusosi rapidamente nelle strutture pubbliche e private accreditate con mansioni di assistenza non infermieristica per le persone anziane ivi ospitate. Si tratta, in particolare, dell’ "Operatore socio-sanitario" (OSS), istituito per effetto dell’art. 3-octies del D.L.vo 502 del 1992 come introdotto dall’art. 3, comma 1, del D.L.vo 19 giugno 1999 n. 229 e modificato dall’art. 8, comma 3, lettera e), del D.L.vo 28 luglio 2000 n. 254. Il percorso formativo di tale figura professionale è stato disciplinato con provvedimento dd. 22 febbraio 2001 adottato in sede di Conferenza permanente Stato – Regioni. La figura medesima riunisce la professionalità dell’operatore assistenziale con nozioni sanitarie di base proprie dell’OTA; essa – anzi - solitamente proviene dall’evoluzione formativa dell’OTA estesa anche all’ambito socio-assistenziale. Tale personale, dopo aver completato una specifica formazione professionale organizzata dalle Regioni, svolge attività indirizzata all’assistenza diretta e di supporto all’utente sia ricoverato che presso il suo domicilio o presso strutture residenziali pubbliche o private, su indicazione del personale medico e infermieristico professionale. Ulteriore evoluzione dell’OSS è l’ "Operatore socio-sanitario complementare" (OSSC), figura sorta per effetto dell’art.1 del D.L. 12 novembre 2001 n. 402, convertito, con modificazioni, dalla L. 8 gennaio 2002 n.1, che conferma le disposizioni di cui all’anzidetto provvedimento della Conferenza Stato – Regioni e che prevede la stessa procedura per disciplinare la formazione complementare in assistenza sanitaria al fine di consentire all’OSS ulteriormente formato di collaborare con l’infermiere o con l’ostetrica e di svolgere alcune attività assistenziali in base all’organizzazione dell’unità funzionale di appartenenza e conformemente alle direttive dell’assistenza infermieristica o ostetrica, o comunque sotto la supervisione di tali figure sanitarie non mediche. Orbene, avuto riguardo a tutto ciò, la disamina dell’ordinamento consente di acclarare che nessuna disposizione di legge sancisce equiparazioni di sorta tra la figura professionale dell’ "infermiere generico" con quella dell’ "ausiliario – operatore socio assistenziale" (ASA o OSA) ovvero con quella dell’OTA, dell’OSS o dell’OSSC: e, in conseguenza di ciò, per l’interprete non risultava possibile all’epoca dei fatti di causa - né risulta possibile a tutt’oggi - integrare le previsioni del bando concorsuale che richieda quale requisito di partecipazione il diploma ASA (OSA), ovvero OTA, o OSS o OSSC nel senso di consentire anche ai titolari del diploma di "infermiere generico" di partecipare al relativo concorso. Essendo quindi il giudizio di equiparabilità dei relativi percorsi formativi devoluto al discrezionale apprezzamento dell’amministrazione che bandisce il concorso, avuto riguardo - anche, e soprattutto - alle proprie concrete esigenze assistenziali, ne consegue che la mancata considerazione nella lex specialis delle aree di sovrapposizione tra le competenze proprie dell’ "infermiere generico" con quelle proprie delle predette nuove figure di operatori socio-assistenziali può, ove del caso, legittimare l’ "infermiere generico" medesimo ad impugnare sul punto la "lex specialis" anzidetta, richiamandosi anche alla difformità della determinazione attuale della P.A. rispetto a quelle pregresse assunte in senso eventualmente diverso, ma non a chiedere al giudice amministrativo – in difetto di tale onere del deducente medesimo – di espletare al riguardo il proprio sindacato sulla clausola del bando non impugnata. Deve dunque per tutto ciò concludersi nel senso che il giudice di primo grado ha rettamente dichiarato inammissibili i tre primi motivi di ricorso ivi proposti. Va soggiunto che, come è ben noto, il giudice amministrativo ben può interpretare nel suo insieme il contenuto del ricorso innanzi a lui proposto, in modo da poter addivenire - sia pure attraverso un’operazione più o meno complessa d'interpretazione del suo testo, alla precisa individuazione del bene giuridico cui l’interessato tende e le ragioni a fondamento della pretesa (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 20 agosto 2013 n. 4188), sempreché con tale operazione ermeneutica il giudice non si sostituisca al richiedente (cfr. ibidem): e, in tal senso, l’interpretazione costantemente data da questo giudice è nel senso dell’insufficienza dell’utilizzo delle mere formule di stile (come, per l’appunto, quella genericamente riferita ad "ogni atto presupposto, connesso e consequenziale", nella specie usata nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado) per affermare che si era voluto espressamente chiedere l’annullamento di un determinato atto (cfr. sul punto, ad es., la già citata sentenza di Cons. Stato, Sez. VI, n. 4998 del 2011), soprattutto allorquando non sono state formulate puntuali censure su di esso. Per scaricare la sentenza clicca su "Accedi al Provvedimento".

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Il Consiglio di Stato ha ribadito nella sentenza in esame che il bando costituisce la lex specialis del pubblico concorso, da interpretare in termini strettamente letterali, con la conseguenza che le regole in esso contenute vincolano rigidamente l’operato dell'Amministrazione, obbligata alla loro ... Continua a leggere

 

Concorsi nella P.A.: rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo non solo le controversie in materia di concorsi pubblici, ma anche quelle in materia di concorsi interni e procedure di promozione

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

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La Corte di Cassazione a sezioni unite (cfr., fra le tante, le sentenze 6 maggio 2013, n. 10401; 11 aprile 2012 n. 5699; 3 marzo 2010 n. 5024), ha chiarito che i concorsi c.d. interni, interamente riservati al personale dipendente ma finalizzati all’accesso del personale a qualifiche superiori, sono annoverabili tra le procedure concorsuali per le quali l’art. 63 comma 4 del d. lgs. n. 165 del 2001 riconosce la giurisdizione del giudice amministrativo; deve pertanto ritenersi che tale norma quando riserva alla giurisdizione del giudice amministrativo "le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni", faccia riferimento non solo alle procedure concorsuali strumentali alla costituzione, per la prima volta, del rapporto di lavoro, ma anche alle prove selettive dirette a permettere l’accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore, con la conseguenza che rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo non solo le controversie in materia di concorsi pubblici, ma anche quelle in materia di concorsi interni e procedure di promozione. Invero, il passaggio ad una nuova fascia funzionale superiore, all’esito del concorso interno, comporta l’accesso ad un nuovo e diverso posto di lavoro la cui fattispecie è sostanzialmente equiparabile alle ipotesi di "assunzione" presso la p.a. prevista dall’art. 63, co. 4 cit. Per continuare nella lettura della sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

 
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La Corte di Cassazione a sezioni unite (cfr., fra le tante, le sentenze 6 maggio 2013, n. 10401; 11 aprile 2012 n. 5699; 3 marzo 2010 n. 5024), ha chiarito che i concorsi c.d. interni, interamente riservati al personale dipendente ma finalizzati all’accesso del personale a qualifiche superiori, son ... Continua a leggere

 

"Con salvezza dei diritti dei terzi": sulla clausola di stile utilizzata nei provvedimenti il Consiglio di Stato precisa che essa non esclude che già in sede di procedimento amministrativo debba aversi riguardo alle situazioni di contrasto tra privati e ove possibile consentire accomodamenti e soluzioni

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

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Sulla clausola "con salvezza del diritto dei terzi", la Quinta Sezione del Consiglio di Stato precisa che normalmente apposta agli atti autorizzatori, alla stregua di clausola di stile, al di là delle diatribe dottrinarie sull’effettiva portata, seppure implichi sicuramente la irrilevanza della conformità dell’atto dal punto di vista pubblicistico nei rapporti tra privati, la cui tutela è assicurata dal diritto ad ottenere la tutela ripristinatoria (invero, la clausola "fatti salvi i diritti dei terzi", da un punto di vista generale e secondo l’interpretazione dell’atto amministrativo alla stregua dei canoni civilistici, potrebbe operare addirittura quale condizione risolutiva dell’atto amministrativo espansivo di facoltà dei privati, comportandone ipso iure l’inefficacia, ove la lesione del diritto dei terzi sia accertata da sentenza passata in giudicato), non esclude che già in sede di procedimento amministrativo debba aversi riguardo alle situazioni di contrasto tra privati e ove possibile consentire accomodamenti e soluzioni, ove gli interessi privati contrapposti vengano in rilievo e siano portati a conoscenza dell’amministrazione. Invero, in base al principio di legalità che sottende l’attività della pubblica amministrazione, non può essere consentito e rimesso esclusivamente alla delibazione giurisdizionale, la risoluzione e composizione degli interessi privati che vengano ad essere coinvolti da un’attività della pubblica amministrazione in astratto conforme a legge. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

 
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Sulla clausola "con salvezza del diritto dei terzi", la Quinta Sezione del Consiglio di Stato precisa che normalmente apposta agli atti autorizzatori, alla stregua di clausola di stile, al di là delle diatribe dottrinarie sull’effettiva portata, seppure implichi sicuramente la irrilevanza della con ... Continua a leggere

 
PROVVEDIMENTI REGIONALI

Accesso ai documenti: nessuna legittimazione alle organizzazione sindacali per la tutela degli interessi propri dei singoli associati, ma solo per la salvaguardia dell'interesse indifferenziato delle categorie rappresentate

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del TAR Emilia Romagna Parma Sez. I

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Costituisce principio pacifico in giurisprudenza (da ultimo ribadito da questa Sezione con sentenza n. 82/2014) che ai fini dell’accesso alla documentazione amministrativa sia necessario "un "interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" e che "non sono ammissibili istanze di accesso, preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni", essendo tale controllo estraneo alle finalità, perseguite attraverso l'istituto di cui trattasi (artt. 22, commi 3, 1 lettera b e 24, comma 3 L. n. 241/90 cit.)" (Cons. Stato, Sez. VI, 20 novembre 2013, n. 5515). Ciò comporta che "anche nel caso delle organizzazioni sindacali, ai fini della valutazione sull'accessibilità o meno d'un documento (o di parti esso) occorre verificare il tipo di interesse perseguito che, ovviamente, deve essere giuridicamente rilevante e di cui il sindacato deve essere direttamente portatore in relazione a ciascuna fattispecie" (TAR Basilicata, 21 marzo 2013, n. 143). Nel caso di specie, esattamente come nella fattispecie già esaminata nel giudizio n. 311/2013 definito con la già citata sentenza n. 82/2014, a sostegno della richiesta di accesso presentata, UGL non allega un interesse proprio del sindacato al corretto esercizio delle libertà e prerogative sindacali (interesse di carattere superindividuale spettante all'intera categoria interessata), ma gli interessi particolari dei singoli associati al sindacato lesi da una pretesa illegittima applicazione di atti organizzativi disciplinanti il servizio dai medesimi prestato con la conseguenza che una eventuale e successiva iniziativa processuale (nella specie allegata a sostegno dell’esistenza dell’interesse all’ostensione della documentazione richiesta) non potrà che essere proposta dai singoli dipendenti ai quali, proprio per tale ragione, spetta la legittimazione ad acquisire la documentazione necessaria alla difesa in giudizio. Sul punto si richiama l’ormai pacifico principio giurisprudenziale in base al quale "a seguito della soppressione dell'ordinamento corporativo, ai sindacati, i quali - allo stato della vigente legislazione - hanno natura di associazioni di fatto, mentre è riconosciuta la legittimazione a stare in giudizio per la tutela dell'esercizio della libertà e dell'attività sindacale ai sensi dell'art. 28 della Legge n. 300 del 1970, non è invece riconosciuto un interesse (collettivo) all'applicazione dei contratti collettivi di lavoro, né la legittimazione ad agire, nell'ambito di una controversia collettiva, per l'applicazione di tali contratti, la quale, pertanto, può essere chiesta soltanto dai singoli lavoratori nell'ambito di una controversia individuale di lavoro"(Cass. Sez. Lav., 3 novembre 1983 n. 6480). Da tale principio deriva che "alle organizzazioni sindacali può essere riconosciuta la legittimazione ad agire in giudizio, ex art. 25 della Legge 7 agosto 1990 n. 241, solo per la salvaguardia dell'interesse indifferenziato delle categorie rappresentate, consistente nell'esplicazione delle cosiddette libertà sindacali, ma giammai per la tutela degli interessi propri dei singoli associati, garantiti dalla legislazione lavoristica e dalla contrattazione collettiva di settore, (in tal senso Consiglio di Stato, Sez. VI, 7 febbraio 1995 n. 158 e T.A.R. Abruzzo, 11 ottobre 1995 n. 451)" (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 11 luglio 2005, n. 1165). Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del TAR Emilia Romagna Parma Sez. I

 
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Costituisce principio pacifico in giurisprudenza (da ultimo ribadito da questa Sezione con sentenza n. 82/2014) che ai fini dell’accesso alla documentazione amministrativa sia necessario "un "interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegat ... Continua a leggere

 
 
 
 
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