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mercoledì 18 giugno 2014 21:49

Ministero del Lavoro: pubblicato il Testo Unico sulla sicurezza coordinato ed aggiornato edizione maggio 2014

segnalazione del Prof. Stefano Olivieri Pennesi del testo coordinato ed aggiornato del T.U. sulla salute e sicurezza sul lavoro

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È stato pubblicato dal Ministero del Lavoro il TU sulla salute e sicurezza sul lavoro, aggiornato con la edizione maggio 2014. Il nuovo testo coordinato riporta alcune rilevanti novità: Inserito il titolo X bis ai sensi del d.lgs. n.198 del 19/2/2014 in attuazione della direttiva UE 2010/32 in materia di prevenzione dalle ferite da taglio o da punta nel settore sanitario ed ospedaliero; inserito decreto interministeriale 18/4/2014; inserita circolare n.45/2013; inseriti alcuni interpelli del 2013 e 2014; inserito decreto n. 388 del 15/7/2003.

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mercoledì 18 giugno 2014 21:49

Ministero del Lavoro: pubblicato il Rapporto annuale 2014 sulle comunicazioni obbligatorie

segnalazione del Prof. Stefano Olivieri Pennesi del Rapporto 2014 del Ministero del Lavoro

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È stato pubblicato, dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il Rapporto annuale 2014 sulle comunicazioni obbligatorie, (che vengono assolte a cura dei datori di lavoro per ogni contratto di lavoro sottoscritto) nel quale vengono presentati ed esaminati i dati relativi alla movimentazione dei rapporti di lavoro registrati nel territorio italiano. L’analisi è stata effettuata esaminando il periodo compreso nel triennio 2011/2013 con evidenze trimestrali. L’elaborato è strutturato in cinque capitoli, con approfondimenti di notevole rilevanza, per quanto attiene, in particolare, il mercato del lavoro nelle sue evoluzioni (flussi di assunzioni e cessazioni dei rapporti di lavoro) quale dinamiche appunto del lavoro dipendente e parasubordinato. Per scaricare il Rapporto cliccare su "Accedi al provvedimento".

segnalazione del Prof. Stefano Olivieri Pennesi del Rapporto 2014 del Ministero del Lavoro

 
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mercoledì 18 giugno 2014 21:49

Le SS.UU. della Cassazione ritengono che gli incarichi temporanei non incidano sulla base di calcolo dell’indennità di buonuscita

ARAN Agenzia per la Rappresentaza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni

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Nel regime dell’indennità di buonuscita spettante, ai sensi degli artt.3 e 38 d.P.R.1032/1973, al pubblico dipendente, che non abbia conseguito la qualifica di dirigente e che sia cessato dal servizio nell’esercizio di mansioni superiori in ragione dell’affidamento di un incarico dirigenziale temporaneo di reggenza ai sensi dell’art. 52 d.lgs. n. 165/2001, lo stipendio da considerare come base di calcolo dell’indennità medesima è quello relativo alla qualifica di appartenenza e non già quello rapportato all’esercizio temporaneo delle mansioni relative alla superiore qualifica di dirigente.

ARAN Agenzia per la Rappresentaza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni

 
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Nel regime dell’indennità di buonuscita spettante, ai sensi degli artt.3 e 38 d.P.R.1032/1973, al pubblico dipendente, che non abbia conseguito la qualifica di dirigente e che sia cessato dal servizio nell’esercizio di mansioni superiori in ragione dell’affidamento di un incarico dirigenziale tempo ... Continua a leggere

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mercoledì 18 giugno 2014 21:49

Il Consiglio di Stato blocca i tentativi di eludere i test d'ingresso alle Università italiane con corsi di studio avviati all’estero

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 30.5.2014

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Nella controversia in esame l’Università degli studi Tor Vergata e il Ministero dell’istruzione hanno impugnato innanzi al Consiglio di Stato la sentenza del Tribunale amministrativo del Lazio che ha accolto il ricorso presentato da una studentessa avverso il diniego opposto dal rettore all’istanza di ammissione al quarto anno del corso di laurea magistrale in medicina e chirurgia e in odontoiatria e protesi dentaria, previo trasferimento dall’ateneo Nostra Signora del Buon Consiglio di Tirana. La Sesta Sezione del Consiglio di Stato con sentenza n. 2829/2014 ha accolto l'appello ribadendo i principi sanciti dalla giurisprudenza (da ultimo, sez. VI, 22 aprile 2014, n. 2028) a tenore dei quali è legittima l’esclusione da un qualsiasi anno di corso degli studenti di università estere, che non superino la prova selettiva di primo accesso, eludendo con corsi di studio avviati all’estero la normativa nazionale (Cons. Stato, sez.VI, 15 ottobre 2013, n. 5015; 24 maggio 2013, n. 2866 e 10 aprile 2012, n. 2063). Tale disciplina prevede una programmazione a livello nazionale degli "accessi", senza distinzione fra il primo anno di corso e gli anni successivi (art. 1, comma 1, e 4 della legge 2 agosto 1999, n. 264, in rapporto alle previsioni del d.m. 22 ottobre 2004, n. 270, recante la disciplina dell'autonomia didattica delle università): di conseguenza, è legittimo il bando impugnato in primo grado, che prevede per il rilascio di nulla osta al trasferimento da atenei straneri e per l’iscrizione agli anni di corso successivi al primo il superamento della prova nazionale, ed è legittimo anche il conseguente diniego di immatricolazione. Tale conclusione, valevole per la generalità dei casi in cui si tratti di trasferimento da ateneo straniero senza previo superamento dei test d’accesso in Italia, è tanto più evidente nel caso di specie, in cui il corso di studi è stato frequentato, sia pure con brillanti risultati, in un Paese non facente parte dell’Unione europea; né, in contrario, può valere l’accordo di collaborazione sottoscritto dall’Ateneo di Roma Tor Vergata con l’Università frequentata dalla ricorrente in primo grado, accordo al quale va riconosciuto valore di intesa per favorire lo sviluppo della formazione universitaria in Albania, ma non produce la parificazione tra i rispettivi percorsi di studi, come pretende l’interessata. Perciò, neppure il superamento del test di ammissione al corso di laurea in Albania, dalla stessa conseguito, può costituire titolo per l’ammissione al corrispondente corso italiano, posto che quel che rileva, come si è detto, è la coerenza con la disciplina nazionale e il conseguente superamento del concorso dalla stessa previsto. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 30.5.2014

 
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Nella controversia in esame l’Università degli studi Tor Vergata e il Ministero dell’istruzione hanno impugnato innanzi al Consiglio di Stato la sentenza del Tribunale amministrativo del Lazio che ha accolto il ricorso presentato da una studentessa avverso il diniego opposto dal rettore all’istanza ... Continua a leggere

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mercoledì 18 giugno 2014 21:49

Riliquidazione del trattamento di fine rapporto: i provvedimenti di liquidazione dell’indennità di buonuscita Inpdap ai sensi dell'art. 30 del d.P.R. n. 1032/1973 non possono essere modificati, revocati o rettificati decorso un anno dalla data di emanazione

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 30.5.2014

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La sentenza di primo grado impugnata dall'INPDAP innanzi al Consiglio di Stato ha accolto il ricorso sulla base dell’art. 30 D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 il quale prevede che "i provvedimenti di liquidazione dell’indennità di buonuscita, nelle ipotesi in cui vi sia stato errore di fatto o sia stato omesso di tener conto di elementi risultanti dagli atti oppure vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel calcolo del contributo di riscatto o nel calcolo dell’indennità di buonuscita o dell’assegno vitalizio, possono essere modificati, revocati o rettificati "non oltre il termine di un anno dalla data di emanazione" (secondo comma). L'Istituto di previdenza non contesta la circostanza, dedotta dal ricorrente, che il trattamento previdenziale già riconosciutogli ha subito una decurtazione di circa trentuno milioni di lire, a ben sette anni di distanza dal provvedimento con cui l’INPADP aveva originariamente liquidato all’interessato l’indennità di buonuscita. A sostegno della decisione il giudice di primo grado ha richiamato la giurisprudenza che ha riconosciuto la perentorietà del "termine di un anno previsto dall’art. 30 T.U. 29 dicembre 1973 n. 1032 per revocare o modificare il provvedimento di liquidazione dell’indennità di buonuscita" (Cons. St., VI, 4 aprile 2000 n. 1945; da ultimo, T.A.R. Liguria, 20 febbraio 2006 n. 153). Il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso in appello è infondato alla luce della giurisprudenza di questo Consiglio (Sezione IV, 27 dicembre 2006, n. 7925) secondo la quale: "L’art. 30 del d.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1032, secondo cui i provvedimenti di liquidazione dell’indennità di buonuscita Inpdap non possono essere modificati, revocati o rettificati decorso un anno dalla data di emanazione, non preclude all’amministrazione di svolgere le proprie difese in sede giudiziale, ove ne sussistano i presupposti e le condizioni, dovendosi escludere soltanto iniziative volte ad eludere, anche in maniera indiretta, il limite derivante dal menzionato disposto legislativo". Va pertanto ribadito che la fattispecie in esame risulta disciplinata in maniera esclusiva dall’art. 30 cit., risultando inapplicabile qualsiasi altra norma, il quale pone un termine perentorio per la revoca o la modifica del provvedimento di liquidazione; né suddetto termine può essere eluso, come nel caso in esame, allorquando l’appellato sia stato riammesso in servizio, consentendo quindi una sorta di compensazione in sede di riliquidazione dell’indennità. Per scaricare la sentenza cliccare su " Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 30.5.2014

 
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La sentenza di primo grado impugnata dall'INPDAP innanzi al Consiglio di Stato ha accolto il ricorso sulla base dell’art. 30 D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 il quale prevede che "i provvedimenti di liquidazione dell’indennità di buonuscita, nelle ipotesi in cui vi sia stato errore di fatto o sia s ... Continua a leggere

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mercoledì 18 giugno 2014 21:49

Concessione e revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche: il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 30.5.2014

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Il tradizionale e consolidato indirizzo giurisprudenziale, condiviso sia dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Cass. Sez. Un., ord. 25 gennaio 2013, n. 1776; 24 gennaio 2013, n. 1710; 7 gennaio 2013, n. 150; 20 luglio 2011, n. 15867; 18 luglio 2008, n. 19806; 26 luglio 2006, n. 16896; 10 aprile 2003, n. 5617), sia dal Consiglio di Stato (da ultimo, Ad. Plen. 29 luglio 2013, n. 13), afferma che il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche deve essere attuato sulla base del generale criterio di riparto fondato sulla natura della situazione soggettiva azionata, con la conseguenza che: - sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge, mentre alla Pubblica Amministrazione è demandato soltanto il compito di verificare l’effettiva esistenza dei relativi presupposti senza procedere ad alcun apprezzamento discrezionale circa l’an, il quid, il quomodo dell’erogazione (Cass. Sez. Un. n. 150/2013 cit.); - qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o dall’acclarato sviamento dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche se si faccia questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si fondino sull'inadempimento alle obbligazioni assunte di fronte alla concessione del contributo. In tal caso, infatti, il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario, attenendo la controversia alla fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e all'inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione (cfr. Cass. Sez. Un., ord. n. 1776/2013 cit.); - viceversa, è configurabile una situazione soggettiva d’interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, solo ove la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio, oppure quando, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse, ma non per inadempienze del beneficiario (Cass. Sez. Un. n. 1710/2013; Cons. Stato, Ad. Plen. n. 17/2013 cit.). Orbene, nelle ipotesi di cui alla l. n. 488/1992, la concessione delle agevolazioni finanziarie consegue ad un esercizio di potere discrezionale dell’amministrazione; non già, dunque, dal mero accertamento di requisiti e condizioni prefissate dalla legge, bensì all’esito di una valutazione comparativa e della formazione di apposite graduatorie di possibili beneficiari. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 30.5.2014

 
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Il tradizionale e consolidato indirizzo giurisprudenziale, condiviso sia dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Cass. Sez. Un., ord. 25 gennaio 2013, n. 1776; 24 gennaio 2013, n. 1710; 7 gennaio 2013, n. 150; 20 luglio 2011, n. 15867; 18 luglio 2008, n. 19806; 26 luglio 2006, n. 16896; ... Continua a leggere

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mercoledì 18 giugno 2014 21:49

Elezioni: i consiglieri provinciali possono autenticare le firme relative alle operazioni elettorali per l’elezione dei sindaci ed il rinnovo dei consigli dei comuni della provincia, mentre i consiglieri comunali hanno analoga legittimazione per le elezioni del sindaco ed il rinnovo del consiglio del loro comune

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 16.6.2014

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Il Consiglio di Stato con la sentenza in esame supera il proprio precedente orientamento sancito con la sentenza n. 8 maggio 2013, n. 2501, secondo la quale per i consiglieri comunali e provinciali sussisterebbe, oltre a quello territoriale, l'ulteriore limite della "pertinenza della competizione elettorale", nel senso che la norma in esame attribuirebbe il potere di autentica a tali organi politici solo per le elezioni dell'Ente al quale essi appartengano. Pronuncia che risulta isolata e già smentita da ulteriori sentenze emesse da questa Sezione (cfr. Cons. St., Sez. V, 13 febbraio 2014, n. 716; Id., 16 aprile 2014, n. 1885) Sul punto ha richiamato i principi sanciti dall’Adunanza Plenaria che con la sentenza n. 22/2013, ha chiarito che: "I pubblici ufficiali menzionati nell'art. 14 L. 21 marzo 1990 n. 53 (e nella specie nell'art. 18 L. reg. Trentino Alto Adige 8 agosto 1983 n. 7) compreso il giudice di pace, sono titolari del potere di autenticare le sottoscrizioni delle liste di candidati esclusivamente all'interno del territorio di competenza dell'ufficio di cui sono titolari o ai quali appartengono". Ossia ha affermato che il potere di autenticazione previsto dal citato art.14 a favore dei pubblici è strettamente connesso al territorio di competenza dell'ufficio di cui sono titolari o al quale appartengono. Tanto in ragione del fatto che: a) l’individuazione della norma di alcune categorie di soggetti, che in veste di pubblici ufficiali sono deputati ad offrire fede privilegiata all’attestazione da loro proveniente, implica un rinvio allo statuto previsto per ciascuna categoria; b) i limiti alla competenza territoriale dell'ufficio di appartenenza integrano un elemento costitutivo della fattispecie autorizzatoria; c) l’art. 2699 c.c. prevede un vincolo espresso tra pubblico ufficiale e sede di svolgimento della sua funzione; d) il successivo art. 2701 c.c. esclude che il documento formato da pubblico ufficiale incompetente abbia efficacia di fede privilegiata; e) la ratio della norma è quella di facilitare gli elettori e i presentatori delle liste nel rispetto delle esigenze di certezza e di un'ordinata e trasparente raccolta delle sottoscrizioni, assicurate dalla presenza di un collegamento tra pubblico ufficiale e territorio in cui svolge le proprie funzioni. Sulla base di tali premesse, il Collegio ha quindi rilevato che il potere di autenticazione si risolve nell'attestazione del compimento di un'attività materiale, con cui viene certificata l'apposizione della sottoscrizione in presenza del pubblico ufficiale, con immediata trasposizione del risultato di tale percezione in un documento rappresentativo dell'accaduto munito di fede privilegiata, come avviene per gli atti pubblici. Pertanto, poiché il Consigliere provinciale svolge le proprie funzioni all’interno dell’intero territorio provinciale e considerato che il testo dell’art. 14 non offre alcuna indicazione nel senso di ritenere che possa desumersi la presenza di un ulteriore vincolo di pertinenza tra procedimento elettorale e funzioni del Consigliere provinciale, in contrasto con quella che è la ratio della norma in esame, non può concludersi per l’illegittimità dell’autenticazione operata all’interno del procedimento elettorale relativo ad un Comune che ricada nella Provincia nella quale il Consigliere provinciale esercita le proprie funzioni. Una simile limitazione, infatti, non è giustificata nemmeno da esigenze sostanziali di certezza giuridica ulteriori rispetto a quelli esigibili dall'attività di autentica della sottoscrizione di soggetti diversi dal pubblico ufficiale che vi procede, non sussistendo neppure, nello svolgimento della attività di certificazione, alcuna finalità di controllo (che potrebbe giustificare un irrigidimento delle condizioni necessarie per svolgere tale), consistendo nella mera certificazione da parte del pubblico ufficiale dell'avvenuta apposizione in sua presenza della sottoscrizione da parte di un soggetto identificato. Per le stesse ragioni non si può prestare adesione alla tesi sostenuta dagli appellanti secondo la quale un Consigliere provinciale appartenente ad un Collegio diverso da quello in cui si svolge la competizione elettorale, non è legittimato ad esercitare il potere di autentica. Né l’art. 14, della l. n. 53 del 1990, né altra norma prevede, infatti, che il potere di autenticazione del Consigliere provinciale sia collegato in alcun modo al rapporto di mandato che lega il Consigliere eletto con il Collegio elettorale nel quale è stato eletto. Una simile limitazione che comporterebbe una significativa deroga alle funzioni del Consigliere provinciale, che, una volta eletto, assume funzioni esercitabili sull’intero territorio provinciale, necessiterebbe, infatti, di una esplicita limitazione legislativa, che nella fattispecie non risulta sussistere. Deve, pertanto, concludersi che i consiglieri provinciali possono autenticare le firme relative alle operazioni elettorali per l’elezione dei sindaci ed il rinnovo dei consigli dei comuni della provincia, non sussistendo per i primi alcun vicolo derivante dalla pertinenza della competizione elettorale o dalla non estraneità alla stessa, mentre i consiglieri comunali hanno analoga legittimazione per le elezioni del sindaco ed il rinnovo del consiglio del loro comune. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 16.6.2014

 
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Il Consiglio di Stato con la sentenza in esame supera il proprio precedente orientamento sancito con la sentenza n. 8 maggio 2013, n. 2501, secondo la quale per i consiglieri comunali e provinciali sussisterebbe, oltre a quello territoriale, l'ulteriore limite della "pertinenza della competizione e ... Continua a leggere

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mercoledì 18 giugno 2014 21:49

A.N.AC: modificato l'iter per il rilascio del parere per la nomina degli OIV

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti del comunicato A.N.AC del 16.6.2014

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L’Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.AC) ha semplificato e ottimizzato l’iter per il rilascio del parere per la nomina degli OIV, introducendo anche nuovi strumenti a supporto del processo. In particolare, è stata aggiornata la scheda da utilizzare per la richiesta di parere OIV, che consentirà alle amministrazioni di verificare la congruenza dei requisiti del/i candidato/i previsti dalla delibera n. 12/2013 nella predisposizione della richiesta prima dell’invio della stessa all’Autorità. La richiesta di parere deve essere trasmessa all’indirizzo protocollo@pec.anticorruzione.it completa della seguente documentazione: 1. relazione motivata dell’amministrazione relativa alla scelta del/i candidato/i; 2. la scheda OIV in formato excel con riscontro positivo di tutti i requisiti presenti nel foglio "Esito controllo richiesta"; tale scheda andrà compilata secondo quanto contenuto nel foglio "Istruzioni per la compilazione". 3. curriculum vitae sottoscritto/i dal/i candidato/i; 4. dichiarazioni di incompatibilità, di cui ai punti 3.4, 3.5 e 9, sottoscritte dal/i candidato/i, utilizzando esclusivamente il modello A.N.AC. con allegato/i il/i documento/i di riconoscimento in corso di validità; Inoltre, con riferimento ai requisiti generali e specifici previsti nella delibera n. 12/2013 per i componenti degli OIV, si precisa che: - per quanto concerne il requisito dell’età dei componenti (p. 3.2 della delibera n. 12/2013), potranno essere proposte le candidature di coloro i quali non abbiano superato la soglia dei 65 anni alla data di trasmissione della richiesta di parere. Tale soglia è innalzata a 68 anni per i soggetti appartenenti a particolari status professionali (magistrati, professori universitari ordinari o associati); - per quanto concerne il requisito attinente all’area delle esperienze professionali (p. 5 della delibera n. 12/2013), in alternativa al possesso di un’esperienza triennale o quinquennale nel campo del management, della pianificazione e controllo di gestione, dell’organizzazione e della gestione del personale, della misurazione e valutazione della performance e dei risultati, ovvero nel campo giuridico – amministrativo, assume uguale rilievo anche un’esperienza presso un OIV o presso organismi simili (Nuclei di Valutazione) di almeno 2 anni, purché non siano incorse eventuali cause di rimozione dall’incarico prima della scadenza; - per quanto concerne il requisito attinente all’esclusività del rapporto (p. 9 della delibera n. 12/2013), potranno essere proposte anche le candidature di coloro i quali appartengano a non più di cinque OIV, inclusa l’Amministrazione alla quale la richiesta fa riferimento, purché la somma delle unità di personale dipendente in servizio complessivamente presso tali amministrazioni, non superi la soglia di 500 addetti. La richiesta di parere dovrà essere inviata completa di tutti gli elementi sopraindicati e con esito positivo per il controllo dei requisiti (come si evince dal foglio "Esito controllo richiesta" della scheda OIV di cui al punto 2); solo in questo caso, verrà dato avvio al procedimento. In caso contrario, la segreteria dell’Autorità provvederà a trasmettere la relativa comunicazione di mancato avvio dell’iter. Una volta rilasciato il parere, l’Autorità provvederà a pubblicare la relativa delibera sul proprio sito istituzionale, unitamente alla scheda di valutazione, dando comunicazione all’amministrazione del relativo link. L’amministrazione dovrà provvedere a pubblicare sul proprio sito nella sezione "Amministrazione trasparente – Personale – OIV" la documentazione prevista al p. 14.2 della delibera n.12/2013.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti del comunicato A.N.AC del 16.6.2014

 
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L’Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.AC) ha semplificato e ottimizzato l’iter per il rilascio del parere per la nomina degli OIV, introducendo anche nuovi strumenti a supporto del processo. In particolare, è stata aggiornata la scheda da utilizzare per la richiesta di parere OIV, che consentir ... Continua a leggere

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mercoledì 18 giugno 2014 21:49

Unione omosessuale: nessun "divorzio imposto" nè un "divorzio a domanda" per chi - sposato - cambia sesso. La Consulta sprona il legislatore ad introdurre una forma alternativa e diversa dal matrimonio che consenta ai coniugi dello stesso sesso di proseguire la vita in coppia

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 160 del 11.6.2014

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La Corte Costituzionale con la sentenza n. 160/2014 ha dichiarato: 1. l'illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell'attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore; 2. in via consequenziale, l'illegittimità costituzionale dell'art. 31, comma 6, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), nella parte in cui non prevede che la sentenza di rettificazione dell'attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che determina lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore. In particolare nella parte motiva la Consulta rileva come abbia già avuto modo di affermare, nella sentenza n. 138 del 2010, che nella nozione di "formazione sociale" – nel quadro della quale l'art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo – «è da annoverare anche l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». In quella stessa sentenza è stato, però, anche precisato doversi «escludere […] che l'aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio», come confermato, del resto, dalla diversità delle scelte operate dai Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette. Dal che la conclusione, per un verso, che «nell'ambito applicativo dell'art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell'esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette», e, per altro verso, che resta, però, comunque, «riservata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni», nel quadro di un controllo di ragionevolezza della rispettiva disciplina. Sulla linea dei principi enunciati nella riferita sentenza, è innegabile che la condizione dei coniugi che intendano proseguire nella loro vita di coppia, pur dopo la modifica dei caratteri sessuali di uno di essi, con conseguente rettificazione anagrafica, sia riconducibile a quella categoria di situazioni "specifiche" e "particolari" di coppie dello stesso sesso, con riguardo alle quali ricorrono i presupposti per un intervento di questa Corte per il profilo, appunto, di un controllo di adeguatezza e proporzionalità della disciplina adottata dal legislatore. La fattispecie peculiare che viene qui in considerazione coinvolge, infatti, da un lato, l'interesse dello Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio (e a non consentirne, quindi, la prosecuzione, una volta venuto meno il requisito essenziale della diversità di sesso dei coniugi) e, dall'altro lato, l'interesse della coppia, attraversata da una vicenda di rettificazione di sesso, a che l'esercizio della libertà di scelta compiuta dall'un coniuge con il consenso dell'altro, relativamente ad un tal significativo aspetto della identità personale, non sia eccessivamente penalizzato con il sacrificio integrale della dimensione giuridica del preesistente rapporto, che essa vorrebbe, viceversa, mantenere in essere (in tal ultimo senso si sono indirizzate le pronunce della Corte costituzionale austriaca – VerfG 8 giugno 2006, n. 17849 – e della Corte costituzionale tedesca BVerfG, 1, Senato, ord. 27 maggio 2008, BvL 10/05) . La normativa – della cui legittimità dubita la Corte rimettente – risolve un tale contrasto di interessi in termini di tutela esclusiva di quello statuale alla non modificazione dei caratteri fondamentali dell'istituto del matrimonio, restando chiusa ad ogni qualsiasi, pur possibile, forma di suo bilanciamento con gli interessi della coppia, non più eterosessuale, ma che, in ragione del pregresso vissuto nel contesto di un regolare matrimonio, reclama di essere, comunque, tutelata come «forma di comunità», connotata dalla «stabile convivenza tra due persone», «idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione» (sentenza n. 138 del 2010). Sta in ciò, dunque, la ragione del vulnus che, per il profilo in esame, le disposizioni sottoposte al vaglio di costituzionalità arrecano al precetto dell'art. 2 Cost. Tuttavia, non ne è possibile la reductio ad legitimitatem mediante una pronuncia manipolativa, che sostituisca il divorzio automatico con un divorzio a domanda, poiché ciò equivarrebbe a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso, in contrasto con l'art. 29 Cost. Sarà, quindi, compito del legislatore introdurre una forma alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza. E tal compito il legislatore è chiamato ad assolvere con la massima sollecitudine per superare la rilevata condizione di illegittimità della disciplina in esame per il profilo dell'attuale deficit di tutela dei diritti dei soggetti in essa coinvolti. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 160 del 11.6.2014

 
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La Corte Costituzionale con la sentenza n. 160/2014 ha dichiarato: 1. l'illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell'attribuzi ... Continua a leggere

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mercoledì 18 giugno 2014 21:49

Pensione: nessun recupero, a seguito di conguaglio tra trattamento provvisorio e definitivo, della prestazione pensionistica indebitamente erogata se l'errore in cui è incorsa l'amministrazione non era percepibile dal pensionato ed è trascorso un lungo lasso temporale

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza della Corte dei Conti Sez. Puglia del 16.6.2014

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La Corte dei Conti, Sez. Giurisdizionale della Regione Puglia con la sentenza del 16.6.2014 e' stata chiamata a risolvere il giudizio avente ad oggetto il recupero, a seguito di conguaglio tra trattamento provvisorio e definitivo, di prestazioni pensionistiche indebitamente erogate. Tale materia è stato oggetto di notevoli contrasti giurisprudenziali per il coinvolgimento, nel relativo procedimento, del pensionato, quale soggetto economicamente debole del rapporto previdenziale. L’art. 2033 del codice civile disciplina il pagamento indebito non supportato da idonea giustificazione causale giuridicamente rilevante accordando al solvens la ripetizione di quanto pagato, indipendentemente da ogni altra considerazione circa la scusabilità dell’errore e la buona fede dell’accipiens. Nell’ambito previdenziale, invece, la giurisprudenza ha introdotto, progressivamente, il principio della tutela dell’affidamento ingenerato nel privato in buona fede dalla legittimità del provvedimento pensionistico provvisorio adottato, da valutarsi in concreto, tenendo conto delle peculiarità di ciascuna fattispecie; in particolare il lasso temporale intercorso tra la fruizione della prestazione pensionistica indebitamente erogata e il momento in cui ne è chiesta la ripetizione, nonché l’assenza di dolo dell’interessato nella causazione dell’errore o la riconoscibilità di quest’ultimo con l’ordinaria diligenza. All’uopo, sono stati richiamati gli insegnamenti espressi dalla Corte Costituzionale nelle sentenze n. 431/1993, n. 240/1994 e n. 166/1996 secondo i quali "...diversamente dalla generale regola codicistica di incondizionata ripetibilità dell’indebito, trova applicazione [nella materia pensionistica] la diversa regola, propria di tale sottosistema, che esclude la ripetizione in presenza di una situazione di fatto ... avente come minimo comune denominatore la non addebitabilità al percipiente dell’erogazione non dovuta", nonché quelli della Corte di Giustizia Europea secondo cui "il principio di tutela dell’affidamento fa parte del diritto comunitario" (ex multis 3 maggio 1978, C 112/77). Ciò ha consentito di superare l’iniziale orientamento negativo delle Sezioni Riunite di questa Corte espresso nella sentenza n. 1/1999/QM ove si sosteneva l’incondizionata ripetibilità dell’indebito, negando rilievo alla buona fede dell’accipiens, nonché al lasso temporale trascorso tra l’adozione del decreto provvisorio e quello definitivo di pensione. Le citate Sezioni Riunite, infatti, nella sentenza n. 7/2007/QM nel mutare il precedente orientamento hanno stabilito che "in assenza di dolo dell’interessato, il disposto contenuto nell’art. 162 del d.p.r. n. 1092 del 1973, concernente il recupero dell’indebito formatosi sul trattamento pensionistico provvisorio, deve interpretarsi nell’ambito della disciplina sopravvenuta contenuta nella legge n. 241 del 1990, per cui, a decorrere dall’entrata in vigore di detta legge n. 241 del 1990, decorso il termine posto per l’emanazione del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza, non può più effettuarsi il recupero dell’indebito, per il consolidarsi della situazione esistente, fondato sull’affidamento riposto nell’Amministrazione", affidamento avente carattere "oggettivo" e non legato allo stato "soggettivo" di buona fede, "per sua natura variabile in relazioni alle mutevoli circostanze individuali di ciascun rapporto pensionistico, e, come tale, inidoneo a orientare con i necessari criteri di uniformità e di certezza sia le aspettative del privato, sia la condotta della pubblica amministrazione, sia, infine, l’operato del giudice di tale rapporto". Il principio di cui sopra è stato, recentemente, rielaborato dalla Sezioni Riunite che nella sentenza n. 2/2012/QM, depositata il 02.07.2012, dopo avere richiamato anche quanto contenuto nella sentenza n. 7/2011/QM, hanno sostenuto: "Lo spirare di termini regolamentari di settore per l’adozione del provvedimento pensionistico definitivo non priva, ex se, l’amministrazione del diritto-dovere di procedere al recupero delle somme indebitamente erogate a titolo provvisorio; sussiste, peraltro, un principio di affidamento del percettore in buona fede dell’indebito che matura e si consolida nel tempo, opponibile dall’interessato in sede amministrativa e giudiziaria. Tale principio va individuato attraverso una serie di elementi quali il decorso del tempo, valutato anche con riferimento agli stessi termini procedimentali, e comunque al termine di tre anni ricavabile da norme riguardanti altre fattispecie pensionistiche, la rilevabilità in concreto, secondo l’ordinaria diligenza, dell’errore riferito alla maggior somma erogata sul rateo di pensione, le ragioni che hanno giustificato la modifica del trattamento provvisorio e il momento di conoscenza, da parte dell’amministrazione, di ogni altro elemento necessario per la liquidazione del trattamento definitivo". L’organo di nomofilachia, prendendo spunto anche dai recenti interventi normativi sul corpo della legge n. 241/1990, ha inteso puntualizzare rispetto al precedente orientamento che l’affidamento del percipiente, legittimante nella sussistenza delle altre circostanze l’irripetibilità dell’indebito pensionistico, non si configura in maniera "automatica" e "presuntiva" alla scadenza del termine procedimentale previsto dalla legge n. 241/1990 e dai regolamenti attuativi di settore per l’adozione del provvedimento pensionistico definitivo. Ne consegue che l’interesse del privato al mantenimento di una situazione giuridica di vantaggio, quale quella conseguente ad un indebito pagamento pensionistico, è meritevole di tutela se da un lato l’errore in cui è in corsa l’amministrazione non è facilmente percepibile con l’ordinaria diligenza perché in tale ipotesi, a prescindere dal decorso del tempo, non vi può essere alcun affidamento da tutelare; dall’altro se la situazione giuridica di vantaggio si è protratta per un considerevole lasso temporale che giustifica l’affidamento, lasso temporale da valutare, come sopra già ricordato, "anche con riferimento agli stessi termini procedimentali, e comunque con riferimento al termine di tre anni ricavabile da norme riguardanti altre fattispecie", sempre che l’amministrazione non "fosse già in possesso, ab origine, degli elementi necessari alla determinazione del trattamento pensionistico". Nella fattispecie in esame, rileva il lungo tempo trascorso; infatti con la determina del 07.04.2004 con la quale era stato liquidato il trattamento pensionistico spettante al sig. G. C., veniva annullata e sostituita dalla determina n. LE012011582183 solo il 17.10.2O12. L’Inps, al quale il ricorso è stato regolarmente notificato, non ha in alcun modo confutato le circostanze di fatto dedotte dal ricorrente. Facendo applicazione dei principi sopra esposti, stante il lungo lasso temporale trascorso (con l’ampio superamento del termine triennale, tra il 2004 e il 2012) e la buona fede del pensionato che con l’ordinaria diligenza non avrebbe potuto percepire l’errore in cui è incorsa l’amministrazione nella liquidazione della pensione provvisoria deve essere dichiarata l’irripetibilità dell’indebito di cui è causa, con la conseguenza che l’istante ha diritto alla restituzione delle somme mensilmente trattenute. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza della Corte dei Conti Sez. Puglia del 16.6.2014

 
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mercoledì 18 giugno 2014 21:49

Federazione Italiana Pallacanestro: l'art. 11 bis del regolamento F.I.P. richiedendo la formazione tecnica in Italia anche per chi è cittadino italiano, finisce per tutelare non tanto i giovani talenti nazionali, ma soprattutto gli interessi economici delle società sportive

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 17.6.2014

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La Sesta Sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 3037/2014 ha annullato la sentenza del TAR che aveva rigettato il ricorso proposto da un atleta italiano diretto all’annullamento del provvedimento del 25 novembre 2010 del Segretario Generale della Federazione Italiana Pallacanestro, con il quale è stata rigettata la sua istanza volta ad ottenere il tesseramento nella stessa Federazione quale atleta italiano ad ogni effetto (ovvero, in altri termini, il riconoscimento dello status di "atleta di formazione italiana"). Il T.a.r. aveva respinto il ricorso facendo applicazione dell’art. 11 bis del Regolamento esecutivo-settore professionistico, approvato dal Consiglio Federale della F.I.P. nelle sedute del 29–30 maggio 1998 e 19-20 novembre 2010. Tale disposizione prescrive che un atleta, per essere considerato (indipendentemente dalla sua cittadinanza) "di formazione italiana", deve essersi formato nei vivai italiani e aver partecipato a campionati giovanili della F.I.P. per almeno quattro stagioni sportive. Nel caso di specie, secondo il T.a.r., il ricorrente sarebbe privo del primo requisito, quello di essersi formato tecnicamente nei vivai italiani. Il Consiglio di Stato e' stato, quindi, chiamato a stabilire se tale effetto negativo, che oggettivamente deriva in capo a chi non abbia i requisiti per accedere allo status "di formazione" italiana sia ragionevole e, soprattutto, compatibile con i principi costituzionali e comunitari. Si tratta, in altri termini, si stabilire se un atleta italiano possa essere discriminato rispetto ad altri, solo perché la sua formazione tecnica non sia avvenuta in Italia. Il Collegio, si legge nella sentenza, ritiene che, rispetto a tale situazione, la discriminazione determinata dall’applicazione dell’art. 11 bis del regolamento F.I.P. sia illegittimità sotto diversi profili. In primo luogo, essa risulta palesemente irragionevole. "Se la norma, come riconosce lo stesso T.a.r. è diretta potenziare e tutelare la formazione e la crescita dei giovani giocatori di talento e di favorire lo sviluppo dei vivai nazionali, è certamente contradditorio che tale scopo venga perseguito con una disciplina che, richiedendo la formazione tecnica in Italia anche per chi è cittadino italiano, finisce per tutelare non tanto i giovani talenti nazionali, ma soprattutto gli interessi economici delle società sportive, consentendo alle stesse di massimizzare l’utilità economica che ritraggono quando vendono i giocatori che esse stesse hanno formato tecnicamente nei propri vivai. Il requisito della formazione tecnica in Italia, rappresenta, in altri termini, un requisito irragionevole, perché contraddice lo scopo in vista del quale è stata introdotta la "riserva numerica", perché anziché tutelare lo sport nazionale (e la crescita professionistica dei giovani giocatori di talento), tutela prevalentemente gli interessi economici delle società. La norma presenta, inoltre, anche profili di incompatibilità costituzionale e comunitaria, dando luogo ad una "discriminazione alla rovescia", nel senso che l’atleta italiano formatosi tecnicamente all’estero è discriminato, senza alcuna plausibile giustificazione, rispetto all’atleta straniero formatosi tecnicamente in vivai nazionali. In questo modo, il cittadino italiano, solo perché costretto, anche, come accaduto nel caso di specie, per motivi familiari (il giovane Campanaro è stato costretto a rimanere per gli Stati Uniti per documentate ragioni collegate alla separazione dei genitori), a vivere fuori dall’Italia (e, conseguentemente a formarsi tecnicamente all’estero) vede diminuire le sua possibilità di accesso all’attività sportiva professionistica, rispetto a chi, invece, ha vissuto e si è formato in Italia. In questo modo, la citata disposizione regolamentare incide anche su alcune prerogative che sono proprie dello status di cittadino dell’Unione europea (art. 20 TFUE), oltre che sui diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta di Nizza, restringendo, in particolare, il suo diritto alla vita familiare, nella misura in cui limita le possibilità di accesso allo sport professionistico del cittadino italiano i cui genitori si siano stabiliti all’estero; i collegati diritti di circolazione e di soggiorno, nella misura in cui lo costringe, per poter svolgere senza "limiti" l’attività sportiva professionistica, a lasciare il territorio nazionale; il diritto di lavorare e stabilirsi nel territorio di qualsiasi Stato membro, impedendogli di avere "pieno" e incondizionato accesso all’attività sportiva professionistica in Italia." Aggiunge, infine, il Consiglio di Stato come non possa ritenersi che nel caso di specie venga in rilievo una situazione puramente interna, come tale sottratta all’applicazione del diritto dell’U.E., atteso che, come emerge chiaramente dalla più recente giurisprudenza della Corte di giustizia, tale limite deve ritenersi superato ogni volta che, anche a prescindere dalla presenza di ulteriori elementi transfrontalieri, disposizioni nazionali abbiano l’effetto di privare i cittadini dell’Unione del godimento reale ed effettivo dei diritto attribuiti dal loro status di cittadini dell’Unione (CGUE, Grande Sezione, 8 marzo 2011, 34/09 Ruz Zambrano). In altri termini, dalla citata giurisprudenza comunitaria si evince che la sola esistenza dello status di cittadino europeo è sufficiente a far riconoscere all'individuo il godimento di un diritto fondamentale attribuito dall'ordinamento dell'Unione anche in assenza di altri criteri di collegamento. Dalle considerazioni svolte discende che è illegittima l’applicazione che nel caso di specie è stata fatta dell’art. 11 bis del regolamento F.I.P. per negare il riconoscimento al ricorrente dello status di atleta italiano ad ogni effetto. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 17.6.2014

 
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La Sesta Sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 3037/2014 ha annullato la sentenza del TAR che aveva rigettato il ricorso proposto da un atleta italiano diretto all’annullamento del provvedimento del 25 novembre 2010 del Segretario Generale della Federazione Italiana Pallacanestro, con i ... Continua a leggere

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mercoledì 18 giugno 2014 21:49

Amministrazione Trasparente: on line i dati relativi alle tipologie di controlli che le P.A. decidono di svolgere sulle imprese

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti dell'orientamento A.N.AC n. 29/2014

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Le amministrazioni devono pubblicare, ai sensi dell’art. 25 del d.lgs. n. 33/2013, i dati relativi alle tipologie di controlli che decidono di svolgere sulle imprese nonché gli obblighi e gli adempimenti che le imprese stesse sono tenute a rispettare per ottemperare alle specifiche disposizioni normative.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti dell'orientamento A.N.AC n. 29/2014

 
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mercoledì 18 giugno 2014 21:49

Trasparenza: le P.A. devono pubblicare i protocolli d’intesa e le convenzioni tra pubbliche amministrazioni, oltre agli accordi sostitutivi e integrativi dei provvedimenti

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti dell'orientamento A.N.AC n. 30/2014

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Tra gli accordi stipulati dall’amministrazione, da pubblicare si sensi dell’art. 23 del d.lgs. n. 33/2013 rientrano anche i protocolli d’intesa e le convenzioni tra pubbliche amministrazioni, oltre agli accordi sostitutivi e integrativi dei provvedimenti, a prescindere che contengano o meno la previsione dell’eventuale corresponsione di una somma di denaro. Diversamente, non vi rientrano i contratti stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o con altre pubbliche amministrazioni in quanto soggetti agli obblighi di pubblicazione di cui all’art. 1, cc. 16 e 32, della legge n. 190/2012, e all’art. 37 del d.lgs. n. 33/2013.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti dell'orientamento A.N.AC n. 30/2014

 
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mercoledì 18 giugno 2014 21:49

Società partecipate, enti pubblici vigilati ed enti di diritto privato in controllo pubblico: sanzioni pecuniarie in caso di omessa pubblicazione on line degli incarichi di Presidente, componente del CdA o di altro organo con analoghe funzioni, di amministratore delegato e del relativo trattamento economico complessivo

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti dell'orientamento A.N.AC n. 31/2014

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L'A.N.AC con l'orientamento n. 31/2014 interviene a chiarire la portata dell'art. 22 d.lgs n. 33/2013 rubricato "Obblighi di pubblicazione dei dati relativi agli enti pubblici vigilati, e agli enti di diritto privato in controllo pubblico, nonché alle partecipazioni in società di diritto privato" precisando che ai sensi del secondo comma dell’art. 22 del d.lgs. n. 33/2013, per "incarichi di amministratore" degli enti e delle società – di cui alle lettere da a) a c) del comma 1 del medesimo articolo – si intendono quelli di Presidente e di componente del Consiglio di Amministrazione, o di altro organo con analoghe funzioni comunque denominato, e di amministratore delegato. Per ciascuno di essi devono essere pubblicati il nominativo dell’amministratore, il tipo di incarico e il relativo trattamento economico complessivo. L’inosservanza degli obblighi di pubblicazione di cui all’art. 22 c. 2, che comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’art. 47, c. 2, del d.lgs. n. 33/2013, deve essere segnalata dall’OIV, o da altro organismo con analoghe funzioni, e dal Responsabile della trasparenza all’"autorità amministrativa competente" di cui all’art. 47, c. 3, del medesimo decreto al fine di dare avvio al procedimento sanzionatorio.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti dell'orientamento A.N.AC n. 31/2014

 
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L'A.N.AC con l'orientamento n. 31/2014 interviene a chiarire la portata dell'art. 22 d.lgs n. 33/2013 rubricato "Obblighi di pubblicazione dei dati relativi agli enti pubblici vigilati, e agli enti di diritto privato in controllo pubblico, nonché alle partecipazioni in società di diritto privato" ... Continua a leggere

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lunedì 9 giugno 2014 17:20

Amministrazione Trasparente: tutte le attività svolte in qualità di libero professionista dal titolare di incarico politico vanno pubblicate on line se la spesa grava sulla finanza pubblica

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti dell'orientamento A.N.AC n. 12/2014

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L'Autorità Anticorruzione con orientamento n. 12/2014 ha chiarito che gli altri incarichi con oneri a carico della finanza pubblica che devono essere pubblicati ai sensi dell’art. 14, c. 1, lett. e), del d.lgs. n. 33/2013 comprendono le attività svolte in qualità di libero professionista dal titolare di incarico politico, laddove la relativa spesa gravi sulla finanza pubblica. Ad esempio, vi rientrano gli incarichi conferiti da parte di amministrazioni statali, Regioni, Province e Comuni, quali difesa in giudizio, consulenza tecnica etc., qualora sia previsto un compenso.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti dell'orientamento A.N.AC n. 12/2014

 
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L'Autorità Anticorruzione con orientamento n. 12/2014 ha chiarito che gli altri incarichi con oneri a carico della finanza pubblica che devono essere pubblicati ai sensi dell’art. 14, c. 1, lett. e), del d.lgs. n. 33/2013 comprendono le attività svolte in qualità di libero professionista dal titola ... Continua a leggere

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lunedì 9 giugno 2014 17:20

Pensioni e rapporti di lavori dipendenti: l'A.N.AC precisa che non devono essere pubblicati on line in quanto già resi trasparenti attraverso la pubblicazione della dichiarazione dei redditi

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti dell'orientamento A.N.AC n. 13/2014

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L'A.N.AC chiarisce nell'orientamento n. 13/2014 che tra gli altri incarichi con oneri a carico della finanza pubblica, che devono essere pubblicati ai sensi dell’art. 14, c. 1, lett. e), del d.lgs. n. 33/2013, non rientrano i rapporti di lavoro dipendente e pensionistici, considerato che non si tratta di "incarichi" e tenuto conto che i dati relativi alla posizione lavorativa o pensionistica sono già resi trasparenti attraverso la pubblicazione della dichiarazione dei redditi disposta dall’art. 14, c. 1, lett. f), del d.lgs. n. 33/2013.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti dell'orientamento A.N.AC n. 13/2014

 
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L'A.N.AC chiarisce nell'orientamento n. 13/2014 che tra gli altri incarichi con oneri a carico della finanza pubblica, che devono essere pubblicati ai sensi dell’art. 14, c. 1, lett. e), del d.lgs. n. 33/2013, non rientrano i rapporti di lavoro dipendente e pensionistici, considerato che non si tra ... Continua a leggere

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lunedì 9 giugno 2014 17:20

Dichiarazione dei redditi dei politici: non è sufficiente pubblicare il quadro riepilogativo della dichiarazione, on line va la copia dell'ultima dichiarazione con oscuramento dei dati sensibili

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti dell'orientamento A.N.AC n. 14/2014

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Sull’assolvimento dell’obbligo di pubblicazione di cui all’art. 14, c. 1, lett. f), del d.lgs. n. 33/2013, l'Autorità Anticorruzione con orientamento n. 14/2014 precisa che non è sufficiente la pubblicazione del quadro riepilogativo della dichiarazione dei redditi, tenuto conto che l’art. 2, n. 2), della legge n. 441/1982, a cui la citata lett. f) rinvia, fa espresso riferimento alla copia dell’ultima dichiarazione dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche. Tuttavia, è necessario limitare, con appositi accorgimenti a cura dell’interessato o dell’amministrazione, la pubblicazione dei dati sensibili contenuti nella stessa dichiarazione.

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti dell'orientamento A.N.AC n. 14/2014

 
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Sull’assolvimento dell’obbligo di pubblicazione di cui all’art. 14, c. 1, lett. f), del d.lgs. n. 33/2013, l'Autorità Anticorruzione con orientamento n. 14/2014 precisa che non è sufficiente la pubblicazione del quadro riepilogativo della dichiarazione dei redditi, tenuto conto che l’art. 2, n. 2), ... Continua a leggere

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lunedì 9 giugno 2014 17:20

Accesso ai documenti: nessuna legittimazione alle organizzazione sindacali per la tutela degli interessi propri dei singoli associati, ma solo per la salvaguardia dell'interesse indifferenziato delle categorie rappresentate

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del TAR Emilia Romagna Parma Sez. I

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Costituisce principio pacifico in giurisprudenza (da ultimo ribadito da questa Sezione con sentenza n. 82/2014) che ai fini dell’accesso alla documentazione amministrativa sia necessario "un "interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" e che "non sono ammissibili istanze di accesso, preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni", essendo tale controllo estraneo alle finalità, perseguite attraverso l'istituto di cui trattasi (artt. 22, commi 3, 1 lettera b e 24, comma 3 L. n. 241/90 cit.)" (Cons. Stato, Sez. VI, 20 novembre 2013, n. 5515). Ciò comporta che "anche nel caso delle organizzazioni sindacali, ai fini della valutazione sull'accessibilità o meno d'un documento (o di parti esso) occorre verificare il tipo di interesse perseguito che, ovviamente, deve essere giuridicamente rilevante e di cui il sindacato deve essere direttamente portatore in relazione a ciascuna fattispecie" (TAR Basilicata, 21 marzo 2013, n. 143). Nel caso di specie, esattamente come nella fattispecie già esaminata nel giudizio n. 311/2013 definito con la già citata sentenza n. 82/2014, a sostegno della richiesta di accesso presentata, UGL non allega un interesse proprio del sindacato al corretto esercizio delle libertà e prerogative sindacali (interesse di carattere superindividuale spettante all'intera categoria interessata), ma gli interessi particolari dei singoli associati al sindacato lesi da una pretesa illegittima applicazione di atti organizzativi disciplinanti il servizio dai medesimi prestato con la conseguenza che una eventuale e successiva iniziativa processuale (nella specie allegata a sostegno dell’esistenza dell’interesse all’ostensione della documentazione richiesta) non potrà che essere proposta dai singoli dipendenti ai quali, proprio per tale ragione, spetta la legittimazione ad acquisire la documentazione necessaria alla difesa in giudizio. Sul punto si richiama l’ormai pacifico principio giurisprudenziale in base al quale "a seguito della soppressione dell'ordinamento corporativo, ai sindacati, i quali - allo stato della vigente legislazione - hanno natura di associazioni di fatto, mentre è riconosciuta la legittimazione a stare in giudizio per la tutela dell'esercizio della libertà e dell'attività sindacale ai sensi dell'art. 28 della Legge n. 300 del 1970, non è invece riconosciuto un interesse (collettivo) all'applicazione dei contratti collettivi di lavoro, né la legittimazione ad agire, nell'ambito di una controversia collettiva, per l'applicazione di tali contratti, la quale, pertanto, può essere chiesta soltanto dai singoli lavoratori nell'ambito di una controversia individuale di lavoro"(Cass. Sez. Lav., 3 novembre 1983 n. 6480). Da tale principio deriva che "alle organizzazioni sindacali può essere riconosciuta la legittimazione ad agire in giudizio, ex art. 25 della Legge 7 agosto 1990 n. 241, solo per la salvaguardia dell'interesse indifferenziato delle categorie rappresentate, consistente nell'esplicazione delle cosiddette libertà sindacali, ma giammai per la tutela degli interessi propri dei singoli associati, garantiti dalla legislazione lavoristica e dalla contrattazione collettiva di settore, (in tal senso Consiglio di Stato, Sez. VI, 7 febbraio 1995 n. 158 e T.A.R. Abruzzo, 11 ottobre 1995 n. 451)" (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 11 luglio 2005, n. 1165). Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del TAR Emilia Romagna Parma Sez. I

 
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Costituisce principio pacifico in giurisprudenza (da ultimo ribadito da questa Sezione con sentenza n. 82/2014) che ai fini dell’accesso alla documentazione amministrativa sia necessario "un "interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegat ... Continua a leggere

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lunedì 9 giugno 2014 17:20

"Con salvezza dei diritti dei terzi": sulla clausola di stile utilizzata nei provvedimenti il Consiglio di Stato precisa che essa non esclude che già in sede di procedimento amministrativo debba aversi riguardo alle situazioni di contrasto tra privati e ove possibile consentire accomodamenti e soluzioni

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

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Sulla clausola "con salvezza del diritto dei terzi", la Quinta Sezione del Consiglio di Stato precisa che normalmente apposta agli atti autorizzatori, alla stregua di clausola di stile, al di là delle diatribe dottrinarie sull’effettiva portata, seppure implichi sicuramente la irrilevanza della conformità dell’atto dal punto di vista pubblicistico nei rapporti tra privati, la cui tutela è assicurata dal diritto ad ottenere la tutela ripristinatoria (invero, la clausola "fatti salvi i diritti dei terzi", da un punto di vista generale e secondo l’interpretazione dell’atto amministrativo alla stregua dei canoni civilistici, potrebbe operare addirittura quale condizione risolutiva dell’atto amministrativo espansivo di facoltà dei privati, comportandone ipso iure l’inefficacia, ove la lesione del diritto dei terzi sia accertata da sentenza passata in giudicato), non esclude che già in sede di procedimento amministrativo debba aversi riguardo alle situazioni di contrasto tra privati e ove possibile consentire accomodamenti e soluzioni, ove gli interessi privati contrapposti vengano in rilievo e siano portati a conoscenza dell’amministrazione. Invero, in base al principio di legalità che sottende l’attività della pubblica amministrazione, non può essere consentito e rimesso esclusivamente alla delibazione giurisdizionale, la risoluzione e composizione degli interessi privati che vengano ad essere coinvolti da un’attività della pubblica amministrazione in astratto conforme a legge. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

 
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Sulla clausola "con salvezza del diritto dei terzi", la Quinta Sezione del Consiglio di Stato precisa che normalmente apposta agli atti autorizzatori, alla stregua di clausola di stile, al di là delle diatribe dottrinarie sull’effettiva portata, seppure implichi sicuramente la irrilevanza della con ... Continua a leggere

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lunedì 9 giugno 2014 17:20

Concorsi nella P.A.: rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo non solo le controversie in materia di concorsi pubblici, ma anche quelle in materia di concorsi interni e procedure di promozione

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

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La Corte di Cassazione a sezioni unite (cfr., fra le tante, le sentenze 6 maggio 2013, n. 10401; 11 aprile 2012 n. 5699; 3 marzo 2010 n. 5024), ha chiarito che i concorsi c.d. interni, interamente riservati al personale dipendente ma finalizzati all’accesso del personale a qualifiche superiori, sono annoverabili tra le procedure concorsuali per le quali l’art. 63 comma 4 del d. lgs. n. 165 del 2001 riconosce la giurisdizione del giudice amministrativo; deve pertanto ritenersi che tale norma quando riserva alla giurisdizione del giudice amministrativo "le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni", faccia riferimento non solo alle procedure concorsuali strumentali alla costituzione, per la prima volta, del rapporto di lavoro, ma anche alle prove selettive dirette a permettere l’accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore, con la conseguenza che rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo non solo le controversie in materia di concorsi pubblici, ma anche quelle in materia di concorsi interni e procedure di promozione. Invero, il passaggio ad una nuova fascia funzionale superiore, all’esito del concorso interno, comporta l’accesso ad un nuovo e diverso posto di lavoro la cui fattispecie è sostanzialmente equiparabile alle ipotesi di "assunzione" presso la p.a. prevista dall’art. 63, co. 4 cit. Per continuare nella lettura della sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

 
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lunedì 9 giugno 2014 17:20

Concorsi pubblici: la problematica dell'equipollenza dei titoli professionali e l'esclusione in particolare per quella di "infermiere generico" con quella dell’ "ausiliario – operatore socio assistenziale" (ASA o OSA) ovvero dell’OTA, dell’OSS o dell’OSSC

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

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Il Consiglio di Stato ha ribadito nella sentenza in esame che il bando costituisce la lex specialis del pubblico concorso, da interpretare in termini strettamente letterali, con la conseguenza che le regole in esso contenute vincolano rigidamente l’operato dell'Amministrazione, obbligata alla loro applicazione senza alcun margine di discrezionalità: e ciò in forza sia dei principi dell’affidamento e di tutela della parità di trattamento tra i concorrenti, la quale sarebbe per certo pregiudicata ove si consentisse la modifica delle regole di gara cristallizzate nella lex specialis medesima, sia del più generale principio che vieta la disapplicazione del bando quale atto con cui l’amministrazione si è originariamente auto vincolata nell’esercizio delle potestà connesse alla conduzione della procedura selettiva (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 10 aprile 2013 n. 1969). Da ciò discende pertanto discende che le clausole del bando di concorso per l’accesso al pubblico impiego non possono essere assoggettate a procedimento ermeneutico in funzione integrativa, diretto ad evidenziare in esse pretesi significati impliciti o inespressi (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 19 novembre 2012 n. 5825), ma vanno interpretate secondo il significato immediatamente evincibile dal tenore letterale della parole e dalla loro connessione (cfr. art. 12, primo comma, disp. prel. cod. civ.). Soltanto qualora il dato testuale presenti evidenti ambiguità deve essere prescelto dall’interprete il significato più favorevole all’ammissione del candidato alle prove, essendo conforme al pubblico interesse - e sempreché non si oppongano a ciò interessi pubblici diversi e di maggior rilievo - che alla procedura selettiva partecipi il più elevato numero di candidati (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 10 novembre 2003 n.7134). Nel caso di specie, tuttavia, il su riportato punto 3, lett. g) del bando concorsuale, laddove inderogabilmente imponeva ai partecipanti di possedere il titolo di "ausiliario socio-assistenziale" senza contemplare equipollenze o deroghe al riguardo, introduceva nella lex specialis una disposizione normativa del tutto inequivoca nel suo significato letterale e, perciò, di stretta interpretazione, sia per la commissione giudicatrice, sia per questo stesso giudice, con conseguente impossibilità per l’interprete di utilizzare al riguardo le tecniche ermeneutiche dell’estensione e dell’analogia (cfr. artt. 14 e 12 disp. prel. cod. civ.). Per il vero, la giurisprudenza afferma pure che, nell’evenienza di mancata specificazione di equipollenza tra titoli professionali richiesti per l’ammissione al pubblico concorso - e, quindi, di univoca ed espressa volontà della P.A. di limitare l’accesso ai soli titoli indicati nella lex specialis - le previsioni del bando medesimo debbano essere integrate dall’interprete nel senso di consentire la partecipazione per i possessori di titoli equipollenti ex lege: ma ciò, per l’appunto, avviene nelle sole ipotesi in cui si rinvengano nell’ordinamento norme di legge cc.dd. "autoesecutive" , le quali puntualmente e direttamente sanciscano l’equipollenza tra i titoli anzidetti, e non necessitino pertanto per la loro concreta applicazione dell’intermediazione di altre disposizioni normative dello stesso grado o di grado subordinato, ovvero di provvedimenti amministrativi (così Cons. Stato, Sez. V, 3 giugno 2010 n.3484). Sul punto necessita pertanto un’indagine sulla figura dell’ "infermiere generico" e sulle figure professionali ad esso contigue sviluppatesi nel tempo, al fine di acclarare se nell’ordinamento sussiste tra di esse un’equiparazione ex lege nel senso ora indicato. Come correttamente ha puntualizzato la stessa appellante, la disciplina della figura professionale dell’ "infermiere generico" si rinviene ab initio nella L. 23 giugno 1924 n. 1267 sulle arti ausiliarie delle professioni sanitarie e nel suo regolamento di esecuzione approvato con R.D. 31 maggio 1928 n. 334; essa peraltro è stata resa ben distinta e resa subordinata rispetto a quella dell’infermiere professionale dapprima per effetto dell’art. 4 del R.D. 2 maggio 1940 n. 100 (cfr. ivi: "L’attività degli infermieri generici dev’essere limitata alle seguenti mansioni, per prescrizione del medico, nell'ambito ospedaliero, sotto la responsabilità dell’infermiera professionale …") e, poi, per effetto dell’art. 6 del D.P.R. 14 marzo 1974 n. 225 (cfr. ivi: "L’infermiere generico coadiuva l’infermiere professionale in tutte le sue attività e su prescrizione del medico provvede direttamente alle seguenti operazioni …"). La figura dell’infermiere generico è, ormai da tempo, divenuta di fatto "ad esaurimento", come a ragione ha denotato dalla stessa appellante. Infatti, per effetto della progressiva attuazione all’interno del nostro ordinamento dell’Accordo europeo sull’istruzione e formazione delle infermiere, adottato a Strasburgo il 25 ottobre 1967 e reso operante nel nostro ordinamento con L.15 novembre 1973 n. 795, l’accesso alla qualifica di "infermiere professionale" è stato riservato ai soli titolari di diploma di laurea triennale in scienze infermieristiche, ferma peraltro restando l’equipollenza con la laurea medesima dei diplomi di "infermiere professionale" conseguiti nel precedente ordinamento presso le scuole infermieristiche già istituite presso gli enti ospedalieri (cfr. al riguardo la L. 19 novembre 1990 n. 341, l’art. 6, comma 3, del D.L.vo 30 dicembre 1992 n. 504 e succ. mod., l’art. 4 della L. 26 febbraio 1999 n. 42 nonché il D.M. 14 settembre 1994 n. 73). Tali scuole hanno quindi proseguito la loro attività secondo i programmi approvati ai sensi della L. 29 ottobre 1954 n. 1046 con D.M. 15 febbraio 1972 soltanto per la formazione degli infermieri generici, la cui utilizzazione nel contesto delle strutture del Servizio sanitario nazionale è progressivamente risultata recessiva, anche e soprattutto in dipendenza dell’incentivazione data dal legislatore alla riqualificazione del titolo di infermiere generico in quello di infermiere professionale mediante la frequenza di appositi corsi organizzati dalle Regioni ovvero presso le Università (cfr., rispettivamente, la L. 3 giugno 1980 n. 243, nonché l’art. 80, ultimo comma, della L. 11 luglio 1980 n. 312) e, da ultimo, dalla soppressione delle scuole anzidette disposta in via generale dall’art. 3 della predetta L. 243 del 1980. Nell’ambito personale non medico, è stata quindi istituita e collocata in posizione inferiore rispetto a quella dell’infermiere professionale una nuove figura di operatori professionali: l’ "operatore tecnico assistenziale" (OTA), istituito per effetto dell’art. 40, comma 3, del D.P.R. 28 novembre 1990 n. 384, con percorso formativo approvato con D.M. 26 luglio 1991 n.295 e affidato alle Regioni mediante corsi professionali organizzati ai sensi dell’art. 14 della L. 21 dicembre 1978 n. 845 per il tramite delle aziende sanitarie locali (cfr. art. 2 D.M. 295 cit.). Ai sensi del mansionario allegato al D.P.R. 384 del 1990, l’OTA svolge la propria attività sia all’interno delle strutture sanitarie, pubbliche che private coadiuvando l’infermiere professionale in tutte le attività assistenziali, dirette ed indirette, ed assicurando anche prestazioni di natura domestico alberghiera relative alla degenza, il trasporto dei materiali e attività igienico-sanitarie Inoltre, su prescrizione assicura interventi di natura assistenziale agli utenti direttamente per le attività che gli competono. Nel contempo, il riordino del sistema assistenziale pubblico e privato introdotto dalla L. 8 novembre 2000 n. 328 e dal D.L.vo 4 maggio 2001 n. 207 nonché dalla relativa legislazione regionale di attuazione e dalla sua separazione per effetto del D.M. 8 agosto 1985 con le strutture proprie del Servizio sanitario nazionale (ma comunque con esse correlato in sede di distretto socio sanitario: cfr. artt. 3-quater e 3-quinquies del D.L.vo 20 dicembre 1992 n. 502, aggiunti per effetto dell’art. 3, comma 1, del D.L.vo 19 giugno 1999 n. 229) ha parimenti favorito l’istituzione di nuove figure professionali operanti nelle strutture assistenziali pubbliche e private accreditate: e ciò in evoluzione a quella, risalente nel tempo, dell’ "ausiliario socio-assistenziale" (ASA), poi correntemente denominato "operatore socio-assistenziale" (OSA), istituito ab origine nell’ambito sanitario con D.M. 10 febbraio 1984 quale figura "nuova atipica" o di "dubbia iscrizione" nei ruoli del personale del S.S.N. ai sensi dell’art. 1, quarto comma, del D.P.R. 20 dicembre 1979 n. 761 ma ben presto diffusosi rapidamente nelle strutture pubbliche e private accreditate con mansioni di assistenza non infermieristica per le persone anziane ivi ospitate. Si tratta, in particolare, dell’ "Operatore socio-sanitario" (OSS), istituito per effetto dell’art. 3-octies del D.L.vo 502 del 1992 come introdotto dall’art. 3, comma 1, del D.L.vo 19 giugno 1999 n. 229 e modificato dall’art. 8, comma 3, lettera e), del D.L.vo 28 luglio 2000 n. 254. Il percorso formativo di tale figura professionale è stato disciplinato con provvedimento dd. 22 febbraio 2001 adottato in sede di Conferenza permanente Stato – Regioni. La figura medesima riunisce la professionalità dell’operatore assistenziale con nozioni sanitarie di base proprie dell’OTA; essa – anzi - solitamente proviene dall’evoluzione formativa dell’OTA estesa anche all’ambito socio-assistenziale. Tale personale, dopo aver completato una specifica formazione professionale organizzata dalle Regioni, svolge attività indirizzata all’assistenza diretta e di supporto all’utente sia ricoverato che presso il suo domicilio o presso strutture residenziali pubbliche o private, su indicazione del personale medico e infermieristico professionale. Ulteriore evoluzione dell’OSS è l’ "Operatore socio-sanitario complementare" (OSSC), figura sorta per effetto dell’art.1 del D.L. 12 novembre 2001 n. 402, convertito, con modificazioni, dalla L. 8 gennaio 2002 n.1, che conferma le disposizioni di cui all’anzidetto provvedimento della Conferenza Stato – Regioni e che prevede la stessa procedura per disciplinare la formazione complementare in assistenza sanitaria al fine di consentire all’OSS ulteriormente formato di collaborare con l’infermiere o con l’ostetrica e di svolgere alcune attività assistenziali in base all’organizzazione dell’unità funzionale di appartenenza e conformemente alle direttive dell’assistenza infermieristica o ostetrica, o comunque sotto la supervisione di tali figure sanitarie non mediche. Orbene, avuto riguardo a tutto ciò, la disamina dell’ordinamento consente di acclarare che nessuna disposizione di legge sancisce equiparazioni di sorta tra la figura professionale dell’ "infermiere generico" con quella dell’ "ausiliario – operatore socio assistenziale" (ASA o OSA) ovvero con quella dell’OTA, dell’OSS o dell’OSSC: e, in conseguenza di ciò, per l’interprete non risultava possibile all’epoca dei fatti di causa - né risulta possibile a tutt’oggi - integrare le previsioni del bando concorsuale che richieda quale requisito di partecipazione il diploma ASA (OSA), ovvero OTA, o OSS o OSSC nel senso di consentire anche ai titolari del diploma di "infermiere generico" di partecipare al relativo concorso. Essendo quindi il giudizio di equiparabilità dei relativi percorsi formativi devoluto al discrezionale apprezzamento dell’amministrazione che bandisce il concorso, avuto riguardo - anche, e soprattutto - alle proprie concrete esigenze assistenziali, ne consegue che la mancata considerazione nella lex specialis delle aree di sovrapposizione tra le competenze proprie dell’ "infermiere generico" con quelle proprie delle predette nuove figure di operatori socio-assistenziali può, ove del caso, legittimare l’ "infermiere generico" medesimo ad impugnare sul punto la "lex specialis" anzidetta, richiamandosi anche alla difformità della determinazione attuale della P.A. rispetto a quelle pregresse assunte in senso eventualmente diverso, ma non a chiedere al giudice amministrativo – in difetto di tale onere del deducente medesimo – di espletare al riguardo il proprio sindacato sulla clausola del bando non impugnata. Deve dunque per tutto ciò concludersi nel senso che il giudice di primo grado ha rettamente dichiarato inammissibili i tre primi motivi di ricorso ivi proposti. Va soggiunto che, come è ben noto, il giudice amministrativo ben può interpretare nel suo insieme il contenuto del ricorso innanzi a lui proposto, in modo da poter addivenire - sia pure attraverso un’operazione più o meno complessa d'interpretazione del suo testo, alla precisa individuazione del bene giuridico cui l’interessato tende e le ragioni a fondamento della pretesa (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 20 agosto 2013 n. 4188), sempreché con tale operazione ermeneutica il giudice non si sostituisca al richiedente (cfr. ibidem): e, in tal senso, l’interpretazione costantemente data da questo giudice è nel senso dell’insufficienza dell’utilizzo delle mere formule di stile (come, per l’appunto, quella genericamente riferita ad "ogni atto presupposto, connesso e consequenziale", nella specie usata nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado) per affermare che si era voluto espressamente chiedere l’annullamento di un determinato atto (cfr. sul punto, ad es., la già citata sentenza di Cons. Stato, Sez. VI, n. 4998 del 2011), soprattutto allorquando non sono state formulate puntuali censure su di esso. Per scaricare la sentenza clicca su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

 
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Il Consiglio di Stato ha ribadito nella sentenza in esame che il bando costituisce la lex specialis del pubblico concorso, da interpretare in termini strettamente letterali, con la conseguenza che le regole in esso contenute vincolano rigidamente l’operato dell'Amministrazione, obbligata alla loro ... Continua a leggere

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lunedì 9 giugno 2014 17:20

Demansionamento del lavoratore: il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione del danneggiato sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

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Il Consiglio di Stato, Sezione V, nel giudizio in esame ha ribadito i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa e dalla Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da illecita attività provvedimentale dell’amministrazione (cfr. ex plurimis e da ultimo, Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2013, n. 23993; sez. un., 23 marzo 2011, n. 6594; sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576 e 582; Cons. Stato, ad. plen., 19 aprile 2013, n. 7; ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3; sez. III, 19 marzo 2014, n. 1357; sez. V, 17 gennaio 2014, n. 183; sez. V, 31 ottobre 2013, n. 5247; sez. V, 21 giugno 2013, n. 3408; sez. III, 30 maggio 2012, n. 3245; sez. IV, 22 maggio 2012, n. 2974; sez. IV, 2 aprile 2012, n. 1957; sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482; cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), in forza dei quali: a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e che non consente di configurare la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius; b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta, evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza), grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto l’illegittimo esercizio della funzione pubblica; c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della p.a.; d) al di fuori del settore degli appalti (governato da autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di rilevante complessità del fatto, della influenza determinante dei comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da successiva declaratoria di incostituzionalità della norma applicata dall’amministrazione; e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non); il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto; al contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale; in quest’ottica, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano — ad una valutazione ex ante — del tutto inverosimili. Per quanto poi concerne l’aspetto che qui segnatamente rileva, ossia il nesso causale tra l’illecito e il danno subito, va parimenti rimarcato che l’onnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., pur nelle ipotesi in cui consegue alla violazione di diritti inviolabili della persona (ad es. il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.), costituisce pur sempre un’ipotesi di danno-conseguenza, il cui ristoro è in concreto possibile solo a seguito dell’integrale allegazione e prova in ordine alla sua consistenza materiale ed in ordine alla sua riferibilità eziologica alla condotta del soggetto asseritamente danneggiante. Ne consegue, quindi, che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, da parte di colui che si pretende danneggiato, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. In una con i principi elaborati dalle sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. le celebri sentenze gemelle sez. un., nn. 26973, 26974, 26975 del 2008, successivamente si vedano gli affinamenti elaborati da Cass. civ., sez. III, 2228 del 2012) e dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (n. 7 del 2013 cit.), si rileva che mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno non patrimoniale - da intendersi come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul "fare areddittuale" del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendo il soggetto medesimo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, potendo peraltro anche in tale evenienza assumere precipuo rilievo la prova per presunzioni; ne discende che il prestatore di lavoro, che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di c.d. danno biologico), subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, posto che tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo e che pertanto non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, nel mentre incombe al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base all’anzidetta regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ. (.....) La giurisprudenza da tempo assegna ai provvedimenti cautelari emanati dal giudice amministrativo la funzione di escludere o, comunque, di mitigare il danno insito nel provvedimento impugnato, posto che la tutela cautelare è diretta alla temporanea salvaguardia della posizione del deducente, onde consentirgli - qualora risultasse vincitore nel merito - di trarre l’utilità sostanziale offerta dalla decisione, producendo in via temporalmente anticipata nella sua sfera giuridica benefici omogenei e comunque non superiori rispetto a quelle che la sentenza potrà procurare (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 27 marzo 1995 n. 191); e, proprio in dipendenza di ciò, e anche a prescindere dall’espressa statuizione al riguardo contenuta dal susseguentemente intervenuto art. 30, cod. proc. amm., la medesima giurisprudenza ha ricavato dai principi contenuti dall’art. 1227, secondo comma, cod. civ., la regola della possibile non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli strumenti di tutela cautelare previsti dall’ordinamento (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 9 ottobre 2013 n. 4968). Nel caso in esame il demansionamento lamentato dal ricorrente non è in fatto avvenuto proprio poiché il tempestivo accesso da lui fatto allo strumento di tutela cautelare ha impedito l’assunzione da parte sua dei compiti non rispondenti alla qualifica ricoperta, tanto che il suo rientro in servizio è incontestabilmente avvenuto nella stessa posizione occupata al momento del primo provvedimento di rimozione illegittimamente emanato nei suoi confronti. In questo modo, pertanto, l’intervento del giudice adito in primo grado ha fatto sì che il prestigio personale e professionale del ricorrente non fossero vulnerati anche nel lasso di tempo intercorrente tra la proposizione dei ricorsi e la loro definizione nel merito: e proprio tale circostanza rende dunque inaccoglibile una domanda risarcitoria che ha per oggetto beni della vita che si intendevano per certo colpire mediante una sequela di azioni amministrative illegittime; beni che, peraltro, non sono stati di fatto compromessi nella loro integrità proprio perché gli effetti di tali azioni sono stati repentinamente caducati ope iudicis. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 27.5.2014

 
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