News 26 Febbraio 2014 - Area Amministrativa


NORMATIVA

Anticorruzione: le direttive INPS sull'inconferibilità ed incompatibilità degli incarichi, le misure di prevenzione, la rotazione del personale e gli obblighi di comunicazione

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L'INPS ha adottato circolare n. 27 del 25.2.2014 ha adottato le direttive interne dirette ad adeguare le procedure interne e a conformare la condotta dei dipendenti agli obblighi stabiliti dalla legge 6 novembre 2012, n. 190 "Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione". Con tale provvedimento legislativo, precisa l'Inps, è stato introdotto anche nel nostro ordinamento un sistema organico di prevenzione della corruzione che mira a garantire l’attuazione coordinata delle strategie elaborate in materia a livello nazionale ed internazionale e, al contempo, a fornire alle pubbliche amministrazioni le linee di indirizzo per la corretta applicazione delle misure e degli strumenti di prevenzione previsti dalla legge. Sotto tale ultimo aspetto, riveste un ruolo fondamentale il Piano Nazionale Anticorruzione (di seguito PNA), predisposto dal Dipartimento della Funzione Pubblica ed approvato dalla CIVIT con delibera n. 72 dell’11.9.2013, che fornisce una serie di diposizioni volte a guidare le amministrazioni nell’attuazione della normativa, attraverso l’emanazione di direttive interne idonee ad adeguare le procedure interne e a conformare la condotta dei dipendenti agli obblighi di legge. Ciò premesso, tenuto conto che l’Istituto ha già emanato alcune disposizioni prevista dal PNA – tra cui quelle in materia di inconferibilità ed incompatibilità degli incarichi dirigenziali ai sensi del d. lgs. 39/13 – si forniscono le seguenti direttive che, da un lato, completano la disciplina degli ambiti già trattati e, dall’altro, regolamentano ulteriori aspetti previsti dalle previsioni normative in materia. 1.Inconferibilità ed incompatibilità degli incarichi dirigenziali 2.Prevenzione fenomeni corruttivi nella formazione di commissioni e nell’assegnazione agli uffici 3.Attività successiva alla cessazione del rapporto di lavoro 4.Rotazione del personale sottoposto a procedimento penale o disciplinare per condotte di natura corruttiva 5.Obblighi di astensione 6.Obblighi di comunicazione 7.Contratti ed altri atti negoziali Per continuare nella lettura cliccare su "Accedi al provvedimento".

 
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L'INPS ha adottato circolare n. 27 del 25.2.2014 ha adottato le direttive interne dirette ad adeguare le procedure interne e a conformare la condotta dei dipendenti agli obblighi stabiliti dalla legge 6 novembre 2012, n. 190 "Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell ... Continua a leggere

 

A.N.A.C.: no pec, ma semplice email per l'invio dei link ai codici di comportamento

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Per motivi organizzativi, l'Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.A.C.) ha comunicato che i link ai codici di comportamento dovranno essere inviati da email semplice (no pec) esclusivamente all’indirizzo e-mail: codicicomportamento@anticorruzione.it

 
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Comuni: in Gazzetta Ufficiale i nuovi obblighi di comunicazione telematica in materia elettorale, anagrafe, di stato civile e con i notai per le convenzioni matrimoniali

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Sulla Gazzetta Ufficiale n. 46 del 25.2.2014 e' stato pubblicato il decreto del Ministero dell'Interno 12 febbraio 2014 recante "Modalita' di comunicazione telematica tra comuni in materia elettorale, di anagrafe e di stato civile, nonche' tra comuni e notai per le convenzioni matrimoniali, in attuazione dell'articolo 6, comma 1, lettere a) e c) del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35." Per scaricare il decreto cliccare su "Accedi al Provvedimento".

 
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Pubblicità’ occulta: Antitrust sanziona Mondadori, Unifarm e Philips per immagini su latte in polvere e biberon di Belen Rodriguez sul settimanale "Chi"

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Procedimento avviato dall'Antitrust alla luce di un servizio sulla maternità di Belen Rodriguez pubblicato dal settimanale ‘Chi’. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nella riunione del 29 gennaio, ha deciso di sanzionare le società Mondadori, Unifarm e Philips per una pubblicità occulta inserita in un servizio sulla maternità di Belen Rodriguez pubblicato dal settimanale ‘Chi’. Le sanzioni decise sono pari a 70mila euro ciascuno per Mondadori e Unifarm e a 50mila euro per Philips. In particolare, nel servizio pubblicato sul n. 17 del 24 aprile 2013, intitolato "Belen con il suo Santiago" erano riportate, ingrandite, riquadrate in rosso e isolate dal contesto, le immagini di un latte per neonati, Neolatte1, e di un biberon della Avent. Nelle didascalie che accompagnavano le foto venivano specificati prezzi e proprietà dei due prodotti: in particolare il latte artificiale veniva indicato come "un tipo di latte in polvere per lattanti con Bifidus naturali, che favoriscono una sana e buona digestione" mentre il biberon "in PES (Polietersulfone) per neonati, riduce al minimo l’aria nella pancia evitando coliche e irritabilità". Il latte Neolatte1 è prodotto da un’azienda tedesca ma distribuito nel canale delle farmacie da Unifarm, società di farmacisti, che opera nel settore della distribuzione intermedia del farmaco. La società olandese Philips produce anche prodotti per le mamme e i bambini, fra i quali il biberon Philips Avent. Secondo l’Antitrust, pur in assenza di una prova diretta dell’accordo, è stato possibile desumere la natura pubblicitaria del messaggio da molteplici indizi precisi e concordanti quali: la collocazione delle foto (ingrandite, riquadrate in rosso e fuori contesto rispetto al contesto narrativo e fotografico del servizio), le informazioni sui prodotti (caratteristiche e prezzi), la differenza tra il servizio in bozza (che non conteneva riferimenti specifici a prodotti individuati e alle loro caratteristiche) e quello poi pubblicato. Si tratta di chiari elementi distintivi rispetto a quelli che si trovano nei servizi giornalistici sulla vita dei personaggi pubblici, la c.d. informazione leggera. Nell’impaginazione mancava inoltre qualsiasi accorgimento o indicazione che rendesse evidente ai consumatori la natura promozionale delle immagini. Per scaricare il Provvedimento dell'Antitrust cliccare su "Accedi al Provvedimento".

 
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AIFA: e' allarme per la salute pubblica per la diffusione di creme ad azione sbiancante illegali

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La pratica dello sbiancamento cutaneo è diffusa in molti paesi e può essere definita come l’uso abitudinario, a fini estetici, di sostanze in grado di ridurre l’intensità della pigmentazione di una cute naturalmente scura.I prodotti utilizzati sono disparati, contengono una grande varietà di principi attivi, spesso associati tra loro, e vengono presentati per lo più in forma di creme che, in diversi stati extraeuropei, sono distribuite come cosmetici oppure vendute attraverso canali non regolati dalle norme sanitarie e che, non di rado, entrano a far parte di commerci decisamente illegali.Le sostanze dotate di un’attività sbiancante sono numerose e vanno da quelle certamente velenose, come il mercurio, a quelle che, invece, sono regolarmente autorizzate come ingredienti di medicinali dermatologici. Tra queste ultime, sono molto utilizzati per la loro capacità di ridurre la pigmentazione cutanea e, quindi, con finalità estetiche improprie e pericolose, i farmaci appartenenti alla famiglia del cortisone e, soprattutto, quelli a lunga durata d’azione ed elevata potenza quali il clobetasolo o il betametasone. Nel nostro paese e in tutta l’unione europea, questi medicinali sono prodotti e commercializzati nel rispetto delle rigorose regole comunitarie dettate a difesa dei cittadini.Le creme sbiancanti introdotte illecitamente in Italia, invece, pur contendo corticosteroidi o altri componenti pericolosi non sono registrate come medicinali nei paesi di provenienza, ma sono generalmente vendute ed acquistate come semplici cosmetici o prodotti di libera vendita.Nel nostro paese, laddove siano prive di AIC, ne è vietata l’importazione, salvo in presenza delle debite autorizzazioni o condizioni (D.Lgs. 219/2006 art. 158 comma 8).Nel corso delle attività di controllo effettuate dagli uffici di sanità frontaliera e delle dogane, è stato rilevata e segnalata la crescente diffusione delle creme sbiancanti anche nel nostro paese. Tra i prodotti rinvenuti, in carichi di merci o nei bagagli a seguito di passeggeri, rientrano sia medicinali la cui commercializzazione in Italia è regolarmente autorizzata, sia farmaci fabbricati legalmente nel nostro paese ma destinati esclusivamente all’esportazione verso i mercati extra-UE, sia, infine, copie contraffatte o prodotti illegali le cui confezioni recano nomi che imitano i marchi commerciali di creme fabbricate in Italia e riportano la dicitura "prodotto italiano".Le modalità seguite dai soggetti dediti a questa pratica estetica (applicazioni delle preparazioni su superfici corporee molto estese, quotidianamente ripetute e prolungate per mesi o anni) e il frequente ricorso a prodotti di scarsa qualità esponga gli stessi soggetti a conseguenze anche molto gravi per la loro salute.Quale esemplificazione particolarmente significativa in tal senso, sono stati focalizzati gli effetti dannosi che possono essere provocati dalle creme a base di corticosteroidi — medicinali efficaci e sicuri se impiegati secondo prescrizione medica — quando le stesse sono utilizzate in modo improprio. In tali condizioni possono infatti causare danni rilevanti non solo a livello cutaneo (quali iperpigmentazione, ipertricosi o comparsa di strie cutanee simili a smagliature) ma anche a carico dell’intero organismo (quali diabete, ipertensione arteriosa o malfunzionamento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene) per gli effetti sistemici derivanti dall’assorbimento cronico del principio attivo.La conoscenza del fenomeno, lo scambio di informazioni relative ai sequestri di prodotti illegali e/o contraffatti tra gli operatori coinvolti, il rafforzamento dei controlli, in dogana e sul territorio, unitamente ad iniziative di sensibilizzazione sui rischi, rappresentano, rispetto a questa tipologia di prodotto, i principali punti di intervento a tutela della salute pubblica.

 
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Ministero del Lavoro: tendenze del mercato del lavoro

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Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha reso disponibile una pubblicazione, contenente dati articolati in modalità indicatori statistici, dal titolo "Tendenze del mercato del lavoro" nella quale sono stati elaborati una serie di elementi caratteristici del sistema complessivo tra i quali le ore di cassa integrazione effettivamente usate dalle aziende, tra ordinaria, straordinaria e in deroga, l’effettiva domanda di lavoro risultante dal saldo intercorrente tra attivazioni rapporti di lavoro e cessazioni nonché conseguenti saldi sulle ore lavorate. Il focus ha riguardato la complessità del mercato del lavoro oltreché le dinamiche nei diversi settori imprenditoriali: agricoltura, industria in senso stretto, costruzioni, servizi, anche su base territoriale e in prospettiva futura. Per scaricare la pubblicazione cliccare su "Accedi al Provvedimento".

 
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Trasparenza: on line le FAQ dell'A.N.A.C. sulla corretta applicazione del d.lgs n. 33/2013

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L’Autorità Nazionale Anticoruzzione (A.N.A.C.) ha pubblicato apposite FAQ sull’applicazione del d.lgs. n. 33/2013 in materia di trasparenza amministrativa che sono state elaborate in base alle risposte fornite ai numerosi quesiti posti dalle amministrazioni pubbliche e dagli enti, anche privati, destinatari delle norme sulla trasparenza amministrativa. Le FAQ sono state suddivise per articolo di riferimento del decreto legislativo n. 33/2013. Tenuto conto dell’analiticità del lavoro svolto per la sistematizzazione dei riscontri ai quesiti ricorrenti, l'Autorità raccomanda di esaminare il testo delle FAQ prima di inviare eventuali ulteriori richieste di chiarimento all’Autorità sulla legge 190/2012 e sul d.lgs. n. 33/2013. Si informano gli utenti che dette FAQ sono state inserite nelle aree di gestione di Amministrazione Trasparente al fine di agevolare le P.A. nelle attività di caricamento dei dei dati e delle informazioni previste dal D.lgs n. 33/2013.

 
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Trasparenza anche nelle Società partecipate: obbligo di pubblicazione dei bilanci e dei compensi di dirigenti e consulenti nella circolare del MIPA

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Il ministro per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione Gianpiero D'Alia ha firmato e trasmesso alla Corte dei Conti una circolare volta a chiarire l'ambito di applicazione delle regole di trasparenza e degli obblighi di pubblicazione dei dati sugli enti economici e sulle società controllate e partecipate. Il documento rivolge la sua attenzione agli enti e ai soggetti di diritto privato "controllati, partecipati, finanziati e vigilati dalle pubbliche amministrazioni", applicando nei loro confronti nella maniera più estesa possibile le regole contenute nel decreto legislativo 33/2013 che riguardano la pubblicazione dei bilanci e dei compensi di dirigenti e consulenti. Per maggiori informazioni cliccare su "Accedi al Provvedimento".

 
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Il ministro per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione Gianpiero D'Alia ha firmato e trasmesso alla Corte dei Conti una circolare volta a chiarire l'ambito di applicazione delle regole di trasparenza e degli obblighi di pubblicazione dei dati sugli enti economici e sulle società controlla ... Continua a leggere

 
GIURISPRUDENZA

Regioni: e' illegittima sia la stabilizzazione di dipendenti senza concorso, in assenza di comprovate ed insuperabili esigenze, sia le disposizioni che permettono alle amministrazioni regionali la potestà di indizione di concorsi interamente riservati

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

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In virtù della giurisprudenza della Corte Costituzionale, la regola del pubblico concorso va applicata ai sensi dell’art. 97 Cost. anche al personale delle regioni - materia sottoposta alla potestà legislativa esclusiva di queste - da ciò consegue che non solo la stabilizzazione di dipendenti senzaconcorso, in assenza di comprovate ed insuperabili esigenze dell’ente pubblico, è del tutto illegittima, ma lo sono anche quelle disposizioni che permettono alle amministrazioni regionali la potestà di indizione di concorsi interamente riservati (sentenza n. 169 del 2010) ovvero laddove i bandi possono fissare un limite minimo, da espandere discrezionalmente in sede di concorso, di posti riservati ai dipendenti. Simili previsioni, oltre a contrastare con il suddetto principio del pubblico concorso, sono illegittime anche in riferimento ai principi di uguaglianza e di buon andamento della pubblica amministrazione (sentenze n. 137 del 2013, nn. 99 e 51 del 2012). Quindi resta ammessa solamente l’ipotesi di un parziale riserva, poiché il concorso pubblico, per essere tale, deve essere aperto all’esterno e la riserva di posti a personale già dipendente oppure a particolari categorie deve essere giustificata da puntuali requisiti, ossia dalla peculiarità delle funzioni che il personale deve svolgere o da specifiche necessità funzionali dell’amministrazione (sentenza n. 99 del 2012): nel caso di specie la giustificazione può essere quella dei posti messi a concorso di ingegnere con particolari specializzazioni. Ma lo svolgimento di un concorso con posti riservati, così come sottolineato dal TAR, deve rimanere un unico concorso nel quale i concorrenti esterni ed interni partecipano in condizioni di parità di fronte alle prove previste dal bando di concorso, e della riserva potrà tenersi conto al momento della redazione della graduatoria finale dei vincitori. Solo in tale momento eventuali candidati idonei interni all’amministrazione che ha bandito il concorso potranno eventualmente superare concorrenti esterni con voto migliore, in quanto dotati di un titolo di preferenza, alla stregua delle previsioni del d.P.R. n. 497/1994 circa la presentazione dei documenti attestanti il possesso dei titoli di riserva successivamente alle prove orali. E’ del tutto evidente che una diversa regolamentazione, ossia quella di prove preselettive separate tra esterni ed interni, se non anche quella della separazione delle prove scritte ed orali tra le due categorie, condurrebbe inevitabilmente a una struttura procedimentale di un concorso del tutto duplice e quindi, in buona sostanza, a due concorsi, l’uno pubblico e l’altro totalmente interno, la cui ammissibilità, come si è visto, difficilmente può superare il vaglio della legittimità costituzionale, fatte salve circostanze eccezionali (sentenza n. 205 del 2004). Senza contare poi, come evidenziato in primo grado, che due diverse preselezioni potrebbero costituire un meccanismo di riserva intermedia a favore dei candidati interni, potendo anche eventualmente amplificare la riserva di base già prevista. Per scaricale la sentenza integrale cliccare su "Accedi al Provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

 
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In virtù della giurisprudenza della Corte Costituzionale, la regola del pubblico concorso va applicata ai sensi dell’art. 97 Cost. anche al personale delle regioni - materia sottoposta alla potestà legislativa esclusiva di queste - da ciò consegue che non solo la stabilizzazione di dipendenti senza ... Continua a leggere

 

Processo amministrativo: la legittimazione a proporre opposizione di terzo

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

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L’opposizione di terzo cd. ordinaria, introdotta nell’ordinamento processuale amministrativo con la sentenza n. 177 del 17 maggio 1995 della Corte costituzionale, è stata disciplinata dall’art. 108, comma 1, c.p.a., secondo il quale: "Un terzo può fare opposizione contro una sentenza del tribunaleamministrativo regionale o del Consiglio di Stato pronunciata tra altri soggetti, ancorché passata in giudicato, quando pregiudica i suoi diritti o interessi legittimi". Prima della citata sentenza della Corte Costituzionale, la tutela del terzo, che avesse subito un pregiudizio diretto dalla sentenza amministrativa, veniva assicurata attraverso vari strumenti processuali, affinati in via interpretativa dalla giurisprudenza di questo Consiglio, prevedendosi: - una nozione estesa della legittimazione ad appellare; - un’ampia possibilità di intervento nel giudizio di secondo grado; - la teorizzata possibilità di introdurre nel giudizio amministrativo la chiamata di terzo jussu judicis. L’art. 108 del c.p.a. ha allineato in linea di principio il processo amministrativo a quello civile, prevedendo alla stregua dell’art. 404 c.p.c., sia l’opposizione di terzo cd. ordinaria che quella cd. revocatoria. Allo stesso modo di quanto dispone l’art. 404 c.p.c., infatti, anche l’attuale formulazione dell’art. 108, comma 1, c.p.a., dopo le modifiche portate dal d.lgs. n. 195/2011, incentra la legittimazione a proporre opposizione: a) sulla mancata partecipazione al giudizio conclusosi con la sentenza opposta; b) sul pregiudizio che reca la sentenza ad una posizione giuridica di cui l’opponente risulti titolare. Quanto al primo dei due presupposti, va chiarito che la nozione di terzo va parametrata su quella di parte e – se si tratta di una sentenza che ha deciso su posizioni di interesse legittimo – deve tenere conto della nozione di parte in senso formale nel suo significato riguardante il giudizio amministrativo di legittimità. Quindi, ai fini dell’opposizione di terzo ordinaria, quale ‘terzo’ deve ritenersi il litisconsorte necessario pretermesso, ma non anche i successori delle parti a titolo universale o particolare (Cons. St., Sez. IV, 3 settembre 2008, n. 4109), ovvero i creditori o aventi causa, che possono, invece, utilizzare lo strumento della cd. opposizione revocatoria. Pertanto, il litisconsorte necessario pretermesso (dunque, il controinteressato cui non sia stato notificato il ricorso di primo grado) deriva la sua legittimazione a proporre l’opposizione di terzo direttamente dalla sua qualità soggettiva, a differenza degli altri soggetti ‘terzi’ (siano stati anch’essi legittimati ad impugnare il provvedimento e che vi abbiano fatto acquiescenza, ovvero che siano titolari posizioni di posizioni secondarie derivate, rispetto a quelle di cui siano titolari le parti necessarie del giudizio). Quanto alla delimitazione del secondo dei due presupposti, ossia quella del ‘pregiudizio’, mentre nel caso del litisconsorte necessario pretermesso la lesione della sua sfera giuridica deriva in re ipsa dal riconoscimento stesso della sua condizione processuale e dalla sentenza che abbia annullato l’atto per lui favorevole, la questione richiede maggiori indagini per il caso in cui una sentenza (o la sua esecuzione) arrechi un pregiudizio ad una posizione giuridica riferibile ad un soggetto non definibile quale controinteressato e dunque quale litisconsorte necessario pretermesso. Al riguardo, osserva la Sezione che, per la pacifica giurisprudenza, per ‘controinteressato’ si deve intendere quel soggetto titolare di un interesse alla conservazione dell’atto o alla mancata adozione dell’atto, che il ricorrente intende superare, individuato nell’atto stesso o facilmente individuabile (come chiarito da Cons. St., Ad. Plen., 8 maggio 1996, n. 2): ebbene, il controinteressato pretermesso nel caso di mancato coinvolgimento in giudizio assume la qualifica di litisconsorte necessario pretermesso e può agire con lo strumento di cui all’art. 108, comma 1, c.p.a. Accanto a quest’ultima figura, però, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato – nella pronuncia n. 2 del 2007 – ha chiarito che esistono altre tipologie di controinteressato, individuandole nel controinteressato sopravvenuto e nel controinteressato occulto, ossia o in colui che abbia conseguito un titolo abilitativo, un beneficio o uno status da un provvedimento ulteriore conseguente alla conclusione di un procedimento autonomo rispetto a quello presupposto già impugnato, ovvero in colui che sia sostanzialmente un controinteressato (in quanto la sentenza di accoglimento del ricorso lederebbe in via immediata l’interesse che questi nutre alla conservazione del provvedimento amministrativo o alla sua mancata adozione), ma non sia facilmente individuabile dalla lettura dell’atto impugnato. Quest’ultimi – per proporre l’opposizione di terzo e non avendo la qualità di controinteressato cui andava notificato il ricorso originario – devono risultare titolari di una posizione giuridica autonoma e incompatibile, come in tutte le altre ipotesi nelle quali un terzo pretenda di proporre opposizione. In una ben diversa situazione si trovano coloro che – come gli odierni opponenti – sono titolari di una posizione secondaria, e pertanto accessoria e riflessa, ad es. perché hanno stipulato un contratto con una delle parti necessarie (nella specie, con la società controinteressata in primo grado, ma il principio è ugualmente applicabile anche all’avente causa del ricorrente principale). L’ordinamento – per i titolari delle posizioni secondarie, accessorie e riflesse – non solo non ha previsto il conferimento della qualità di parte necessaria del processo (sicché risultano infondati i primi due motivi d’appello), ma, inoltre, non ha previsto alcun autonomo rimedio di impugnazione avverso la sentenza che sia sfavorevole al proprio dante causa, titolare della situazione primaria, autonoma e sostanziale. La situazione primaria, autonoma e sostanziale (a parte la posizione del ricorrente) è riferibile alla figura del controinteressato in senso stretto, al c.d. controinteressato sostanziale che sia beneficiario dell’atto impugnato (ma in esso non menzionato espressamente) ed a quella del beneficiario del provvedimento finale del procedimento, ovvero successivo e connesso a quello presupposto, originariamente impugnato. A differenza della parte necessaria pretermessa, il titolare della posizione secondaria, accessoria e riflessa (pur potendo intervenire nel giudizio, presentare la domanda di fissazione di udienza e proporre il regolamento preventivo di giurisdizione: Sez. IV, 31 luglio 1981, n. 891, Sez. VI, 15 marzo 1977, n. 239), non è una parte necessaria, si trova in una posizione processuale subordinata a quella della parte principale, non può ampliare in alcuna sede l’oggetto della controversia (o porre in essere atti che comportino la disponibilità del rapporto controverso) e non è legittimato a proporre opposizione avverso la sentenza (di primo o di secondo grado) lesiva per il titolare della posizione principale. Egli (sia o meno intervenuto nel corso del giudizio, anche in sede di appello) non è comunque legittimato a proporre l’opposizione di terzo ordinaria, proprio perché per la pacifica dottrina e giurisprudenza la relativa legittimazione va riconosciuta unicamente al litisconsorte necessario pretermesso ed al titolare di una posizione autonoma, incompatibile e prevalente (cfr. Sez. IV, 20 maggio 1996, n. 655). Infatti, la sussistenza di un interesse ad intervenire nel giudizio (di cui sia parte il dante causa, titolare della posizione giuridica oggetto di una controversia) non comporta che sussista anche la legittimazione ad impugnare la sentenza lesiva per il dante causa (Ad. Plen., 11 giugno 2001, n. 3). Al riguardo, va notato che, prima delle modifiche portate dal d.lgs. 195/2011, il comma 1 dell’art. 108 c.p.a. faceva riferimento esplicito al terzo "titolare di una posizione autonoma e incompatibile", che nel testo vigente è venuta meno. Questa eliminazione non deve far ritenere, però, che sia stato esteso l’utilizzo dello strumento de quo anche ai soggetti titolari di una posizione derivata. La novella, infatti, ha voluto evitare che possa essere richiesto al litisconsorte pretermesso una prova diversa e più gravosa rispetto a quella della sua pretesa processuale alla non integrità del contraddittorio, che inficia la sentenza opposta. La diversità tra le due posizioni porta anche a valutare in modo differente gli strumenti a disposizione delle due categorie di soggetti, giacché, nel caso di litisconsorte pretermesso, la sua opposizione ha un marcato tratto rescindente, tendendo alla demolizione della sentenza ed alla ripetizione del giudizio; nel caso, invece, del terzo titolare di una posizione autonoma e incompatibile l’opposizione ha natura rescindente e rescissoria, poiché mira anche all’accertamento di una pretesa in conflitto con quella accertata giudizialmente. Resta a questo punto da chiarire cosa debba intendersi per posizione giuridica autonoma e incompatibile. Innanzitutto, l’interesse fatto valere non deve essere un interesse di mero fatto, ma una situazione giuridica soggettiva. Inoltre, la situazione giuridica in questione deve essere autonoma, ossia non deve essere direttamente incisa dalla sentenza opposta, né deve risultare in posizione di derivazione o dipendenza rispetto a quella oggetto di accertamento giudiziale. Come rilevato da Cons. St., sez. IV, 18 novembre 2013, n. 5451, "la legittimazione a proporre opposizione di terzo nei confronti della decisione del giudice amministrativo resa tra altri soggetti va riconosciuta: a) ai controinteressati pretermessi; b) ai controinteressati sopravvenuti; c) ai controinteressati non facilmente identificabili; d) in generale, ai terzi titolari di una situazione giuridica autonoma e incompatibile, rispetto a quella riferibile alla parte risultata vittoriosa per effetto della sentenza oggetto di opposizione, con esclusione, di conseguenza, dei titolari di un diritto dipendente, ovvero di soggetti interessati di riflesso, non sussistendo per questi, per definizione, il requisito dell'autonomia della loro posizione soggettiva". Infine, la situazione giuridica deve essere ‘incompatibile’, nel senso che l’accertamento giudiziale deve aver prodotto la contemporanea esistenza di poteri e facoltà su di un bene della vita che non possono coesistere, sotto forma di convergenza di interessi ovvero di divergenza di interessi (Cons., St., sez. V, 28 settembre 2011, n. 5391; Cass., Sez. Un., 11 febbraio 2003, n. 1997).

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V

 
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L’opposizione di terzo cd. ordinaria, introdotta nell’ordinamento processuale amministrativo con la sentenza n. 177 del 17 maggio 1995 della Corte costituzionale, è stata disciplinata dall’art. 108, comma 1, c.p.a., secondo il quale: "Un terzo può fare opposizione contro una sentenza del tribunale ... Continua a leggere

 

Termini dimezzati per l'appello sul giudizio di ottemperanza

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza breve del Consiglio di Stato Sez. V

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In base al combinato disposto degli artt. 114, commi 8 e 9, e 87, comma 3, c.p.a., l’appello su un giudizio di ottemperanza, in quanto procedimento che segue il rito della Camera di consiglio segue i termini ordinari dimezzati. Pertanto, in ipotesi di termine lungo per appellare la sentenza di ottemperanza, l’ordinario termine di sei mesi per l’impugnazione (ex art. 92 c.p.a. in relazione all’art. 327 c.p.c., che successivamente all'entrata in vigore dell'art. 46, comma 17, l. 18 giugno 2009, n. 69, ha ridotto da un anno a sei mesi dalla pubblicazione della sentenza il termine lungo previsto per la proposizione dell'appello - cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 27 dicembre 2011, n. 6842) è ridotto della metà ed è, quindi, pari a tre mesi. Infatti, in base all’art. 87, comma 3, c.p.a., nei giudizi di ottemperanza tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne, nei giudizi di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti (cfr., per analogo caso di procedimento trattato con il rito camerale, in materia di silenzio ex artt. 31 e 117 c.p.a., Consiglio di Stato, sez. III, 21 maggio 2012, n. 2929).

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza breve del Consiglio di Stato Sez. V

 
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In base al combinato disposto degli artt. 114, commi 8 e 9, e 87, comma 3, c.p.a., l’appello su un giudizio di ottemperanza, in quanto procedimento che segue il rito della Camera di consiglio segue i termini ordinari dimezzati. Pertanto, in ipotesi di termine lungo per appellare la sentenza di ott ... Continua a leggere

 

Concorsi pubblici: le commissioni esaminatrici possono stabilire i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali anche dopo "la prima riunione" purché in momento anteriore alla valutazione, e quindi, nel caso delle prove scritte, all'avvio delle operazioni di correzione degli elaborati

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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La Quarta Sezione del Consiglio di Stato ha evidenziato nella sentenza in esame come sebbene l'art. 12 comma 1 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 (Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e dellealtre forme di assunzione nei pubblici impieghi) preveda che le commissioni esaminatrici debbano stabilire i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali "alla prima riunione", nondimeno è giurisprudenza consolidata che, proprio in vista delle esigenze di trasparenza sottese alla disposizione, è ammissibile che i criteri siano determinati anche in un momento successivo, e quindi anche dopo lo svolgimento delle prove, purché in momento anteriore alla valutazione, e quindi, nel caso delle prove scritte, all'avvio delle operazioni di correzione degli elaborati (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 25 maggio 2012, n. 3062, Sez. IV, 22 settembre 2005, n. 4989, Sez. VI, 25 luglio 2003, n. 4284). Aggiunge poi il Collegio che per un verso è giurisprudenza affatto consolidata che il voto numerico costituisce valida e sufficiente estrinsecazione del giudizio valutativo delle prove dei concorsi pubblici, salve specifiche diverse previsioni, come ad esempio per i concorsi notarili, ove è espressamente richiesto che il giudizio di non idoneità sia motivato (cfr. tra le tante, e solo più recenti, Cons. Stato, Sez. V, 13 febbraio 2013, n. 866, Sez. IV, 2 novembre 2012 n. 5581, Sez. VI, 13 giugno 2012, n. 3492).

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

 
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La Quarta Sezione del Consiglio di Stato ha evidenziato nella sentenza in esame come sebbene l'art. 12 comma 1 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 (Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle ... Continua a leggere

 

Semplificazione: le "linee guida" regionali entrano nel corpo della disposizione legislativa di riferimento

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Si segnala la sentenza della Corte costituzionale n. 11/2014, relativa a L.r.Toscana 69/2012 in materia di semplificazione. La sentenza si sofferma, tra l'altro, sul rapporto esistente tra disposizione legislativa e atti di normazione secondaria di carattere tecnico, come le 'Linee guida'. La Cortegiunge alla conclusione che essi facciano corpo unico con la disposizione legislativa. La violazione di tali atti secondari si traduce in violazione della norma interposta e quindi in illegittimità costituzionale ove la norma legislativa di riferimento costituisca principio fondamentale. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al provvedimento".

 
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Comuni: la Consulta aggiorna il concetto di funzioni fondamentali facendovi rientrare le funzioni afferenti i servizi pubblici locali e salva la disciplina statale sull'esercizio associato delle funzioni fondamentali per i Comuni fino a 5000 abitanti

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Si segnala la sentenza n.22/2014 della Corte costituzionale che risolve diverse questioni di costituzionalità sollevate in relazione all'art.19 d.l.95/2012. In primo luogo la Corte aggiorna il concetto di funzioni fondamentali dei Comuni, facendovi rientrare anche le funzioni che attengono ai servizi pubblici locali. La definizione di dette funzioni da parte dello Stato non interferisce con la disciplina delle stesse che spetterà allo Stato o alle Regioni a seconda della materia interessata. In secondo luogo la Corte fa salva la disciplina statale sull'esercizio obbligatoriamente associato delle funzioni fondamentali da parte dei Comuni con popolazione fino a 5000 abitanti in virtù del titolo di legittimazione 'coordinamento della finanza pubblica'. Per scaricare la sentenza cliccare su "Accedi al Provvedimento".

 
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Incarichi dirigenziali: decide il giudice ordinario sull'impugnazione dei provvedimenti adottati dall'Amministrazione di conferimento o revoca dell'incarico dirigenziale

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 20.2.2014

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Ai sensi dell’art. 63 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, il provvedimento di conferimento o di revoca di un incarico dirigenziale si configura come atto di gestione del rapporto di lavoro, con la conseguenza che la relativa controversia rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, e ciò a decorrere dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 29 del 1993, il cui art. 68, come sostituito dall’art. 29, d.lgs. n. 80 del 1998 ed ora confermato dall’art. 63 citato attribuisce alla giurisdizione ordinaria tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, incluse quelle concernenti l’assunzione, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali, con esclusione delle procedure concorsuali e con le eccezioni normativamente previste. Per approfondire cliccare su "Accedi al provvedimento".

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. VI del 20.2.2014

 
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Ai sensi dell’art. 63 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, il provvedimento di conferimento o di revoca di un incarico dirigenziale si configura come atto di gestione del rapporto di lavoro, con la conseguenza che la relativa controversia rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, e ciò a decorrer ... Continua a leggere

 

Giudizio elettorale: deve essere annullato integralmente il verbale di proclamazione degli eletti se la lista che non doveva essere ammessa ha ottenuto un numero di voti tali da incidere sull'esito finale

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 17.2.2014

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L’avvenuta partecipazione alla competizione elettorale di una lista che non doveva esservi ammessa - qualora essa abbia ottenuto un numero di voti tanto consistente da avere avuto una decisiva incidenza sull’esito finale – comporta l’integrale annullamento del verbale di proclamazione degli eletti,con la conseguente rinnovazione delle relative operazioni (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 29 ottobre 2012, n. 5504; Sez. V, 31 marzo 2012, n. 1889; Sez. V, 20 marzo 2006, n. 1437; Sez. V, 18 giugno 2001, n. 3212; Sez. V, 10 maggio 1999, n. 535).

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. V del 17.2.2014

 
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Enti Locali: chiarimenti sulla predisposizione della relazione di fine mandato

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Il Ministero dell'Interno in relazione ad alcune richieste di chiarimento fa presente che l’ultimo anno da considerare nella predisposizione della relazione di fine mandato - da redigere non oltre il novantesimo giorno antecedente la data di scadenza del mandato stesso - è quello dell’ultimo esercizio amministrativo e finanziario gestito. Pertanto, gli enti locali interessati dal prossimo turno elettorale, sono tenuti, comunque, a considerare l’esercizio 2013 come ultimo anno della predetta relazione, pur in mancanza dell’avvenuta approvazione del relativo rendiconto di gestione. In tal ultimo caso, si farà riferimento ai dati di pre-consuntivo dell’anno 2013 sulla base dei dati di chiusura tecnico-contabile dell’esercizio. E’, infatti, di tutta evidenza l’importanza di considerare l’ultimo anno in cui la gestione amministrativa e finanziaria si è conclusa ai fini di dare una informazione esaustiva e trasparente dell’ultima fase del mandato svolto dall’organo politico dell’ente.

 
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Sospensione dalla carica di Consigliere comunale: per il Consiglio di Stato non sussiste alcun eccesso di delega del d.lgs. n. 235/2012 rispetto alla legge anticorruzione n. 190/2012 della sospensione quale effetto di condanne penali "non definitive"

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. III del 14.2.2014

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Nel giudizio in esame l’appellante, già ricorrente in primo grado, è stato proclamato eletto consigliere comunale, in surrogazione di un consigliere dimissionario. Il Prefetto lo ha dichiarato sospeso di diritto dalla carica, ai sensi dell’art.11, comma 1, lettera a) del decreto legislativo n. 235/2012. Questa disposizione prevede che sia sospeso di diritto dalla carica il consigliere comunale condannato, con sentenza non definitiva, per determinati reati. Se in seguito la condanna diviene definitiva, il consigliere sospeso decade dalla carica; se invece sopravviene una nuova decisione (sia pure essa stessa non definitiva) che elimina la condanna la sospensione cessa, e l’interessato viene reintegrato nelle funzioni; in ogni caso, lo stato di sospensione non può eccedere una certa durata, e cessa di diritto allo scadere del termine se nel frattempo la sentenza non definitiva non è stata né confermata né riformata. Innanzi al Consiglio di Stato laprima e principale questione di costituzionalità che viene dedotta attiene ad un supposto "eccesso di delega". Premesso che il d.lgs. n. 235/2012 è un testo unico emanato sulla base della delega conferita dal legislatore con l’art. 1, commi 63 e 64 della legge n. 190/2012 (detta anche legge anticorruzione), il ricorrente sostiene che la legge delega indica esclusivamente le condanne penali "definitive" quali presupposto della incandidabilità alla carica di consigliere comunale, ovvero della decadenza dalla stessa carica (se l’impedimento si verifica dopo l’assunzione della carica) o infine della sospensione. Ciò posto, sempre secondo il ricorrente, là dove il testo unico (decreto delegato) prevede la sospensione quale effetto di condanne penali "non definitive", vi sarebbe un contrasto con la legge delega. Il Collegio osserva, innanzi tutto, che la "sospensione" è, per definizione, uno stato transitorio, necessariamente limitato nel tempo, e destinato a concludersi o con la definitiva cessazione dall’incarico (decadenza) o con la reintegrazione nelle funzioni. Sembra evidente dunque che la "sospensione" non possa dipendere, per sua stessa natura, che da una condanna non definitiva. Se invece la condanna è definitiva, vi è la decadenza, non la sospensione. Se la legge n. 190/2012 avesse veramente inteso accomunare la sospensione e la decadenza nel riferimento alla condanna "definitiva" avrebbe fatto un non senso; si sarebbe trattato, in realtà, della soppressione dell’istituto della "sospensione" e tanto valeva dirlo apertamente. Ciò appare ancor più evidente se si considera che nel disposto del d.lgs. n. 235/2012 (come del resto nella normativa anteriore) le fattispecie penali che dànno luogo alla sospensione sono un campo più ristretto di quello delle fattispecie che comportano la decadenza. Questa differenza si spiega ed appare perfettamente logica se si correla la sospensione ad una condanna non definitiva: proprio perché la posizione penale dell’interessato è ancora sub iudice la sospensione si giustifica solo per le ipotesi più gravi di reato; quando invece l’illecito penale è definitivamente accertato la decadenza si giustifica anche per ipotesi relativamente meno gravi. Si è visto, dunque, che subordinare la sospensione all’esistenza di una condanna "definitiva" equivale a cancellare la figura della sospensione. Ci si chiede, ora, se sia credibile che dettando la legge n. 190/2012 il legislatore avesse questa intenzione. Per rispondere a questa domanda è utile ripercorrere le evoluzioni della normativa in materia. L’istituto della sospensione degli amministratori regionali e degli enti locali assoggettati a un procedimento penale ha avuto la prima manifestazione nell’art. 15 della legge n. 55/1990. La sospensione si verificava al momento del rinvio a giudizio, peraltro limitatamente al delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) ovvero al favoreggiamento dello stesso. La sospensione si trasformava in decadenza al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna. E’ poi intervenuta la legge n. 16/1992, art. 1, che ha modificato radicalmente il citato art. 15, introducendovi la nuova figura della "incandidabilità" alle elezioni amministrative e regionali. La norma disponeva l’incandidabilità in caso di condanna "anche non definitiva" per una serie di fattispecie penali di una certa gravità; per altre fattispecie meno gravi prevedeva che l’incandidabilità sorgesse per effetto di una condanna definitiva, o anche di una condanna in primo grado confermata in appello. Sin qui la norma si riferiva alle sentenze penali pronunciate prima dell’elezione. Nel caso che le condanne in questione sopravvenissero dopo l’elezione, la norma prevedeva la sospensione dalla carica, convertita di diritto in decadenza al momento del passaggio in giudicato. Queste disposizioni sono state trasfuse, con qualche modifica, nel testo unico enti locali (d.lgs. n. 267/2000), articoli 58 e 59. L’art. 58 concerneva l’incandidabilità conseguente alla condanna definitiva (era eliminato ogni riferimento alle condanne non definitive; l’art. 59 la sospensione conseguente alla condanna non definitiva (e, per talune fattispecie, alla condanna in primo grado confermata in appello). Il testo degli artt. 58 e 59 del t.u.e.l. è stato a sua volta trasfuso, senza rilevanti variazioni, nel testo degli artt. 10 e 11 del d.lgs. n. 235/2012. Da questa disamina risulta dunque che lo sviluppo della normativa in materia, anteriormente alla legge delega del 2012 e a partire dalla legge n. 55/1990, è stato sempre coerente nel prevedere lo strumento della sospensione dalla carica, in presenza di un procedimento penale per fattispecie penali di una certa gravità, pur in assenza di una condanna definitiva; sopravvenendo la quale alla sospensione subentra la decadenza. Anzi i vari passaggi hanno affinato la disciplina della sospensione, nel trasparente scopo di rendere tale strumento maggiormente efficace, e non già di renderlo evanescente. Ci si deve ora dar carico dell’interpretazione del "criterio" di cui all’art. 1, comma 63, lettera (m), della legge delega: «disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all'affidamento della carica». Secondo l’appellante, si è visto sopra, questa formulazione farebbe intendere che il legislatore delegante abbia voluto uniformare la disciplina della sospensione a quella della decadenza, facendo dipendere entrambe da una sentenza "definitiva" di condanna. Questa tesi interpretativa può sembrare suggestiva ove si abbia riguardo esclusivamente all’aspetto letterale. Ma, com’è noto, il criterio letterale è uno solo degli strumenti a disposizione dell’interprete, il quale deve usare anche gli strumenti della razionalità, della coerenza logica, della sistematica, etc., per ricostruire la effettiva volontà del legislatore. Comunque si voglia risolvere la questione interpretativa ora posta, dalla lettera (m) emerge senza possibile ambiguità, proprio sul piano letterale, che il legislatore delegante non ha voluto sopprimere l’istituto della sospensione, ma anzi conservarlo, tanto è vero che ha chiesto al legislatore delegato di "disciplinarlo", vale a dire recepirlo nell’emanando testo unico. Peraltro, come si è già detto al punto 6, il concetto stesso di "sospensione", in questa materia, reca in sé il necessario riferimento ad un presupposto (in questo caso la condanna penale) non ancora definitivo. Se vi è una condanna definitiva, non avrebbe alcun senso applicare una sospensione; a maggior ragione in quanto la condanna definitiva produce di diritto la "decadenza" (peraltro non tutte le fattispecie penali che comportano decadenza comportano anche la sospensione, mentre tutte le fattispecie che comportano la sospensione comportano anche la decadenza). In questa situazione, anche volendo tutto concedere alla tesi interpretativa dell’appellante, resta il fatto che sul piano letterale emergono due indicazioni inconciliabili fra loro: da un lato, la dichiarata volontà di conservare nel sistema l’istituto della sospensione (che implica per definizione il riferimento ad un processo in itinere) e dall’altro lato la (supposta) volontà di subordinare la sospensione all’esistenza di una condanna definitiva. L’esegesi meramente letterale non permette di sciogliere questa contraddizione. E’ quindi giocoforza ricorrere ad altri criteri. Il primo, già di per sé risolutivo, è quello per cui si deve preferire l’interpretazione che attribuisce un senso alla frase, piuttosto che quella che la rende priva di senso e di effetti pratici. Il secondo è quello per cui si deve preferire l’interpretazione più corrispondente alla ratio legis ed alla presumibile volontà del legislatore (ricostruibile anche mediante il riferimento al contesto politico-programmatico, alla evoluzione storica della legislazione, etc.), e più coerente con il sistema. In questo caso, ciascuno di questi criteri porta univocamente a rigettare la tesi interpretativa dell’appellante. Oltre a tutto quanto si è già detto a proposito dell’inquadramento sistematico, basti ricordare che l’intera legge n. 190/2012 è stata concepita con la dichiarata finalità di rendere più efficaci e penetranti gli strumenti di prevenzione e repressione della corruzione, anche per adempiere agli obblighi internazionali assunti in questo senso. Concludendo sul punto, la prospettazione dell’eccesso di delega appare manifestamente infondata. L’appellante propone altresì una seconda questione di costituzionalità sotto il profilo di una presunta illogicità, ovvero irragionevolezza, violazione del principio di uguaglianza, etc.. In sintesi, la questione si basa sulla circostanza che il regime della sospensione è differenziato per le varie fattispecie penali, cosicché può accadere che la sospensione consegua, di diritto ad una condanna a pena più lieve, e non consegua invece ad una condanna a pena più onerosa, solo perché la prima è stata pronunciata per un certo tipo di reato, e la seconda per un reato di altro tipo (in concreto l’interessato è stato sospeso dalla carica perché condannato a quattro mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 323 c.p., abuso d’ufficio; mentre reati di altro genere non comportano la sospensione se la pena irrogata è inferiore a due anni di reclusione). Il Collegio ritiene manifestamente infondata anche questa eccezione. Infatti non è irragionevole che il legislatore differenzi il regime della sospensione dalla carica a seconda delle tipologie di reato. La sospensione dalla carica va intesa, in sostanza, come uno strumento cautelare: la norma vuol allontanare dall’esercizio di determinate funzioni pubbliche il soggetto che, avendo riportato una condanna penale sia pur non definitiva, presenta un apprezzabile rischio di esercitarle in modo illecito o comunque contrario al pubblico interesse. E’ intuitivo che, a parità di pena irrogata, le condanne per taluni tipi di reato (ad esempio: i reati del pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione) hanno un valore indiziario più significativo rispetto alle condanne per altri tipi di reato. S’intende che le valutazioni compiute dal legislatore al riguardo sono altamente discrezionali, e come tali opinabili: ma nel caso in esame non sono irragionevoli. Per scaricare la sentenza per esteso cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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L'esistenza di una disparità di trattamento da parte dell'amministrazione può costituire motivo di ricorso al giudice amministrativo soltanto in ipotesi di situazioni assolutamente identiche

segnalazione del Prof. Avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV

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L'esistenza di una disparità di trattamento da parte dell'amministrazione può costituire motivo di ricorso al giudice amministrativo soltanto in ipotesi di situazioni assolutamente identiche Per consolidata giurisprudenza (ex aliis Cons. Stato Sez. IV, 08-01-2013, n. 28) ribadita da ultimo dal Consiglio di Stato nella sentenza in esame "l'esistenza di una disparità di trattamento da parte dell'amministrazione può costituire motivo di ricorso al G.A. soltanto in ipotesi di situazioni assolutamente identiche, gravando comunque sul ricorrente il relativo onere probatorio"; nel caso di specie la stessa appellante, pur riproponendo la censura, afferma che non v’era identità, ma similitudine (si trattava di osservazioni afferenti la rilocalizzazione) e, pertanto, la originaria e riproposta sesta censura va disattesa. Per approfondire cliccare su "Accedi al Provvedimento".

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L'esistenza di una disparità di trattamento da parte dell'amministrazione può costituire motivo di ricorso al giudice amministrativo soltanto in ipotesi di situazioni assolutamente identiche Per consolidata giurisprudenza (ex aliis Cons. Stato Sez. IV, 08-01-2013, n. 28) ribadita da ultimo dal Con ... Continua a leggere

 
 
 
 
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