Gazzetta Informa News 20 Maggio 2013 - Area Amministrativa


NORMATIVA

Il Responsabile Anticorruzione non può contemporaneamente rivestire il ruolo di responsabile dell'ufficio per i procedimenti disciplinari

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E’ stato chiesto alla Commissione se il Segretario comunale, quale responsabile per la prevenzione della corruzione e, al tempo stesso, responsabile dell’ufficio per i procedimenti disciplinari, versi in situazioni di conflitto di interesse o di incompatibilità. Risposta: "La Commissione ha espresso l’avviso che, anche alla luce di quanto previsto dalla circolare n.1/2013 del Dipartimento della Funzione pubblica, il responsabile della prevenzione della corruzione non può rivestire contemporaneamente il ruolo di responsabile dell’ufficio per i procedimenti disciplinari, versandosi in tale ipotesi in una situazione di potenziale conflitto di interessi." (Civit, risposta a quesito del marzo 2013)

 
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GIURISPRUDENZA

Il giudizio di ottemperanza: differenza tra violazione e elusione del giudicato da parte della P.A.

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La giurisprudenza ha sottolineato che nel giudizio di ottemperanza può essere dedotta come contrastante con il giudicato non solo l’inerzia della pubblica amministrazione cioè il non facere (inottemperanza in senso stretto), ma anche un facere, cioè un comportamento attivo, attraverso cui si realizzi un’ottemperanza parziale o inesatta ovvero ancora la violazione o l’elusione attiva del giudicato (C.d.S., sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6501). Il nuovo atto emanato dall’amministrazione, dopo l’annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento illegittimo, può essere considerato adottato in violazione o elusione del giudicato solo quando da quest’ultimo derivi un obbligo assolutamente puntuale e vincolato, così che il suo contenuto sia integralmente desumibile nei suoi tratti essenziali dalla sentenza (C.d.S., sez. VI, 3 maggio 2011, n. 2602; sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 70; 4 ottobre 2007, n. 5188), con la conseguenza che la verifica della sussistenza del vizio di violazione o elusione del giudicato implica il riscontro della difformità specifica dall’atto stesso rispetto all’obbligo processuale di attenersi esattamente all’accertamento contenuto nella sentenza da eseguire (C.d.S., sez. IV, 21 maggio 2010, n. 3233; sez. VI, 7 giugno 2011, n. 3415; 5 dicembre 2005, n. 6963). La violazione del giudicato è pertanto configurabile quando il nuovo atto riproduca gli stessi vizi già censurati in sede giurisdizionale ovvero quando si ponga in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla statuizione del giudice, mentre si ha elusione del giudicato allorquando l’amministrazione, pur provvedendo formalmente a dare esecuzione alle statuizioni della sentenza, persegue l’obiettivo di aggirarle dal punto di vista sostanziale, giungendo surrettiziamente allo stesso esito già ritenuto illegittimo (C.d.S., sez. IV, 1° aprile 2011, n. 2070, 4 marzo 2011, n. 1415; 31 dicembre 2009, n. 9296). (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 2.5.2013, n. 2400)

 
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Il giudizio di ottemperanza deve trovare puntuale riscontro nel dictum in precedenza emesso e del quale si chiede l’esecuzione, non potendosi discostare dalla portata e dai limiti delle statuizioni recate in sentenza

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Il giudizio di ottemperanza è un momento processuale particolarmente importante nel sistema giurisdizionale amministrativo giacchè, in quanto diretto ad ottenere l’esecuzione del dictum rimasto ineseguito si pone come fondamentale strumento processuale con cui assicurare l’effettività della tuteladel privato. Questi, com’è noto, dà inizio al giudizio di legittimità con l’intento specifico di ottenere il risultato dell’attribuzione della concreta utilitas sottesa al chiesto annullamento del provvedimento ( in primis, Cass. SS. UU. 22 luglio 1999 n.500) Può accadere allora che le sole statuizioni demolitorie del giudicato non siano sufficienti a garantire all’interessato l’attribuzione del bene della vita dallo stesso rivendicato e dall’Amministrazione illegittimamente negato o compresso: è a questo punto che ove sia stata dichiarata con sentenza passata in giudicato la illegittimità dell’agire amministrativo, il giudice dell’ottemperanza ha cura di accertare l’eventuale avvenuto inadempimento e di valutare la consistenza della dedotta inerzia, nonché dettare le regole per la puntuale esecuzione delle statuizioni rese nella sentenza passata in giudicato eventualmente anche con la nomina di un commissario ad acta. Viene necessariamente in rilievo il rapporto tra giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza e in relazione a tale problematica si riconosce in sede di ottemperanza, al di là delle definizioni di giudicato a formazione successiva (cfr Cons. Stato Sez. V 6 aprile 2009 n.2143) o di giudizio di ottemperanza come prosecuzione del giudizio di cognizione, la sussistenza di momenti più o meno ampi di cognizione, vertenti, in particolare, sull’inadempimento della Pubblica Amministrazione, il tutto accanto a fasi del potere giurisdizionale volte a dare (mera) esecuzione alle statuizioni di merito. Quanto ai primi aspetti si pensi all’ampio spazio dell’attività cognitoria riconosciuta al giudice dell’ottemperanza in materia di riconoscimento e determinazione del risarcimento del danno sin dalla legge n.205 del 2000, per non parlare dei poteri cognitori e di merito ancor più fortemente sottolineati, in tema di pagamento di somme di denaro, "anche a titolo di risarcimento del danno" di cui alle previsioni recate dall’art. 34 ( in ispecie, commi 1 e 4 ) del codice del processo amministrativo. Nondimeno - ed è questa la regola iuris di importanza fondamentale che regge la fattispecie all’esame - la struttura portante del giudizio di ottemperanza come già configurata dall’art.37 della legge n.1034 del 1071 e "conservata", con le opportune integrazioni, dalle previsioni normative recate dagli artt.112-115 c.p.a. è e rimane quella di rimedio giurisdizionale in qualche modo servente il giudizio di cognizione e cioè di esecuzione di una sentenza passata in giudicato. Ciò significa che il giudizio di ottemperanza deve trovare puntuale riscontro nel dictum in precedenza emesso e del quale si chiede l’esecuzione, non potendosi discostare dalla portata e dai limiti delle statuizioni recate in sentenza. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 9.5.2013, n. 2531)

 
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Albo pretorio on line: la pubblicazione all’albo pretorio non è sufficiente a determinare la presunzione assoluta di piena conoscenza dell’atto da parte dei soggetti, ai quali l’atto direttamente si riferisce ed ai quali il provvedimento, ai fini della decorrenza del termine d’impugnazione, deve essere notificato o comunicato direttamente

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L’art. 21 l. n. 1034 del 1971 prevede che il termine decadenziale di sessanta giorni per impugnare l’atto amministrativo decorre dal momento in cui «l’interessato ne abbia ricevuta la notifica, o ne abbia comunque avuta piena conoscenza, o, per gli atti di cui non sia richiesta la notifica individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione, se questa sia prevista da disposizioni di legge o di regolamento» (v. ora art. 41, secondo comma, Cod. proc. amm.). L’art. 124 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) prevede che «tutte le deliberazioni del Comune e della Provincia sono pubblicate mediante affissione all’albo pretorio, nella sede dell'ente, per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge». Il Consiglio di Stato, con orientamento costante, afferma che la pubblicazione all’albo pretorio non è sufficiente a determinare la presunzione assoluta di piena conoscenza dell’atto da parte dei soggetti, ai quali l’atto direttamente si riferisce e interessati a impugnarlo, ai quali il provvedimento, ai fini della decorrenza del termine d’impugnazione, deve essere notificato o comunicato direttamente (da ultimo, Cons. Stato, V, 15 marzo 2011, n. 1589). (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.5.2013, n. 2544)

 
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Nell'ambito del pubblico impiego le mansioni superiori svolte da un dipendente risultano del tutto irrilevanti, sia ai fini economici che ai fini della progressione di carriera

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Il Consiglio di Stato riafferma in questa sede il principio da tempo enunciato da questo Consiglio di Stato, per il quale nell'ambito del pubblico impiego, salvo che la legge disponga altrimenti, le mansioni superiori svolte da un dipendente risultano del tutto irrilevanti, sia ai fini economici che ai fini della progressione di carriera (cfr. Cons. St., sez. IV, sent. n. 5611/2000; sez. V, n. 1079/2000), in quanto il rapporto non è assimilabile a quello di lavoro privato, avendo gli interessi pubblici coinvoltivi natura indisponibile ed anche perché l'attribuzione delle mansioni ed il riconoscimento del correlativo trattamento economico devono avere il proprio indefettibile presupposto nel provvedimento di nomina o d’inquadramento, non potendo tali elementi costituire oggetto di libere determinazioni dei funzionari amministrativi sovraordinati, onde evitare l’elusione del rigoroso principio dell’accesso e della progressione mediante concorso (cfr. anche Cons. St., Ad. pl., sent. 18 novembre 1999 n. 22; sez. VI, sent. 31 maggio 2006 n. 3325). (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.5.2013, n. 2555)

 
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Concorsi pubblici: l’amministrazione, successivamente all’approvazione della graduatoria, può, per specifiche ragioni di tipo organizzativo o finanziario, che devono essere esternate, non procedere alla nomina o spostare in avanti l’adozione dell’atto di nomina

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I procedimenti concorsuali si concludono con l’approvazione della graduatoria, cui segue, normalmente senza soluzione di continuità, l’atto di nomina costitutivo del rapporto giuridico e degli effetti che ne conseguono. L’amministrazione, successivamente all’approvazione della graduatoria, può, per specifiche ragioni di tipo organizzativo o finanziario, che devono essere esternate, non procedere alla nomina o spostare in avanti l’adozione dell’atto di nomina (cfr. Cons. Stato, VI, 21 ottobre 2011, n. 5672). Nel caso, invece, in cui tale adozione sia impedita dall’esistenza di un contenzioso giudiziale – avente ad oggetto, come nella specie, la legittimità di un atto di esclusione – gli effetti giuridici devono essere collegati ad una data anteriore rispetto a quella di adozione del decreto di nomina. Infatti, una volta emanata la sentenza l’atto illegittimo viene annullato con effetto retroattivo, con la conseguenza che viene meno, per una fictio iuris, anche lo spazio temporale esistente tra l’approvazione della graduatoria e l’adozione dell’atto di nomina. In altri termini, considerando come mai adottato l’atto di esclusione, si applica la regola generale che pone in rapporto di stretta successione temporale l’approvazione della graduatoria e l’atto di nomina. Il fenomeno giuridico descritto non è riconducibile, sul piano della qualificazione, alla retroattività in senso proprio dell’atto amministrativo, in quanto la produzione dell’effetto "da tempo anteriore" non deriva da una determinazione volontaria dell’amministrazione ma è connessa alla natura della sentenza di annullamento e, in particolare, all’effetto di ripristinazione proprio del giudicato. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.5.2013, n. 2538)

 
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Enea: per le controversie aventi ad oggetto una retribuzione più adeguata a seguito dell'inquadramento del personale a costo 0 nel livello 9, la data di decorrenza del termine per impugnare le norme contrattuali ritenute lesive e' quella della pubblicazione del contratto collettivo di lavoro sulla Gazzetta Ufficiale

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In merito all’inquadramento nel 9 livello del personale Enea del livello 8.0 e 8.1, a costo zero, nel livello 9.0 mediante attribuzione della retribuzione minima del livello superiore e riduzione del valore degli elementi sopra specificati, il Consiglio di Stato richiama nella sentenza in esame ilproprio precedente in fattispecie analoga (sez. VI, 1 febbraio 2002, n. 568) rilevando come la data di decorrenza del termine per impugnare le norme contrattuali ritenute lesive dai ricorrenti sia quella della pubblicazione del contratto collettivo di lavoro nella gazzetta ufficiale, non potendo essere seguita la tesi secondo cui gli interessati hanno azionato il loro diritto soggettivo perfetto di rango costituzionale ad un'equa retribuzione in relazione alle mansioni esercitate, tutelabile nel termine prescrizionale (e non decadenziale). La tesi, sviluppata con argomentazioni che richiamano l'art. 3 e l'art. 36 della Costituzione, di cui si reclama la diretta applicazione per avvalorare la pretesa ad una retribuzione equa, non tiene conto che, secondo un costante orientamento della giurisprudenza amministrativa (per tutte, C.S., sez.V, n.4399 del 10 agosto 2000), i richiamati precetti costituzionali sono norme di principio, di cui non è possibile invocare la diretta applicazione, in quanto rivolte al legislatore ordinario, alla pubblica amministrazione nell'esercizio dei suoi poteri regolamentari e ai soggetti stipulanti i contratti collettivi nei vari comparti del pubblico impiego. In ogni caso, nel merito, la pretesa dei ricorrenti ad una più elevata retribuzione, sul presupposto della illegittimità dello sviluppo di inquadramento senza corrispondente miglioramento della posizione stipendiale, non può essere condivisa. Gli stessi appellanti riconoscono, infatti, che, nella specie, non c'è stata alcuna assegnazione a mansioni superiori, ma solo un passaggio di livello per effetto di un diverso inquadramento. Per questo motivo non può trovare applicazione il principio sancito dall’art. 2103 cod. civ., ovvero dalle altre norme citate nell’appello (art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001, art. 56 d.lgs. n. 29 del 1993, art. 25 d.lgs. n. 80 del 1998, art. 15 d.lgs. n. 387 del 1998), che, tutte, postulano la corrispondenza tra retribuzione e mansioni e, quindi, l’aumentare dell’una con lo sviluppo delle altre: nella fattispecie in esame, le mansioni affidate agli appellanti sono, infatti, rimaste uguali. Queste considerazioni valgono a respingere l'appello anche nei confronti della previsione contrattuale (riconosciuta legittima dal TAR), che ha disposto l'inquadramento "a costo zero" nel livello 9 del personale del livello 8.0 e 8.1, e priva di rilevanza la contestazione circa il modo in cui la parità di retribuzione è stata ottenuta, cioè mediante conglobazione nel totale di elementi prima riconosciuti. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.5.2013, n. 2549)

 
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In merito all’inquadramento nel 9 livello del personale Enea del livello 8.0 e 8.1, a costo zero, nel livello 9.0 mediante attribuzione della retribuzione minima del livello superiore e riduzione del valore degli elementi sopra specificati, il Consiglio di Stato richiama nella sentenza in esame il ... Continua a leggere

 

La vittoria processuale del Comune che adotta l'atto in limite alla decisione suona come un diniego di giustizia per il ricorrente: per il Consiglio di Stato il ritardo nell'adozione del provvedimento è evenienza patologica che può essere combattuta unicamente con l’azione di accertamento ed adempimento, mentre il pregiudizio derivante dalla tardività dell’adempimento, è materia di pertinenza della successiva ed eventuale azione demolitoria e di quella risarcitoria

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L’azione proposta dall’originario ricorrente è di impugnazione di un atto oggettivamente endoprocedimentale (parere tecnico del dirigente in ordine a proposta di lottizzazione) sul presupposto che esso, sulla base di una prassi invalsa nel Comune di Bari, costituisca in realtà l’epilogo provvedimentale. Lo schema proposto è quindi quello proprio dell’arresto procedimentale. Il ricorrente sostiene cioè che non vi debbano o possano essere sviluppi procedimentali ulteriori, con conseguente immediato pregiudizio per la sfera giuridica connessa ai propri interessi pretensivi. Inappropriato è invece il riferimento all’atto soprassessorio, poichè esso per definizione, come già visto, implica successivi sviluppi nel tempo, ai quali rinvia sub conditione. Ciò nondimeno ad avviso del Collegio difettano, in concreto, i presupposti per definire il parere tecnico negativo, un arresto procedimentale; ed è il riferimento alla "prassi" che appare in proposito dirimente. L’arresto procedimentale che astrattamente giustifica ed anzi impone l’immediata azione di annullamento in base all’equiparazione provvedimentale quoad effectum, non può sfuggire al principio di legalità ed ai suoi corollari di tipicità e tassatività, ed è pertanto configurabile ove tragga origine e fondamento dalla stessa dinamica contemplata dalla legge nell’esegesi che ne da in chiave applicativa il giudice. La prassi, intesa quale costante sperimentazione di protocolli procedimentali, praeter o addirittura contra legem, tesi ad elidere (come nel caso di specie) fasi essenziali del procedimento amministrativo ivi compreso il provvedimento finale è per converso inidonea a generare oneri di impugnazione, ponendosi piuttosto, essa stessa, come comportamento violativo dell’obbligo di concludere il procedimento. Dinanzi ad una siffatta prassi, l’unica tutela praticabile è l’azione di accertamento e condanna a provvedere. Il giudice può certamente conoscere dei contenuti del parere ed anzi può dirsi che quest’ultimo riduca la discrezionalità a tal punto da consentire al giudice l’accertamento della fondatezza o meno della pretesa. L’azione sul silenzio è tuttavia strumentale al provvedere, e diviene recessiva, salvo ovviamente la risarcibilità del pregiudizio inferto, una volta che l’amministrazione provvede autonomamente. E’quanto è successo nell’odierno giudizio. Il ricorrente ha chiesto l’annullamento dell’atto istruttorio a mezzo di un’azione sostanzialmente qualificabile quale azione di accertamento e condanna, ma nel corso del giudizio è sopravvenuto il provvedimento terminativo del procedimento determinandone l’improcedibilità. Le conclusioni non muterebbero ove l’azione potesse configurarsi quale impugnazione facoltativa di un atto provvisorio, poiché anche in questo caso la mancata impugnazione dell’atto definitivo determinerebbe l’improcedibilità. La giurisprudenza amministrativa ha infatti costantemente affermato che "la formula - di carattere pretorio - della improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse riguarda propriamente le fattispecie in cui l'atto amministrativo impugnato abbia comunque cessato di produrre i suoi effetti, o per il mutamento della situazione di fatto o di diritto presente al momento della presentazione del ricorso, che faccia venir meno l'effetto del provvedimento impugnato, ovvero per la intervenuta adozione, da parte dell'amministrazione, di un provvedimento idoneo a ridefinire l'assetto degli intereressi in gioco e tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza, ancorché l'atto risulti eventualmente privo di effetto satisfattivo nei confronti del ricorrente."(Consiglio Stato, sez. V, 09 ottobre 2007, n. 5256; sez IV, 30 luglio 2012, n. 4187). Piuttosto deve darsi risposta alle obiezioni degli appellati in ordine alla conoscibilità del provvedimento amministrativo finale tardivamente depositato. Essi sostengono che il divieto di produzione documentale investa anche i provvedimenti amministrativi; comunque stigmatizzano il comportamento del Comune, il quale avrebbe sostanzialmente posto nel nulla la lunga parentesi giudiziaria attendendo i giorni prossimi alla decisione finale per determinarsi. L’obiezione, seppur dettata da comprensibili ragioni di tutela sostanziale, non può essere condivisa. Il Comune ha sia in primo grado che in appello sostenuto la tesi dell’inammissibilità dell’impugnativa in ragione del carattere endoprocedimentale dell’atto gravato e, benché tardivamente, ha dato coerente sfogo provvedimentale alla tesi processuale sostenuta, emanando infine il diniego di approvazione. Il provvedimento emanato dalla parte pubblica resistente, incidente sull’assetto di interessi portato in giudizio dal ricorrente, non è equiparabile ad un documento astrattamente utile ai fini della decisione, ma è un atto che riverbera direttamente su una delle condizioni dell’azione (l’interesse a ricorrere, che com’è noto deve sussistere al momento della pronuncia), facendola venire meno. La sua conoscenza da parte del giudice può avvenire anche a mezzo di semplice dichiarazione in udienza, purchè non contestata, e comunque il Giudicante, ove nutra dubbi sulla natura e portata dell’atto, può, ed anzi deve, comunque acquisirlo d’ufficio. Da ultimo una qualche considerazione deve pur essere fatta in ordine alla correttezza processuale del comportamento del Comune. Non v’è dubbio che quest’ultimo avrebbe potuto per tempo adottare l’atto, ed adottandolo in limine alla decisione ha di fatto ottenuto una vittoria meramente processuale che suona come un diniego di giustizia per il ricorrente. Occorre tuttavia sottolineare che il ritardo è evenienza patologica che può essere efficacemente combattuta in prima istanza unicamente con l’azione di accertamento ed adempimento: e l’adempimento tardivo, anche se di tenore reiettivo, costituisce in questa fase pur sempre un risultato utile in direzione del superamento dell’inerzia. Il pregiudizio, patrimoniale e non, eventualmente derivante dalla tardività dell’adempimento, è materia di pertinenza della successiva ed eventuale azione demolitoria nonchè di quella risarcitoria ove ne ricorrano i presupposti. E’ in tale sede che le doglianze del ricorrente potranno trovare concreto ascolto. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 9.5.2013, n. 2511)

 
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Periodo di prova nel lavoro pubblico: l’annullamento della risoluzione avvenuta durante il periodo di prova, incidendo su di un rapporto lavorativo già instaurato sebbene ancora "precario", comporta il ripristino del rapporto ab origine

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Per effetto della sentenza del Tar, impugnata innanzi al Consiglio di Stato la ricorrente fu inquadrata in ruolo come coadiutore, sebbene con decorrenza successiva alla data dell’originaria assunzione. L’oggetto dell'appello è circoscritto al punto di sentenza in cui il Giudice di primo grado ha affermato l’obbligo a carico dell’amministrazione di rinnovare il periodo di prova e, in caso di suo esito positivo, di procedere all’assunzione ex nunc anziché ex tunc. Si tratta di un’affermazione che non e' condivisa dal Consiglio di Stato, per due ragioni. La prima ragione è legata in generale al tradizionale effetto retroattivo delle sentenze di annullamento, che la pronuncia del Tar Lombardia in questione – sempre che la detta affermazione non possa essere derubricata ad un mero obiter dictum - parrebbe contraddire laddove assegna alla sentenza un effetto propulsivo, ai fini del riesame, che nella prassi è frequente riferire alle ordinanze cautelari ma non alle sentenze definitive del giudizio di cognizione (fatte salve alcune tendenze evolutive, peraltro discusse in dottrina). La seconda ragione è più specificamente da rinvenire nella natura del periodo di prova (disciplinato in generale, per quanto attiene al lavoro pubblico, dall’art. 10 del d.p.r. 3/1957), che è controversa nella stessa dottrina giuslavoristica. Secondo l’opinione prevalente, si tratterebbe di una clausola apposta al contratto di lavoro, con valore di elemento accidentale da qualificarsi, a seconda delle diverse ricostruzioni possibili, come condizione risolutiva o sospensiva ovvero come termine incerto. In ogni caso non si ravviserebbero due distinti rapporti, uno provvisorio ed uno definitivo, successivi nel tempo, quanto invece un rapporto unico che deve quindi ritenersi immediatamente instaurato, sebbene caratterizzato da una disciplina particolare nella prima fase, consistente essenzialmente nella diversa regolamentazione del recesso, a seconda che sia esercitato in costanza del periodo di prova oppure successivamente al suo superamento. Da questi duplici rilievi ne consegue che l’annullamento della risoluzione avvenuta durante il periodo di prova, incidendo su di un rapporto lavorativo già instaurato sebbene ancora "precario", non poteva che comportare, per il noto effetto retroattivo di tale tipo di pronuncia, il ripristino del rapporto ab origine. Il che doveva comportare, nel caso di specie, la decorrenza ai fini giuridici del rapporto di impiego nella posizione di coadiutore amministrativo dalla data dell’originaria assunzione. (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 9.5.2013, n. 2507)

 
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Per effetto della sentenza del Tar, impugnata innanzi al Consiglio di Stato la ricorrente fu inquadrata in ruolo come coadiutore, sebbene con decorrenza successiva alla data dell’originaria assunzione. L’oggetto dell'appello è circoscritto al punto di sentenza in cui il Giudice di primo grado ha af ... Continua a leggere

 

Differenze tra perenzione ordinaria biennale e perenzione speciale: il Consiglio di Stato segnala errate massimazioni ad opera della dottrina

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Mentre la perenzione ordinaria biennale va configurata quale presunzione assoluta di abbandono del giudizio conseguente ad un comportamento inerte delle parti le quali, per un periodo di oltre due anni, non hanno avuto cura di compulsare la fissazione dell’udienza di merito, presentando la relativadomanda, la perenzione di cui all’art. 9 comma 2, della L. 205 del 2000, proprio in quanto impone alla parte ricorrente – e ad essa soltanto - l’onere di rinnovare l’interesse alla decisione pur in presenza di una già rituale presentazione della domanda di fissazione d’udienza, persegue il diverso obiettivo di introdurre da un lato un meccanismo generalizzato di verifica della sussistenza di un interesse alla decisione e, dall'altro, persegue il contestuale smaltimento dell'arretrato (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 27 dicembre 2011 n. 6848 e Sez. IV, 31 maggio 2007 n. 2881): e, in tal senso, è indubitabile il rilievo che nella perenzione "speciale" di cui all’art. 9, comma 1, della L. 205 del 2000 assume la circostanza che la domanda di fissazione dell’udienza di trattazione del ricorso deve essere sottoscritta dalla parte sostanziale, la quale solitamente non firma gli atti del processo, posto che in tal modo il legislatore si è assicurato che proprio la persona che fisicamente dispone dell’interesse dedotto in giudizio valuti l’attuale utilità della statuizione giudiziale, dichiarando direttamente la permanenza del relativo interesse. Va opportunamente segnalato che si rinviene in talune riviste un’errata massimazione di Cons. Stato, Sez. IV, 15 settembre 2003 n. 5114, secondo la quale "anche ai termini previsti per la perenzione, compresa quella decennale di cui all’ art. 9 della L. 205 del 2000, si applica la c.d. sospensione feriale": ma dalla lettura del testo integrale della sentenza stessa si evince che la fattispecie ivi segnatamente considerata attiene ad un’ipotesi di perenzione biennale ordinaria, e non già di perenzione speciale decennale. Come correttamente rilevato dallo stesso giudice di primo grado, dinanzi a tale indubbio rilievo dato alla richiesta espressione della permanenza dell’utilità della statuizione giudiziale da parte del personale titolare del relativo interesse e non già da parte del suo patrocinante, l’attività processuale svolta all’interno del termine decennale non può che essere irrilevante (cfr. ad es. Cons. Stato, Sez. IV, 21 gennaio 2003 n. 213, citata nella stessa sentenza impugnata; cfr., peraltro,anche Cons. Stato, Sez. V, 8 marzo 2006 n. 1200 che afferma l’irrilevanza in senso contrario di qualsiasi pregresso contegno processuale infradecennale che costituisca espressione della parte ricorrente di una volontà di coltivazione del giudizio; cfr., altresì, Cons. Stato, Sez. IV, 15 settembre 2003 n. 5116, secondo la quale il deposito, a’ sensi dell’art. 9, comma 2, della L. 205 del 2000 di una domanda di fissazione di udienza sottoscritta dal patrocinate del ricorrente ma priva della sottoscrizione della parte sostanziale non può per certo conseguire effetto ai fini della perenzione decennale, nel mentre va riguardata come atto utile al fine dell’interruzione della perenzione biennale). (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 9.5.2013, n. 2520)

 
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Il consigliere dell’ente locale esercita il potere di autentica delle sottoscrizioni ex art. 14 della legge 21 marzo 1990, n. 53 esclusivamente nei limiti della propria circoscrizione elettorale e in relazione alle operazioni elettorali dell'ente nel quale opera

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Il Consiglio di Stato ha confermato nel giudizio in esame la sentenza del TAR che ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento della Sottocommissione Elettorale Circondariale di Fidenza che ha deciso di non ammettere alla consultazione per 1'elezione del Consiglio Comunale di Salsomaggiore Terme (PR) del 26 e 27 maggio 2013 la lista dei candidati denominata "Progetto per Salso". In particolare l’appello proposto avverso detta statuizione non è stato considerato dal Collegio meritevole di positiva valutazione alla stregua delle seguenti considerazioni: a)ad avviso del condivisibile indirizzo interpretativo a più riprese sostenuto da questa Sezione (cfr. sentenze 31 marzo 2012 n. 1889; 16 aprile 2012, n. 2180), il consigliere dell’ente locale esercita il potere di autentica delle sottoscrizioni ex art. 14 della legge 21 marzo 1990, n. 53 esclusivamente nei limiti della propria circoscrizione elettorale e in relazione alle operazioni elettorali dell'ente nel quale opera; b)alla stregua di dette coordinate ermeneutiche, estensibili per identità di ratio anche all’assessore comunale o provinciale, gli organi politici, ai quali in via eccezionale la norma attribuisce questa potestà, possono autenticare le sottoscrizioni esclusivamente nel rispetto dei due requisiti concorrenti della territorialità e della pertinenza della competizione elettorale; c) non assume rilievo in senso contrario la circostanza che il Comune di Salsomaggiore ricada nel territorio della Provincia di Parma in quanto, secondo il rammentato indirizzo ermeneutico al quale la Sezione aderisce, oltre al limite stricto sensu territoriale opera il limite funzionale del diretto coinvolgimento nella competizione dell’ente del quale il consigliere o assessore è organo quale condizione necessaria per radicare l’eccezionale potere di autenticazione delle firme dei presentatori delle liste elettorali a decorrere dal centottantesimo giorno precedente il termine fissato per la presentazione delle candidature (in tal senso: Cons. Stato n. 2371/2012 cit.); d) deve pertanto considerarsi inefficace, in quanto non conforme al paradigma normativo, l’autenticazione effettuata dall’assessore della Provincia di Parma, con riferimento alle firme di cui alla lista "Progetto per Salso" per le elezioni del Consiglio comunale di Salsomaggiore Terme. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 8.5.2013, n. 2501)

 
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Ricusazione della lista elettorale: e' illegittima l’esclusione, in presenza di fogli collegati debitamente a quello dotato delle indicazioni prescritte dalla legge, in assenza di indici atti a far revocare in dubbio il carattere unitario del relativo modulo

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Nel giudizio in esame il ricorrente proponeva ricorso dinanzi al T.A.R. per la Campania – Sezione di Salerno contro la Commissione Elettorale Circondariale di Salerno - 1° Sottocommissione Elettorale Circondariale Sez. di Eboli per l’annullamento del verbale n. 43/2013 del 27-4-2013 della suddettaSottocommissione, con il quale la lista "Città in Comune - Naimoli Sindaco" era stata ricusata dalla consultazione prevista per i giorni 26 e 27 maggio 2013 per il rinnovo del consiglio comunale di Campagna (Salerno). Le ragioni della ricusazione della lista, secondo l’esposizione che ne avrebbe fatto il primo Giudice, risiedevano: a) nella circostanza che "i modelli su cui sono state raccolte le firme…. ancorché cuciti tra loro e spillati sull’atto principale con punti metallici "omega" non garantiscono in modo certo ed univoco il loro collegamento sequenziale - numerico con l’atto principale"; b) nella circostanza che "i singoli modelli in questione …. per 5 di essi risultano essere privi di qualsiasi simbolo, di denominazione di lista, ovvero del candidato alla carica di sindaco, per cui non vi è alcuna certezza in merito alla consapevolezza che numero 83 sottoscrittori elencati nei richiamati 5 moduli, all’atto della sottoscrizione stessa, fossero nella effettiva e piena conoscenza dei nominativi di tutti i candidati e del simbolo di lista che avrebbero sottoscritto". Il ricorrente, presentatore della lista ricusata, svolgeva, in sintesi, la censura di fondo che, contrariamente a quanto ritenuto dall’Ufficio elettorale, poiché i fogli sui quali erano state raccolte le firme dei sottoscrittori erano tutti collegati tra loro e contigui al modulo principale recante gli elementi prescritti dalla legge, sì da formare con questo un unico documento, la presentazione della lista doveva ritenersi avvenuta nel pieno rispetto dell’art. 28 del t.u. n. 570/1960. La giurisprudenza insegna, invero, che lo scopo voluto dalla norma dell’art. 28 cit. deve reputarsi raggiunto anche quando, pur non insistendo le firme raccolte su un unico foglio, i diversi fogli siano tuttavia collegati stabilmente fra loro, e con quello recante gli elementi prescritti dalla legge, con segni di congiunzione suscettibili di un apprezzamento obiettivo (anche in tal caso, infatti, il modello può considerarsi documentalmente unico, recando i segni inequivocabili della riconducibilità a una predeterminata lista elettorale), allorché, precisamente, le sottoscrizioni siano rese su fogli privi di contrassegno ma pur sempre "collegati" ai fogli recanti il contrassegno mediante spillatura, e purché il collegamento sia assicurato mediante un timbro o una firma (C.d.S., V, 7 novembre 2006, n. 6544; n. 5925\2010; nn. 2552, 2556 e 2557/2011). Il primo Giudice ad avviso del Consiglio di Stato non può essere tuttavia seguito anche nella parte in cui ha fatto applicazione del ricordato orientamento giurisprudenziale alla fattispecie concreta. Giova ricordare che l’art. 3 della legge 25 marzo 1993 n. 81, alla lett. f) del primo comma, prescrive per la presentazione delle liste nei Comuni di popolazione compresa tra i diecimila ed i ventimila abitanti la presenza di sottoscrizioni "da non meno di 100 e da non più di 200 elettori". Ciò posto, occorre premettere: da un lato, che la produzione eseguita per la lista ricorrente racchiude (unitamente a fogli che, come ha rilevato l’Ufficio elettorale, sono carenti di autenticazione, anche) quattro fogli completi di sottoscrizioni ed autentiche, per complessive 118 firme; dall’altro, che l’Ufficio, pur dando atto che i fogli su cui sono state raccolte le firme sono cuciti tra loro e spillati sull’atto principale con punti metallici (e gli stessi fogli risultano altresì, va notato, collegati mediante timbratura), non ha fornito alcun elemento concreto che possa indurre a dubitare della natura ab origine unitaria del relativo, complessivo modulo. Quanto agli elementi che a supporto della ricusazione della lista sono stati individuati dal primo Giudice e posti a fondamento della sua sentenza ("autenticazioni in calce ai fogli cd. "aggiunti" riferite allo specifico numero di sottoscrizioni contenute nel foglio medesimo con il numero successivamente cancellato; riferimento nell’ultima pagina al numero complessivo di sottoscrizioni, con correzione del numero "7" originariamente indicato e corrispondente al numero di sottoscrizioni presente in tale ultimo foglio"), la Sezione deve escludere che si tratti di elementi significativi nel senso ritenuto dal Tribunale. Poiché ciascuno dei menzionati quattro fogli ha formato oggetto di separata ed apposita autenticazione (in tre giorni diversi), può ritenersi, invero, del tutto fisiologico che in occasione di ogni singola autentica sia stato indicato il numero di sottoscrizioni che ne formavano oggetto. Alla luce di quanto precede, risulta pertanto meritevole di accoglimento l’assorbente rilievo di fondo dell’appellante nel senso dell’illegittimità dell’esclusione, in presenza di fogli (racchiudenti un numero sufficiente di sottoscrizioni) collegati debitamente a quello dotato delle indicazioni prescritte dalla legge, in assenza di indici atti a far revocare in dubbio il carattere unitario del relativo modulo. Per quanto precede l’appello e' stato accolto. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 8.5.2013, n. 2499)

 
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La ricostruzione della carriera e' ammessa nei soli casi in cui un rapporto di lavoro già in corso fosse stato illegittimamente interrotto e non anche nelle ipotesi nelle quali il rapporto fosse ancora da instaurare

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La cd. ricostruzione della carriera, quale peculiare esempio di restitutio in integrum, e' stata riconosciuta nei (soli) casi in cui un rapporto di lavoro già in corso fosse stato illegittimamente interrotto, a tutela quindi di interessi oppositivi se non di veri e propri diritti soggettivi; e nonanche nelle ipotesi nelle quali il rapporto fosse ancora da instaurare (o fosse ancora del tutto precario) e l’interesse vantato fosse di natura pretensiva o comunque qualificabile alla stregua di un’aspettativa (v., per la distinzione, Cons. St. Ad. Plen. 10/1991 e, più di recente, Cons. St. VI, n. 2735/2008). (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 17.5.2013, n. 2690)

 
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Il diniego del giudice di riunione di ricorsi connessi è impugnabile solo se abbia in concreto inciso sul contenuto della sentenza definitiva del processo

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Il diniego di riunione di ricorsi connessi non può essere dedotto come vizio procedurale in sé considerato, essendo la relativa decisione dall’art. 70 cod. proc. amm. rimessa alla discrezionalità dell’organo giudicante. Siffatto diniego è, invece, impugnabile solo, se ed in quanto abbia in concretoinciso sul contenuto della sentenza definitiva del processo, in senso sfavorevole alla parte soccombente, la quale è onerata di allegare e dimostrare il nesso causale tra diniego di riunione e ingiustizia della sentenza. Tale onere, nella specie, non è stato assolto dall’odierna appellante, la quale si è limitata ad affermare, in modo apodittico, che "la preliminare decisione del TRGA, oltre a determinare incertezza nei rapporti giuridici, in violazione di elementari regole processuali, è stata fonte di un danno dell’appellante, conseguente al rigetto del ricorso proposto" (v. così, testualmente, p. 19 del ricorso in appello), senza specificare l’incidenza della mancata riunione sull’esito del giudizio ad essa sfavorevole. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.5.2013, n. 2662)

 
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La maggiorazione stipendiale prevista dall'art. 17, D.P.R. 13 maggio 1987 n. 268, in favore dei dipendenti comunali che non fruiscono del riposo settimanale o festivo infrasettimanale per particolari esigenze di servizio non spetta ai vigili urbani, il cui servizio è normalmente articolato per turni

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Nel giudizio in esame il Consiglio di Stato ha richiamato il chiaro orientamento giurisprudenziale (cfr. Cons. St., Sez. V, 19 giugno 2009, n. 4108; Sez. V, 23 gennaio 2007, n. 221; Sez. V, 23 gennaio 2007, n. 218), secondo il quale: a) la maggiorazione stipendiale prevista dall'art. 17, D.P.R. 13maggio 1987 n. 268, in favore dei dipendenti comunali che non fruiscono del riposo settimanale o festivo infrasettimanale per particolari esigenze di servizio non spetta ai vigili urbani, il cui servizio è normalmente articolato per turni; b) alla luce delle disposizioni dell'art. 13, in particolare, deve desumersi che, nell'ambito delle citate finalità di servizio per la collettività, è consentita la "rotazione ciclica degli addetti" (comma 2) e la prestazione di lavoro in giorni festivi, nonché in ore notturne (commi 4, 7 e 9); per le disposizioni, inoltre, dell'art. 17 - dettato con riguardo ai casi di "particolari esigenze di lavoro", ma, per questa parte, espressivo di un principio generale di organizzazione degli enti e di riconoscimento dei diritti dei dipendenti - è riconosciuto, poi, il "diritto al riposo compensativo da fruire di regola entro quindici giorni e comunque non oltre il bimestre successivo"; c) sussiste un’incompatibilità assoluta tra la corresponsione dell’indennità ex art. 17 e quella ex art. 13, D.P.R. 13 maggio 1987 n. 268; infatti, la fattispecie regolata dall'art. 17, poiché si riferisce ad esigenze particolari di servizio, non è applicabile ai servizi che ordinariamente devono essere svolti con possibile non fruizione del riposo festivo ordinario, come è quello degli addetti alla polizia municipale; d) d'altra parte, sul piano letterale, si oppone ad una diversa conclusione lo stesso ricordato comma 7 dell'art. 13, sulle "turnazioni", perché dispone che le maggiorazioni ivi stabilite sostituiscono qualsiasi altra indennità di turno, e perciò anche quelle connesse con le particolari esigenze contemplate dal successivo art. 17, D.P.R. 13 maggio 1987 n. 268. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.5.2013, n. 2606)

 
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L’interesse pubblico a non procedere ad illegittime attribuzioni di denaro pubblico prevale sull’aspettativa dei potenziali destinatari ad ottenere un beneficio illegittimo

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Ai sensi dell’art. 21 octies della legge 7 agosto1990, n. 241, il carattere doveroso della determinazione di annullamento d’ufficio esclude la rilevanza delle censure di incompetenza e di insufficienza della comunicazione di avvio del procedimento di annullamento e di quello di revoca del finanziamento (in termini C. di S., V, 15 novembre 2012, n. 5772). In tale situazione, nemmeno può essere dato rilievo all’affidamento ingenerato nell’appellante, in quanto al momento dell’adozione del provvedimento di autotutela il contratto definitivo non era stato stipulato, per cui le rispettiva posizioni non si erano ancora definitivamente consolidate. E’ di conseguenza applicabile il principio (dettato da C. di S., V, 28 maggio 2012, n. 3132, nonché 5032 del 2011 cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), secondo il quale l’interesse pubblico a non procedere ad illegittime attribuzioni di denaro pubblico prevale sull’aspettativa dei potenziali destinatari ad ottenere un beneficio illegittimo, come per altro sancito espressamente dall’art. 1, co. 136, l. n. 311 del 2004. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.5.2013, n. 2602)

 
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Ai sensi dell’art. 21 octies della legge 7 agosto1990, n. 241, il carattere doveroso della determinazione di annullamento d’ufficio esclude la rilevanza delle censure di incompetenza e di insufficienza della comunicazione di avvio del procedimento di annullamento e di quello di revoca del finanziam ... Continua a leggere

 

Comitato portuale: nella nomina dei rappresentanti delle diverse categorie economiche all’interno del Comitato Portuale la misura della rappresentatività delle organizzazioni nazionali di categoria, chiamate alla designazione, deve essere verificata in sede locale

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Il principio di stretta democraticità nella nomina dei rappresentanti delle diverse categorie economiche all’interno del Comitato Portuale esige che tale organo collegiale costituisca l’espressione più immediata dei soggetti che operano all’interno del contesto territoriale di riferimento, con la conseguenza che la misura della rappresentatività delle organizzazioni nazionali di categoria, chiamate alla designazione, deve essere comunque verificata in sede locale (cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. VI, 3 febbraio 2000 n. 646). (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.5.2013, n. 2597)

 
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Autorità Portuale: Il Ministro può esercitare il proprio potere di vigilanza, anche attraverso la rimozione d’imperio degli organi direttivi dell’Autorità portuale e la successiva nomina di organi straordinari

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Il Ministro ben può esercitare il proprio potere di vigilanza, anche attraverso la rimozione d’imperio degli organi direttivi dell’Autorità portuale e la successiva nomina di organi straordinari, ancorché al di fuori delle due ipotesi espressamente indicate all’art. 7 anzidetto (ossia in dipendenzadell’inutile decorso del termine previsto per l’approvazione del P.O.T. - Piano operativo triennale e qualora il conto consuntivo evidenzi un disavanzo; con la novella introdotta per effetto dell’art. 8-bis del D.L. 30 dicembre 1997 n. 457 convertito in L. 27 febbraio 1998 n. 30 era stata soppressa un’ulteriore e previgente ipotesi di commissariamento in dipendenza del mancato raggiungimento degli obiettivi fissati dal P.O.T.), costituendo tale potere esplicazione dei cosiddetti "poteri impliciti" che l’ordinamento attribuisce alla Pubblica Amministrazione, pur in difetto di una esplicita previsione di legge. A tale riguardo, autorevole fondamento alla teoria dei "poteri impliciti" si rinviene nella sentenza di Corte Cost., 20 gennaio 2004 n. 27, laddove si afferma che "il potere di nomina del Commissario straordinario costituisce attuazione del principio generale, applicabile a tutti gli enti pubblici, del superiore interesse pubblico al sopperimento, con tale rimedio, degli organi di ordinaria amministrazione, i cui titolari siano scaduti o mancanti. Tale potere non è esercitabile liberamente". Il giudice di primo grado ha inoltre evidenziato che lo stesso giudice delle leggi si è pure pronunciato con specifico riferimento alla vigilanza sulle Autorità portuali, affermando che al Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti - al quale per l’appunto compete la nomina del Presidente dell’Autorità Portuale, all’esito del procedimento di intesa "forte" disciplinato dall’art. 8 della L. 84 del 1994 - spetta il potere di nomina del relativo Commissario straordinario, per assicurare "il soddisfacimento delle esigenze di continuità della azione amministrativa ed impedire stasi connesse alla decadenza degli organismi ordinari", e che anche l’adozione dell’atto di commissariamento presuppone l’avvio e lo sviluppo di trattative volte a raggiungere l’intesa, in termini di "leale cooperazione" tra i soggetti pubblici coinvolti (cfr. sul punto Corte Cost., 27 luglio 2005 n. 339)....nella materia dei porti, l’equilibrio tra poteri statali e regionali è sintetizzato proprio nella figura del Presidente dell’Autorità Portuale, posto che "in tale contesto, secondo il giudice costituzionale …va inquadrata la previsione normativa circa la spettanza al Ministro del potere di nomina del Presidente dell’Autorità portuale, previsione che armonicamente si inserisce nel complesso quadro, descritto dalla legge statale, nel quale si iscrivono, in particolare, i compiti attribuiti al Presidente (coordinamento delle attività svolte nel porto dalle Pubbliche Amministrazioni, nonché coordinamento e controllo delle attività soggette ad autorizzazione e concessione, e dei servizi portuali; amministrazione delle aree e beni del demanio marittimo; autorizzazione delle operazioni portuali e concessione di aree e banchine; potere di indire, presiedendola, una conferenza di servizi con le Amministrazioni interessate a lavori di escavazione e manutenzione dei fondali, etc.). Il Presidente dell’Autorità Portuale, in definitiva, è posto al vertice di una complessa organizzazione che vede coinvolti, e soggetti al suo coordinamento, anche organi schiettamente statali (egli presiede, tra l’altro, il Comitato portuale del quale fanno parte il Comandante del porto e, in rappresentanza dei Ministeri delle Finanze e dei Lavori pubblici, un dirigente dei servizi doganali ed uno dell’ufficio speciale del genio civile), e gli è assegnato un ruolo fondamentale, anche di carattere propulsivo, perché il porto assolva alla sua funzione di rilevanza internazionale o nazionale, comunque interessante l’economia nazionale". (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.5.2013, n. 2596)

 
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Forze Armate: la progressione di carriera è legata alla permanenza in servizio del personale interessato in quanto le promozioni sono disposte non soltanto nell’interesse del personale, ma anche e soprattutto dell’Amministrazione militare

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E' insito nel "sistema" ordinamentale proprio delle Forze Armate il principio in forza del quale la progressione di carriera è legata alla permanenza in servizio del personale interessato, posto che le promozioni sono disposte non soltanto nell’interesse del personale, ma anche – e soprattutto – dell’Amministrazione militare (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 7 maggio 2007 n. 1970), con la conseguenza che la deroga al principio medesimo non può che essere circoscritta a casi ben specifici e da disciplinare in modo rigorosamente unitario tra loro, e non potendo quindi – a fronte di un indiscutibilmente comune evento risolutivo del servizio – distinguersi tra coloro che hanno già acquisito il titolo alla promozione, salva la valutazione di idoneità effettuata a posteriori, in quanto colpiti da eventi sfavorevoli successivamente al loro inserimento nell’aliquota, e coloro per i quali l’evento comportante la cessazione dal servizio è viceversa intervenuto nello stesso anno di maturazione del requisito e sia stato ostativo all’inserimento nell’aliquota. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.5.2013, n. 2591)

 
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E' insito nel "sistema" ordinamentale proprio delle Forze Armate il principio in forza del quale la progressione di carriera è legata alla permanenza in servizio del personale interessato, posto che le promozioni sono disposte non soltanto nell’interesse del personale, ma anche – e soprattutto – de ... Continua a leggere

 

E' sanabile con la costituzione in giudizio della parte, la notificazione del ricorso eseguita in un luogo diverso da quello prescritto, ma non privo di un astratto collegamento con il destinatario dell’atto

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La notificazione del ricorso eseguita in un luogo diverso da quello prescritto, ma non privo di un astratto collegamento con il destinatario dell’atto, determina la nullità non già dell’impugnazione in senso sostanziale, bensì della sola sua notificazione, la quale pertanto resta sanata con effettoex tunc qualora la parte appellata si costituisca comunque in giudizio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.5.2013, n. 2591)

 
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La notificazione del ricorso eseguita in un luogo diverso da quello prescritto, ma non privo di un astratto collegamento con il destinatario dell’atto, determina la nullità non già dell’impugnazione in senso sostanziale, bensì della sola sua notificazione, la quale pertanto resta sanata con effetto ... Continua a leggere

 

La "piena conoscenza" del provvedimento per l'individuazione del momento da cui decorre il termine per impugnare deve essere intesa come quella che consenta all’interessato, di percepire la lesività dell’atto emanato dall’amministrazione

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Come già diffusamente esposto nella sentenza del Consiglio di Stato del 28 maggio 2012 n. 3159 - quanto al concetto di "piena conoscenza" dell’atto lesivo, lo stesso, anche con riferimento alla previgente disciplina, non deve essere inteso quale "conoscenza piena ed integrale" dei provvedimenti chesi intendono impugnare, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale. Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di "piena conoscenza" - il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale - è la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso. Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando quella "piena conoscenza" indicata dalla norma), invece la conoscenza "integrale" del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi. In tali sensi, è rilevante osservare che l’ordinamento prevede l’istituto dei "motivi aggiunti", per il tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti al momento di proposizione del ricorso ma ignoti) o dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta. Ciò comprova la fondatezza dell’interpretazione resa della "piena conoscenza" dell’atto oggetto di impugnazione. Ed infatti, se tale "piena conoscenza" dovesse essere intesa come "conoscenza integrale", il tradizionale rimedio dei motivi aggiunti non avrebbe ragion d’essere, o dovrebbe essere considerato residuale. In altre parole, solo l’assenza dell’istituto dei motivi aggiunti consentirebbe di interpretare la "piena conoscenza" come conoscenza integrale dell’atto impugnabile e degli atti endoprocedimentali ad esso preordinati, poiché in questo (ipotetico) caso si produrrebbe – diversamente opinando - un vulnus per il diritto alla tutela giurisdizionale, in quanto il soggetto che si reputa leso dall’atto si troverebbe compresso tra un termine decadenziale che corre ed una impossibilità di conoscenza integrale dell’atto, e quindi di completa e consapevole articolazione di una linea difensiva. Al contrario, la previsione dei cd. motivi aggiunti comprova ex se che la "piena conoscenza" indicata dal legislatore come determinatrice del dies a quo della decorrenza del termine di proposizione del ricorso giurisdizionale, non può che essere intesa se non come quella che consenta all’interessato, di percepire la lesività dell’atto emanato dall’amministrazione, e che quindi rende pienamente ammissibile – quanto alla sussistenza dell’interesse ad agire - l’azione in sede giurisdizionale. Ogni aspetto attinente al contenuto del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, ritenuto lesivo, ovvero di atti endoprocedimentali ritenuti illegittimi, incide su profili di legittimità dell’esercizio del potere amministrativo, e quindi sui presupposti argomentativi della domanda di annullamento. Ma, come si è detto, la possibilità di sottoporre al giudice ulteriori motivi di doglianza, sui quali fondare e/o rafforzare la domanda di annullamento, non è preclusa dall’ordinamento, proprio per il tramite della previsione dei citati motivi aggiunti. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 9.5.2013, n. 2521)

 
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In materia di accesso alla documentazione amministrativa, nella nozione di "pubblica amministrazione" la legge ricomprende anche i soggetti di diritto privato, sia pur limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario

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In materia di accesso alla documentazione amministrativa, nella nozione di "pubblica amministrazione" la legge (art. 22, comma 1, lett. e) della legge n. 240 del 1990) ricomprende anche i soggetti di diritto privato, sia pur limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario. Ciò detto, il Consiglio di Stato con la sentenza in esame ha condiviso la lettura interpretativa fornita dal Giudice di primo grado riguardo all’ammissibilità ed alla fondatezza della istanza ostensiva proposta dai partecipanti alla selezione dei mandatari SIAE per le sedi Agropoli e Sorrento. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.5.2013, n. 2566)

 
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Il provvedimento di diniego del permesso di soggiorno non costituisce atto vincolato in relazione alla situazione esistente al momento della richiesta

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Secondo l’art. 5, co. 5, del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 e ss.mm.ii. il provvedimento di diniego del permesso di soggiorno non costituisce atto vincolato in relazione alla situazione esistente al momento della richiesta, ossia non deve limitarsi a verificare la sussistenza di una circostanza obiettivamente ostativa (come, ad es., una condanna penale), ma occorre che siano valutati gli elementi sopravvenuti e rispetto ai quali l'interessato possa fornire in sede procedimentale opportuni chiarimenti; inoltre, lo stesso art. 5, co. 5, nell’ultimo periodo aggiunto dall’art. 2 del d.lgs. 8 gennaio 2007 n. 5, richiede che, in sede di rilascio, revoca o diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che abbia esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, si debba tener conto anche della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d’origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale. (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 13.5.2013, n. 2576)

 
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Lista "Fascismo e Libertà" nuovamente bocciata dal Consiglio di Stato per il richiamo al partito nazionale fascista

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Con la presente statuizione il Consiglio di Stato ha confermato il proprio precedente specifico relativo alla stessa lista, della quale è stata giudicata legittima l’esclusione per contrasto con la ricordata disciplina costituzionale "in ragione del simbolo del movimento (il fascio), della dizioneletterale (acronimo di Fascismo e Libertà) e del richiamo ideologico al disciolto partito fascista." In presenza di richiami simbolici tanto pregnanti, il Collegio ritiene superfluo il pur sollecitato esame degli elementi contenutistici dello statuto ed atto costitutivo del Movimento. In particolare, appropriatamente la difesa erariale ha richiamato l’attenzione sulla testuale denominazione assunta dalla lista in discussione, che, con l’inequivocabile inserimento del termine "Fascismo", chiaramente evoca il partito nazionale fascista. Dall’appellante viene inoltre lamentata una violazione del canone di eguaglianza e una lesione del diritto alla libera associazione in partiti politici. Sul primo aspetto è però già emersa la specificità del Movimento interessato rispetto ad ogni comune associazione a fini politici, che ne giustifica per ciò stesso un trattamento differenziato alla luce della precisa disposizione costituzionale transitoria sopra citata. Sui rimanenti punti, infine, nulla occorre aggiungere alla ineccepibile constatazione, già racchiusa nel provvedimento di base impugnato, che i "diritti" invocati dalla ricorrente non possono non trovare un limite nel divieto di riorganizzazione del disciolto partito fascista, imposto dalla norma costituzionale più volte richiamata. Per accedere al testo per esteso della sentenza cliccare sul titolo sopra linkato. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.5.2013, n. 2573)

 
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Con la presente statuizione il Consiglio di Stato ha confermato il proprio precedente specifico relativo alla stessa lista, della quale è stata giudicata legittima l’esclusione per contrasto con la ricordata disciplina costituzionale "in ragione del simbolo del movimento (il fascio), della dizione ... Continua a leggere

 

I presupposti che legittimano la revoca del provvedimento amministrativo

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Come la Sezione ha avuto nodo di ricordare (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 31 maggio 2012 n. 3262), ai sensi dell'art. 21 quinquies l. 7 agosto 1990 n. 241 (introdotto dall'art. 14 l. 11 febbraio 2005 n. 15), i presupposti che, in via alternativa, legittimano l'adozione di un provvedimento di revoca, in senso tecnico, di un provvedimento amministrativo ad efficacia durevole da parte dell'Autorità emanante sono rispettivamente; a) sopravvenuti motivi di pubblico interesse, b) nuova valutazione dell'interesse pubblico originario; c) mutamento della situazione di fatto. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 8.5.2013, n. 2485)

 
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Come la Sezione ha avuto nodo di ricordare (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 31 maggio 2012 n. 3262), ai sensi dell'art. 21 quinquies l. 7 agosto 1990 n. 241 (introdotto dall'art. 14 l. 11 febbraio 2005 n. 15), i presupposti che, in via alternativa, legittimano l'adozione di un provvedimento di revo ... Continua a leggere

 

Personale del comparto Sanità: sono retribuibili le mansioni superiori svolte in presenza delle triplici e coessenziali condizioni inerenti: 1) l'esistenza in organico di un posto vacante cui ricondurre le mansioni di più elevato livello, 2) la previa adozione di un atto deliberativo di assegnazione alle mansioni superiori da parte dell'organo a ciò competente, 3) l'espletamento delle suddette mansioni per un periodo eccedente i sessanta giorni nell'anno solare

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Il Consiglio di Stato ribadisce nella sentenza in esame i principi consolidati in materia di mansioni superiori dei pubblici dipendenti che, con riguardo al personale del comparto della sanità, in deroga al generale principio dell'irrilevanza ai fini giuridici ed economici dello svolgimento delle mansioni superiori nel settore del pubblico impiego, ammette la retribuibilità delle stesse, ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. 761/1979, in presenza delle triplici e coessenziali condizioni inerenti: l'esistenza in organico di un posto vacante cui ricondurre le mansioni di più elevato livello, la previa adozione di un atto deliberativo di assegnazione alle mansioni superiori da parte dell'organo a ciò competente (potendosene prescindere solo nel caso di sostituzione nell'esercizio delle funzioni primariali in area medica), l'espletamento delle suddette mansioni per un periodo eccedente i sessanta giorni nell'anno solare (cfr. tra le più recenti, Cons. Stato, III, 21 giugno 2012, n. 3661; 20 giugno 2012, n. 3581; 13 marzo 2012, n. 768; V, 15 febbraio 2010, n. 814; VI, 16 dicembre 2011, n. 9016). (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 7.5.2013, n. 2479)

 
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Rischio radiologico: il congedo aggiuntivo di giorni quindici per ciascun anno solare, al pari delle ferie ordinarie, attende alla funzione di recupero delle energie psico-fisiche del lavoratore, con la conseguente spettanza del compenso sostitutivo per il lavoratore che incolpevolmente non abbia potuto godere di tale congedo

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Nel giudizio in esame il Consiglio di Stato ha esaminato la questione riguardante la richiesta di monetizzazione del congedo aggiuntivo non goduto dagli appellanti dal momento del riconoscimento della loro condizione di professionalmente esposti al rischio radiologico. Al riguardo si deve ricordare che il Consiglio di Stato, con numerose pronunce anche recenti (Sezione III, n. 6641 del 19 dicembre 2011, Sez. V, n. 554 del 26 gennaio 2011), ha affermato che l'incolpevole mancata fruizione del riposo biologico di cui all’art. 120, comma 9, del d.P.R. n. 384/1990, e all’art. 5, comma 1, della legge n. 724/1994, «è compensabile con un'indennità sostitutiva da liquidarsi in via equitativa ex art. 1226 c.c., a condizione che il mancato godimento del riposo sia comprovato dall'interessato». Si è, infatti, ritenuto che il congedo aggiuntivo di giorni quindici per ciascun anno solare, a favore del personale esposto in misura continuativa al rischio radiologico, al pari delle ferie ordinarie, attende alla funzione di recupero delle energie psico-fisiche del lavoratore, con la conseguente spettanza del compenso sostitutivo qualora l'interessato non abbia potuto godere di tale congedo per ragioni non dipendenti dalla sua volontà. (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 7.5.2013, n. 2472)

 
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Nel giudizio in esame il Consiglio di Stato ha esaminato la questione riguardante la richiesta di monetizzazione del congedo aggiuntivo non goduto dagli appellanti dal momento del riconoscimento della loro condizione di professionalmente esposti al rischio radiologico. Al riguardo si deve ricordar ... Continua a leggere

 

Rinnovo del consiglio comunale e per l’elezione del sindaco nei comuni con più di 15.000 abitanti: i criteri che presiedono all’attribuzione del cd. "premio di maggioranza" ai sensi dell’art. 73 del D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267

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La quaestio iuris oggetto di giudizio si incentra sui criteri che presiedono all’attribuzione del cd. "premio di maggioranza" ai sensi dell’art. 73 del D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, recante la disciplina per il rinnovo del consiglio comunale e per l’elezione del sindaco nei comuni con più di 15.000 abitanti. La citata disposizione di legge, al comma 10, dispone testualmente: "Qualora un candidato alla carica di sindaco sia proclamato eletto al primo turno, alla lista o al gruppo di liste a lui collegate che non abbia già conseguito, ai sensi del comma 8, almeno il 60 per cento dei seggi del consiglio, ma abbia ottenuto almeno il 40 per cento dei voti validi, viene assegnato il 60 per cento dei seggi, sempreché nessuna altra lista o altro gruppo di liste collegate abbia superato il 50 per cento dei voti validi. Qualora un candidato alla carica di sindaco sia proclamato eletto al secondo turno, alla lista o al gruppo di liste ad esso collegate che non abbia già conseguito, ai sensi del comma 8, almeno il 60 per cento dei seggi del consiglio, viene assegnato il 60 per cento dei seggi, sempreché nessuna altra lista o altro gruppo di liste collegate al primo turno abbia già superato nel turno medesimo il 50 per cento dei voti validi. I restanti seggi vengono assegnati alle altre liste o gruppi di liste collegate ai sensi del comma 8". Nel caso di specie il numero totale di seggi da assegnare è pari a ventiquattro e il 60% di questi, da attribuire, quale premio di maggioranza, alle liste collegate al candidato sindaco vincente, darebbe un risultato pari a 14,4. Occorre, quindi, valutare se si debba operare un arrotondamento all’unità inferiore o superiore, a seconda che si interpreti l’indicato 60% come limite "massimo", nel senso quindi dell’attribuzione di "non più del 60%", ovvero limite "minimo", ossia nel senso del riconoscimento, quale soglia percentuale in ogni caso garantita, di "almeno il 60%". Questo Collegio ritiene, in adesione all’indirizzo prevalente sostenuto dalla Sezione, che argomenti di natura letterale e teleologica depongano in favore della seconda interpretazione (da ultimo Cons. Stato, sez. V, 30 gennaio 2013 n, 571; 12 febbraio 2013, n. 810; contra, sez. V, n. 2928/2012). Prendendo le mosse dal dato schiettamente letterale risulta significativo il dato che la disposizione prevede l’attribuzione del premio di maggioranza del 60% quando il gruppo di liste collegato al candidato sindaco eletto non abbia conseguito consegue "almeno" il 60% dei seggi del consiglio e nessuna altra lista o altro gruppo di liste collegate al primo turno abbia già superato nel turno medesimo il 50% dei voti validi. Il dato letterale si salda con l’argomento teleologico, in quanto la considerazione del mancato raggiungimento di detta quota minimale quale presupposto per l’attribuzione del premio evidenzia la volontà legislativa di ritenere tale percentuale alla stregua di soglia minima e intangibile spettante alle liste collegate al sindaco eletto, al fine di assicurare stabilità e governabilità all’ente locale. Detta quota percentuale funge, quindi, da parametro che cristallizza, ad un tempo, il presupposto negativo per l’attribuzione del premio e la consistenza minima del premio medesimo. Si soddisfa in tal guisa la finalità, perseguita dalla normativa in parola, di garantire la governabilità dei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti grazie alla costituzione, in favore del sindaco eletto, di una maggioranza stabile identificata per legge nella più volte rammentata misura minima del 60%. Si deve aggiungere che la diversa soluzione dell’arrotondamento per difetto impedirebbe l’applicazione del meccanismo correttivo che la legge prevede invece quale conseguenza indefettibile del mancato raggiungimento, anche in ragione di frazioni di punto, della soglia minima del 60%. Va infine osservato, a contrario, che il criterio dell’arrotondamento per difetto della cifra decimale inferiore a 50 centesimi è previsto espressamente da altre disposizioni del testo unico, e segnatamente dall’art. 71, comma 8, relativo alla elezione del Sindaco e del Consiglio comunale nei Comuni sino a 15.000 abitanti, dall’art. 75, comma 8, riguardo alla elezione del consiglio provinciale e dell’art. 73, comma 1, . per l’ elezione del consiglio comunale nei Comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, limitatamente però al numero minimo e massimo dei candidati che devono essere compresi nelle liste elettorali. Tale arrotondamento per difetto non è invece estensibile al diverso caso del premio di maggioranza di cui all’articolo 73, comma 10, cit, per il quale il dato letterale e l’argomento teleologico impongono, alla stregua delle considerazioni esposte, il riconoscimento della quota minima del 60%. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 7.5.2013, n. 2468)

 
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La quaestio iuris oggetto di giudizio si incentra sui criteri che presiedono all’attribuzione del cd. "premio di maggioranza" ai sensi dell’art. 73 del D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, recante la disciplina per il rinnovo del consiglio comunale e per l’elezione del sindaco nei comuni con più di 15.00 ... Continua a leggere

 

Il rito del silenzio: l'adozione di un provvedimento esplicito, anche non satisfattivo dell'interesse fatto valere, in risposta all'istanza dell'interessato, rende il ricorso inammissibile per carenza originaria dell'interesse ad agire, se il provvedimento interviene prima della proposizione del ricorso

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Il presupposto per l'applicazione del rito speciale è il silenzio della P.A. e, in particolare, l'omissione di provvedimento che acquista rilevanza come ipotesi di silenzio - rifiuto, attraverso il relativo, caratteristico procedimento, quando la medesima si sia resa inadempiente, restando inerte,ad un obbligo di provvedere. Scopo del ricorso contro il silenzio rifiuto è ottenere un provvedimento esplicito dell'Amministrazione, che elimini lo stato di inerzia ed assicuri al privato una decisione che investe la fondatezza o meno della sua pretesa. L'interesse all'impugnazione del silenzio serbato dall'Amministrazione sull'istanza del privato non viene meno per il solo fatto che sia stato emesso un atto meramente istruttorio o comunque interno, dovendosi verificare se sia stato emesso un provvedimento che corrisponda nel suo contenuto a quello tipico previsto dalla legge, anche se non satisfattivo. Quindi l'adozione di un provvedimento esplicito (anche non satisfattivo dell'interesse fatto valere), in risposta all'istanza dell'interessato, rende il ricorso inammissibile per carenza originaria dell'interesse ad agire, se il provvedimento interviene prima della proposizione del ricorso. Ciò in quanto il privato ha ottenuto il risultato al quale mira il giudizio, ossia il superamento della situazione di inerzia procedimentale e di violazione/elusione dell'obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso entro i termini all'uopo previsti; nel caso in cui il provvedimento sopravvenuto sia ritenuto illegittimo, il soggetto interessato è tutelato dalla normativa in materia che consente di proporre contro di esso una nuova impugnazione, anche, ex art. 117 del c.p.a., con motivi aggiunti. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 7.5.2013, n. 2465)

 
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Il presupposto per l'applicazione del rito speciale è il silenzio della P.A. e, in particolare, l'omissione di provvedimento che acquista rilevanza come ipotesi di silenzio - rifiuto, attraverso il relativo, caratteristico procedimento, quando la medesima si sia resa inadempiente, restando inerte, ... Continua a leggere

 

È possibile la ricostruzione della carriera qualora sia riconosciuta l’illegittimità dell’interruzione del rapporto di lavoro

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La giurisprudenza ammette la ricostruzione della carriera allorquando sia riconosciuta l’illegittimità dell’interruzione del rapporto di lavoro, mentre, nella specie, come si è detto, non sussiste alcuna pronuncia che abbia dichiarato illegittima "l’interruzione del rapporto di lavoro", ma vi è stato un atto di riammissione in servizio (a seguito di domanda e di procedimento disciplinare) che ha ricostituito il rapporto di impiego dell’interessato con i limiti previsti della legge n. 19 del 1990. Da ciò deriva che non spetta al dipendente riammesso in servizio l’integrale ricostruzione della carriera (per tutte, Cons. Stato, sez. IV, 5 novembre 2012, n. 5618) ma solo la ricostruzione della posizione di status (attribuzione della qualifica, livello ed anzianità posseduti alla data della precedente cessazione dal servizio), con esclusione della "restitutio in integrum" relativamente al trattamento retributivo che, in base al principio di sinallagmaticità, va erogato a fronte dell'effettività della prestazione lavorativa (Cons. Stato, sez. VI, 27 dicembre 2006, n. 7978) e, in generale,dell’integrale ricostruzione di carriera sia giuridica, sia economica (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 5 ottobre 2006, n. 5925 e sez. IV, 15 luglio 2008, n. 3522). (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 7.5.2013, n. 2455)

 
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I provvedimenti adottati dall'IVASS (ex ISVAP) vanno impugnati nei termini, entrambi dimidiati, per la notificazione dell’appello e per il successivo deposito, in ragione dell’applicabilità del rito abbreviato ex art. 119, comma 1 lett. b), del codice del processo amministrativo

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Il Consiglio di Stato ha affermato la fondatezza dell’eccezione di irricevibilità del ricorso in appello, sollevata dall’Istituto appellato sotto il profilo della violazione dei termini, entrambi dimidiati, per la notificazione dell’appello e per il successivo deposito, in ragione dell’applicabilità, alla fattispecie in esame, del rito abbreviato ex art. 119, comma 1 lett. b), del codice del processo amministrativo, essendo impugnato il provvedimento di un’autorità amministrativa indipendente (segnatamente, il provvedimento ISVAP n. 795/pd/11 del 23 giugno 2011, con il quale l’odierna appellante, a conclusione di correlativo procedimento disciplinare, è stata radiata/cancellata dal registro degli intermediari assicurativi e riassicurativi, ai sensi dell’art. 329, comma 1 lett. c), d.lgs. 7 settembre 2005, n. 205). l’ISVAP - Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e d’interesse collettivo (oggi, IVASS - Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni) svolge compiti esclusivi di regolazione e vigilanza sul settore assicurativo, che lo hanno svincolato da ogni forma originaria, e sia pure attenuata, di assoggettamento a poteri governativi o ministeriali di indirizzo, controllo o vigilanza. L’ampiezza e l’esclusività dei poteri di regolazione e vigilanza del settore assicurativo, i connessi poteri regolamentari, i rapporti di collaborazione e scambio informativo con altre autorità indipendenti (Banca d’Italia, Commissione nazionale per le società e la borsa, Commissione di vigilanza sui fondi pensione) e la finalizzazione delle varie attribuzioni alla più complessiva funzione di garanzia della trasparenza e della concorrenzialità del mercato assicurativo, ne connotano la natura giuridica quale autorità amministrativa indipendente, presentando l’Istituto appellato i tratti distintivi essenziali degli enti di tale tipo, costituiti dalla separazione e autonomia dal governo e, in generale, dal potere esecutivo nelle sue articolazioni ministeriali, in ragione della preposizione alla cura e tutela di diritti ed interessi costituzionalmente rilevanti, in settori ordinamentali di primaria importanza. Il Collegio ha ritenuto pertanto l’applicabilità, alle controversie instaurate avverso le determinazioni ISVAP, della disciplina dettata dal citato art. 119 del codice del processo amministrativo, alla quale accede, per quanto qui interessa, la dimidiazione del termine per la proposizione dell’appello (nella specie, in assenza di notifica della sentenza, da sei a tre mesi), e di quello per il deposito del ricorso (da trenta a quindici giorni), essendo nei processi assoggettati al rito abbreviato la deroga al dimezzamento dei termini limitata al solo ricorso introduttivo dei giudizi di primo grado (v. sul punto, per tutte, Cons. St., Sez. V, 10 gennaio 2012, n. 28). (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.5.2013, n. 2568)

 
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Il Consiglio di Stato ha affermato la fondatezza dell’eccezione di irricevibilità del ricorso in appello, sollevata dall’Istituto appellato sotto il profilo della violazione dei termini, entrambi dimidiati, per la notificazione dell’appello e per il successivo deposito, in ragione dell’applicabilit ... Continua a leggere

 

Risarcimento del danno a carico della P.A.: il giudice può affermare la responsabilità dell'Amministrazione per danni conseguenti a un atto illegittimo quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato

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Per giurisprudenza pacifica, ai fini dell'ammissibilità della domanda di risarcimento del danno a carico della Pubblica amministrazione non è sufficiente il solo annullamento del provvedimento lesivo, ma è altresì necessaria la prova del danno subito e la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo ovvero della colpa. Si deve quindi verificare se l'adozione e l'esecuzione dell'atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede alle quali l'esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi, con la conseguenza che il giudice amministrativo può affermare la responsabilità dell'Amministrazione per danni conseguenti a un atto illegittimo quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato. Viceversa la responsabilità deve essere negata quando l'indagine presupposta conduce al riconoscimento dell'errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (fra le più recenti: Consiglio di Stato, sez. IV, 7 gennaio 2013 n. 23; Consiglio di Stato sez. V, 31 luglio 2012 n. 4337). (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 6.5.2013, n. 2452)

 
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Mobilità del personale organico alle Forze Armate: la possibilità di essere trasferito dopo tre anni di permanenza in una sede disagiata spetta unicamente al militare che in tale sede è stato in precedenza trasferito d’autorità e non a chi è stato trasferito su domanda

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Il Consiglio di Stato nella sentenza attenzionata è chiamato a verificare la legittimità o meno del diniego opposto dall’Amministrazione della Difesa in ordine alla domanda di trasferimento dell’appellante sottufficiale da una sede di servizio considerata disagiata ( Teulada ), avanzata dall’interessato ai sensi della normativa costituita dalle c.d. direttive contenute nel Testo Unico sulle procedure per l’impiego del personale militare dell’Esercito del 2008. Sostiene in particolare l’interessato che in applicazione delle suindicate direttive, egli ha sostanzialmente diritto ad essere trasferito da Teulada, dopo aver compiuto il triennio di permanenza in detta sede disagiata, come peraltro già disposto dalla stessa Amministrazione per altri colleghi. Tale assunto non è stato accolto dal Consiglio di Stato che in primo luogo ha respinta la censura circa l’avvenuta violazione della disposizione legislativa di cui all’art.10 bis della legge n. 241/90. Sono state più volte sottolineate da questo Consiglio di Stato la natura e la specialità degli atti riguardanti il trasferimento dei militari (cfr Sez. IV n.623/2011) e si è avuto modo di far presente come in realtà le determinazioni che riguardano la mobilità del personale organico alle Forze Armate risponde a dei fini strettamente organizzativi, per cui, anche in presenza di trasferimenti a domanda, gli atti che definiscono tali istanze, quanto alla normativa di riferimento, subiscono alcuni limiti, nel senso che ad essi non appare applicabile tout court la normativa di tipo garantista dettata dalla legge sul procedimento amministrativo (cfr Sez. IV nn. 6273/09 e 7614/09) e se così è, nella specie, non appare configurabile a carico del provvedimento negativamente assunto il vizio di mancata comunicazione delle ragioni ostative. Tornando alla quaestio iuris fondamentalmente dedotta in giudizio, una corretta applicazione delle regole ermeneutiche da utilizzarsi per la "lettura" del regime giuridico disciplinante il rapporto che viene in rilevo, porta a concludere per la legittima fondatezza delle ragioni addotte dall’Amministrazione a sostegno dell’opposto diniego. Ritiene invero il Ministero che l'appellante non possa giovarsi del chiesto trasferimento, in quanto la possibilità di essere trasferito da una sede disagiata come Teulada spetti unicamente al militare che in tale sede è stato in precedenza trasferito d’autorità e non a chi come l’appellante è stato trasferito su domanda. Ebbene, un tale assunto appare corretto, posto che si rivela congruo in relazione ai principi fondamentali che regolano la materia dei trasferimenti nell’ambito dell’organizzazione militare e soprattutto non contrasta con la normative dettata dal testo unico sulle procedure per l’impiego del personale militare dell’Esercito edizione 2008 ai sensi della quale pure l’interessato ha inteso far valere il suo " diritto" al trasferimento ad altra sede. Nelle predette direttive, invero, è previsto che il militare, dopo tre anni di permanenza in sede disagiata può chiedere, a domanda, di essere trasferito ad una sede di suo gradimento ed è altresì vero che in detta normativa non è prevista la limitazione costituita dal fatto che nella sede di "partenza " il militare a suo tempo deve essere stato trasferito di autorità: nondimeno, ritiene il Collegio che l’assenza di un apposito divieto per i trasferiti a domanda non impedisce all’Amministrazione di denegare il chiesto " ulteriore" trasferimento. Invero, avuto riguardo allo status di militare e alla specialità dell’organizzazione militare, il trasferimento a domanda costituisce un beneficio che in un certo qual modo deroga alla regole per così dire anelastiche finalizzate ad assicurare le esigenze organizzative proprie delle strutture militari, sicchè, l’ulteriore domanda di trasferimento si atteggia come ulteriore deroga e quindi si impone una lettura restrittiva delle disposizioni che regolano la mobilità degli appartenenti alle Forze Armate, con la conseguenza che le aspettative rappresentate dal singolo militare aspirante al trasferimento appaiono decisamente recessive rispetto alle superiori esigenze organizzative proprie dall’Amministrazione della Difesa, senza che possa ravvisarsi nell’opposto diniego, in assenza di un aspecifica disposizione che deponga univocamente in senso voluto dall’attuale appellante, una illogicità o arbitrarietà della determinazione negativamente assunta. Insomma nella interpretazione del caso de quo, appare ragionevole ritenere che il favor costituito dalla possibilità di fare domanda di trasferimento dopo tre anni di permanenza in sede disagiata va riconosciuto esclusivamente per coloro che hanno già subito la "deteriore" assegnazione d’ufficio a tale sede, sì da "premiarli", una volta che i medesimi hanno espletato per un periodo di tempo prefissato il servizio nella struttura sita in quella località. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 6.5.2013, n. 2439)

 
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Il decreto del Presidente della Repubblica, che decide il ricorso straordinario in conformità del parere del Consiglio di Stato, è impugnabile con ricorso per cassazione solo per motivi attinenti alla giurisdizione

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Secondo orientamento ormai consolidato della Corte regolatrice il decreto del Presidente della Repubblica, che decide il ricorso straordinario in conformità del parere del Consiglio di Stato, è impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 362, comma 1, cod. proc. civ., solo per motiviattinenti alla giurisdizione, e non anche con le altre censure di diritto previste dall’art. 360 cod. proc. civ., e che il decreto decisorio sul ricorso straordinario, una volta divenuto definitivo, è assimilabile al giudicato amministrativo ed è, quindi, suscettibile di essere azionato nel giudizio di ottemperanza (v. in tal senso, da ultimo, Cass. Civ., Sez. Un., 19 dicembre 2012, n. 23464, con ulteriori richiami giurisprudenziali). (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.5.2013, n. 2567)

 
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I provvedimenti amministrativi sono efficaci ed esecutivi anche in pendenza di giudizio, salvo che non venga disposta cautelativamente la loro sospensione

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Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato ha evidenziato come risponda ad un principio generale di effettività dell’ordinamento giuridico la regola secondo la quale i provvedimenti amministrativi sono efficaci ed esecutivi anche in pendenza di giudizio, salvo che non venga disposta cautelativamente la loro sospensione. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 6.5.2013, n. 2431)

 
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Impossibile per il giudice annullare il provvedimento amministrativo che si fonda su una pluralità di motivi, se all'esito del giudizio risulti fondato anche un solo motivo

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La consolidata giurisprudenza (Cons. Stato, VI, 17 luglio 2008, n. 3609; V, 6 giugno 2011, n. 3382; V, 21 ottobre 2011, n. 5683; IV, 6 luglio 2012, n. 3970), quando un provvedimento amministrativo negativo è fondato su una pluralità di motivi, è sufficiente che resti dimostrata, all’esito del giudizio, la fondatezza di uno solo di questi perché ne derivi la consolidazione dell’atto, stante l’impossibilità di disporne l’annullamento giurisdizionale. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 6.5.2013, n. 2409)

 
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Diniego di accesso ai verbali dei collegi dei docenti: dalla qualità di componente di organo collegiale dell’istituzione scolastica consegue l'interesse concreto e diretto, oltre che qualificato, a disporre di copia degli atti e dei verbali inerenti all’attività del collegio stesso, per verifica, approfondimento, memoria dell’iter di formazione della volontà collegiale

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Il componente di un organo collegiale dell’amministrazione ha un interesse concreto e diretto, oltre che qualificato, a disporre di copia degli atti e dei verbali inerenti all’attività del collegio stesso, per verifica, approfondimento, memoria dell’iter di formazione della volontà collegiale (cfr.Cons. Stato, VI, 9 giugno 2005, n. 3042); disponibilità che non può essere circoscritta solo all’occasione delle riunioni cui egli partecipa o della apposizione della firma ai verbali ad esse relativi. Proprio alla qualità di componente di organo collegiale dell’istituzione scolastica si riconnette l’interesse, cui la disponibilità della documentazione può essere funzionale, ad ogni utile iniziativa sul piano propositivo e deliberativo per il miglior perseguimento degli interessi di rilievo pubblico che fanno capo all’istituzione stessa. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 6.5.2013, n. 2423)

 
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Il componente di un organo collegiale dell’amministrazione ha un interesse concreto e diretto, oltre che qualificato, a disporre di copia degli atti e dei verbali inerenti all’attività del collegio stesso, per verifica, approfondimento, memoria dell’iter di formazione della volontà collegiale (cfr. ... Continua a leggere

 

Provvedimento di revisione della patente di guida: ai fini dell'adozione del provvedimento basta l'insorgenza di dubbi sulla persistenza, nei titolari, dei requisiti fisici e psichici o della idoneità tecnica, non è necessario l'accertamento della responsabilità del soggetto nella cassazione del sinistro

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Nel caso concreto a seguito di un incidente che causava il decesso di un passeggero che viaggiava nella vettura dell’appellante, nei confronti di quest'ultimo veniva disposta la revisione della patente. Il provvedimento veniva impugnato e sia il TAR che il Consiglio di Stato hanno rigettato il gravame rilevando come il sinistro costituisce, per la sua gravità, ex se elemento idoneo a ingenerare nell’autorità amministrativa quel dubbio, richiesto dall’art. 128 CdS, tale da legittimare il procedimento di revisione della patente di guida. A tali conclusioni il Collegio perviene in quanto L’art. 128 del Codice della Strada, prevede, tra l’altro, che "gli uffici competenti del Dipartimento per i trasporti terresti nonché il Prefetto nei casi previsti dagli articoli 186 e 187, possono disporre che siano sottoposti a visita medica presso la commissione medica locale . . . o ad esame di idoneità i titolari di patente di guida qualora sorgano dubbi sulla sussistenza nei medesimi dei requisiti fisici e psichici prescritti o dell’idoneità tecnica. L’esito della visita medica o dell’esame di idoneità sono comunicati ai competenti uffici del Dipartimento per i trasporti terresti per gli eventuali provvedimenti di sospensione o revoca della patente". Come è dato osservare "il presupposto che legittima la revisione della patente di guida risiede nella insorgenza di dubbi sulla persistenza, nei titolari, dei requisiti fisici e psichici o della idoneità tecnica". Ciò che legittima l’autorità competente a disporre la revisione della patente di guida, dunque, non è rappresentato dalla "certezza" della responsabilità del conducente, bensì dal dubbio, ingenerato dalla dinamica di un sinistro ovvero dalla complessiva condotta di guida tenuta, sulla persistenza dei requisiti psico – fisici ovvero dell’idoneità tecnica. Alla ratio dell’art. 128, comma 1, Codice della Strada è del tutto estraneo ogni accertamento di responsabilità in ordine ad un sinistro intervenuto, essendo invece sufficiente che, dal complesso delle circostanze, possa desumersi – in base ad un procedimento deduttivo immune da vizi logici o evidente irragionevolezza – la necessità di un accertamento sulla detta persistenza dei requisiti ovvero dell’idoneità tecnica. Alla base del procedimento deduttivo può, inoltre, come ancora una volta condivisibilmente afferma la sentenza impugnata, essere posta "qualunque situazione di fatto che, avendo stretta attinenza alla condotta da tenere durante la circolazione stradale, prospetta una anomalia comportamentale del titolare della patente di guida tale da esigere una verifica della sua perdurante idoneità alla guida". (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 6.5.2013, n. 2430)

 
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Nel caso concreto a seguito di un incidente che causava il decesso di un passeggero che viaggiava nella vettura dell’appellante, nei confronti di quest'ultimo veniva disposta la revisione della patente. Il provvedimento veniva impugnato e sia il TAR che il Consiglio di Stato hanno rigettato il grav ... Continua a leggere

 

Decreto di perenzione ultradecennale: nei casi di comunicazione dell’avviso di segreteria a mezzo fax, quando manchi il preventivo consenso del destinatario e residui, a fronte di opposizione del ricorrente, il dubbio che l’avviso stesso sia stato non solo inviato ma altresì ricevuto rende necessaria la reiscrizione della causa sul ruolo

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E’ appellata la sentenza con la quale il TAR Sardegna ha respinto l’opposizione avverso decreto di perenzione ultradecennale pronunciato dal Presidente di quel Tribunale. Dinanzi all’opposizione, incentrata sulla mancata ricezione dell’avviso di presentazione di nuova istanza di fissazione, ex art. 9 l.205/2000, asseritamente causata da un malfunzionamento dell’apparecchio fax del domiciliatario, il TAR ha evidenziato la presunzione di ricezione connessa al rapporto di trasmissione positiva, e rilevato l’insussistenza, nel caso di specie, di una prova tale da superare detta presunzione. Trattasi di contestazione avente ad oggetto il mancato recapito dell’avviso previsto dall’art 9 della legge 205/2000, finalizzato alla verifica dell’interesse alla prosecuzione del processo nonostante il lungo decorso temporale, avviso propedeutico rispetto alla dichiarazione di perenzione. La norma, all’epoca vigente, prevedeva che "…a cura della segreteria è notificato alle parti costituite, dopo il decorso di dieci anni dalla data di deposito dei ricorsi, apposito avviso in virtù del quale è fatto onere alle parti ricorrenti di presentare nuova istanza di fissazione d'udienza con la firma delle parti entro sei mesi dalla data di notifica dell'avviso medesimo. I ricorsi per i quali non sia stata presentata nuova domanda di fissazione vengono, dopo il decorso infruttuoso del termine assegnato, dichiarati perenti….." L’art. 12 della legge n. 205/2000 disponeva inoltre che "il presidente del tribunale può disporre che la notifica del ricorso o di provvedimenti sia effettuata con qualunque mezzo idoneo, compresi quelli per via telematica o telefax, ai sensi dell’art. 151 del codice di procedura civile". A prescindere dall’esistenza di un decreto presidenziale che espressamente autorizzasse alla notifica via fax (circostanza non contestata), giova rilevare che, nel caso di specie, il ricorrente si è semplicemente limitato, nell’ambito del ricorso originario (3338/1996 RG), ad eleggere domicilio presso lo studio dell’avvocato Macis, in Cagliari, ma non ha specificatamente autorizzato l’effettuazione di comunicazioni via fax. In difetto di un preventivo assenso non può quindi discorrersi di presunzione di ricezione, né tale presunzione è deducibile dalle caratteristiche tecnologiche del mezzo. L’appellante ha prodotto oltre ad una dichiarazione del domiciliatario in ordine al malfunzionamento dell’apparecchio fax (non in relazione al singolo episodio, ma per tutto il periodo del mese di gennaio), una fattura di avvenuta riparazione, emessa pochi giorni dopo quello di presunta notifica così come risultante dal rapporto di trasmissione in possesso della segreteria TAR. Trattasi invero di documentazione non esaustiva, ma comunque sufficiente a sollevare ragionevoli dubbi sull’effettiva ricezione del fax trasmesso, soprattutto ove si consideri, come già accennato, che una presunzione di ricezione sulla base del rapporto di trasmissione può giustificarsi come tale, solo ove la parte, costituendosi in giudizio, abbia manifestato la disponibilità a ricevere tale comunicazione a mezzo fax, presso una utenza indicata all’uopo. Alla carenza di consenso non può del resto supplire la funzionalità del mezzo, atteso che il telefax non fornisce alcuna garanzia in ordine al soggetto che materialmente raccoglie l’atto né in ordine alla effettiva leggibilità della copia spedita, in ciò differenziandosi nettamente dalla posta elettronica certificata, che perviene ad una casella di posta elettronica che si presume nella sola disponibilità del destinatario e che certamente consente al medesimo di ricevere una copia integra. In conclusione può richiamarsi il principio, di recente affermato dalla Sezione VI, per il quale "nei casi di comunicazione dell’avviso di segreteria a mezzo fax, quando manchi il preventivo consenso del destinatario e residui, a fronte di opposizione del ricorrente, il dubbio sull’effettivo conseguimento dello scopo, ossia che l’avviso stesso sia stato non solo inviato ma altresì ricevuto si rende necessaria la reiscrizione della causa sul ruolo" (cfr. Consiglio di Stato, Sez VI, 4 luglio 2012, n. 3909). (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 6.5.2013, n. 2425)

 
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E’ appellata la sentenza con la quale il TAR Sardegna ha respinto l’opposizione avverso decreto di perenzione ultradecennale pronunciato dal Presidente di quel Tribunale. Dinanzi all’opposizione, incentrata sulla mancata ricezione dell’avviso di presentazione di nuova istanza di fissazione, ex art ... Continua a leggere

 

Commissione di concorso: il giudice deve valutare la coerenza logica del giudizio operato dalla Commissione, ma non può sostituire o giustapporre alla valutazione della Commissione un proprio, differente giudizio

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Nel giudizio in esame il Ministero della Giustizia ha impugnato la sentenza del Tar che aveva accolto il ricorso proposto avverso il giudizio di non ammissione alle prove orali dell'esame di avvocato. Il Consiglio di Stato ha accolto l'appello richiamando quanto più volte affermato dalla giurisprudenza e cioè che: a) la Commissione giudicatrice di un concorso esprime, quanto alla sufficienza della preparazione del candidato, un giudizio tecnico- discrezionale caratterizzato da profili di puro merito…non sindacabile in sede di legittimità, salvo che risulti manifestamente viziato da illogicità, irragionevolezza, arbitrarietà o travisamento (Cons. Stato Sez. IV, n.1237/2008); b) il giudice deve valutare la coerenza logica del giudizio operato dalla Commissione, ma non può sostituire o giustapporre alla valutazione della Commissione un proprio, differente giudizio (Cons. Stato Sez. IV n.5581/2012) Nella specie, tali regulae iuris risultano palesemente non osservate, atteso che il Tar con le gravate statuizioni ha proceduto ad un (non consentito) rinnovato giudizio delle prove, giungendo a formulare un giudizio positivo, che costituisce esercizio di proprio, autonomo potere valutativo, senza invece ripercorrere il percorso logico seguito dall’organo straordinario dell’amministrazione e in ciò si rinvengono gli estremi di una sorte di eccesso di potere giurisdizionale. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 9.5.2013, n. 2509)

 
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Mansioni superiori dei dipendenti pubblici inquadrati nell’Area medica del comparto Sanità: lo svolgimento di mansioni superiori da parte dell’aiuto ospedaliero, oltre il limite dei 60 giorni per anno solare, comporta l’attribuzione a suo favore del trattamento economico corrispondente all’attività effettivamente svolta, detratti 60 giorni per ogni anno solare

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Il Consiglio di Stato rinviando alla sentenza Corte Costituzionale n. 296/1990 ed alla Adunanza Plenaria n. 2/1991 per la ricostruzione del quadro normativo di riferimento dell’epoca, ha affermato che non ha motivi per discostarsi dal consolidato (anche se non monolitico) orientamento espresso dalConsiglio (anche di recente) in materia di mansioni superiori dei dipendenti pubblici inquadrati nell’Area medica del comparto Sanità: pertanto, visto l’art.29 DPR n. 761/1979 e l’art. 7 dpr. 128/1969, ha diritto alle differenze retributive l’aiuto che – in osservanza di urgenti e inderogabili esigenze del servizio sanitario- svolge le funzioni del primario su posto vacante per un periodo superiore ai 60 giorni per anno solare (vedi ex multis C.d.S. n.248/2012 e n.1406/2011). Inoltre, la giurisprudenza di segno opposto richiamata nell’appello si riferisce in gran parte alla nuova disciplina introdotta dal d.lgs. n. 29/1993 e relativa alle mansioni superiori in comparti del pubblico impiego diversi da quello della Sanità e del personale medico; in particolare, quanto alla pretesa necessità del conferimento formale dell’incarico per le funzioni superiori, neanche i precedenti di questa Sezione del 2011 citati nella memoria ULSS (febbraio 2012) risultano pertinenti, poiché non riguardano personale medico oppure sono motivati con riferimento alla contestazione in fatto dell’effettivo esercizio delle mansioni superiori da parte del medico aspirante alle differenze stipendiali......Quanto, poi, alla mancanza dell’atto formale di conferimento dell’incarico primariale, la giurisprudenza consolidata ha affermato che il carattere inderogabile ed urgente di tali funzioni, nonché lo speculare obbligo di sostituzione del primario ai fini dell’ordinato andamento del Servizio sanitario, giustificano anche l’esercizio in via di fatto delle mansioni superiori da parte dell’aiuto corresponsabile (vedi ex multis anche C d S n. 4521/2010 e n. 4235/2010). Come ha rilevato la Corte Costituzionale con sentenza n. 296/1990, lo svolgimento di mansioni superiori da parte dell’aiuto ospedaliero, oltre il limite dei 60 giorni per anno solare, comporta l’attribuzione a suo favore del trattamento economico corrispondente all’attività effettivamente svolta in diretta applicazione dell’art. 36 Cost. ne e dell’art. 2126 c.c. Pertanto correttamente il TAR ha riconosciuto a favore del ricorrente le differenze stipendiali, detratti 60 giorni per ogni anno solare, per il periodo indicato. (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 3.5.2013, n. 2403)

 
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La comunicazione di preavviso di diniego ex art. 10 bis Legge n. 241/90 e' assoggettata alle stesse regole valevoli per la comunicazione di avvio del procedimento

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Nel giudizio in esame e' stata, tra l'altro, dedotta violazione dell’art. 10 bis della l. n. 241/1990 per avere il Comune respinto un’istanza della ricorrente senza preavviso delle ragioni di diniego. Il Consiglio di Stato ha ritenuto incondivisibile tale censura, atteso che la comunicazione va considerata quale provvedimento conclusivo di un procedimento ad istanza di parte ma la comunicazione di preavviso di diniego nei procedimenti di tal guisa deve ritenersi assoggettata alle stesse regole valevoli per la comunicazione di avvio del procedimento, con conseguente superamento del vizio formale in questione nelle ipotesi, come quella di specie, in cui la comunicazione di avvio del procedimento non è necessaria. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 2.5.2013, n. 2402)

 
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Nel giudizio in esame e' stata, tra l'altro, dedotta violazione dell’art. 10 bis della l. n. 241/1990 per avere il Comune respinto un’istanza della ricorrente senza preavviso delle ragioni di diniego. Il Consiglio di Stato ha ritenuto incondivisibile tale censura, atteso che la comunicazione va con ... Continua a leggere

 
 
 
 
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